Menu

L’azione del Sudafrica è una sconfitta dell’Occidente

Per comprendere l’attuale azione politico-legale del Sud Africa nei confronti di Israele occorre fare un quadro più ampio, parlando dei rapporti tra Tel Aviv e l’Africa, e della funzione svolta dall’entità sionista nel continente africano.

L’azione del Sud Africa alla Corte Internazionale di Giustizia, non è solo un un avvenimento giuridico senza precedenti, ma segna un capovolgimento geopolitico evidente.

Infatti, mentre tutti i popoli del mondo constatano, attraverso la tragedia palestinese, l’uso a geometria variabile da parte dell’Europa e degli Stati Uniti dei valori “universalistici” dei quali si professano campioni indiscussi, il Sudafrica è un paese simbolo delle cause emancipatrici, anti-colonialistte e anti-razziste di quello che veniva chiamato “Terzo Mondo”. Ed è questo,ora,  che ridà un corpo a quei valori.

Andiamo con ordine.

Vi sono in Africa un certo numero di stati che non riconoscono Israele: Algeria, Tunisia, Mali, Niger, Mauritania e Gibuti.

Vi sono poi alcuni paesi africani che formalmente riconoscono Israele e mantengono rapporti economici, ma considerano che il trattamento della questione palestinese sia “immorale”, in particolare dopo la rappresaglia israeliana successiva al “Diluvio d’Al-Aqsa” del 7 ottobre.

Tra questi vi sono la Nigeria, e ancor di più l’Africa del Sud. Come ha affermato il ricercatore Benjamin Augé, in un’intervista a Le Monde pubblicata 17 ottobre scorso: «malgrado le assai forti reazioni economiche, Il Congresso Nazionale Africano (ANC, al potere) resta inflessibile di fronte al conflitto israeliano-palestinese».

L’ANC, dalla fine formale dell’Apartheid negli Anni Novanta, governa con il sostegno critico del Partito Comunista del Sud Africa (SACP) e le due formazioni hanno condotto insieme la lotta nella clandestinità contro il regime di Pretoria per circa 50 anni.

Vi sono poi il Marocco ed il Sudan, che all’interno della cornice dei cosiddetti “Accordi di Abramo” stabiliti durante l’amministrazione Trump e di fatto confermati dall’attuale presidenza statunitense, miravano a normalizzare le le relazioni diplomatiche con l’entità sionista, allargando lo spettro  dei paesi africani e  “arabi” – oltre l’Egitto e la Giordania –  che l’avevano già fatto.

Ci sono poi dei tradizionali alleati israeliani come il Camerun, il Kenya, il Ghana, il Togo, e la Repubblica Democratica del Congo.

Sono paesi che hanno mantenuto delle relazioni con l’entità sionista anche dopo due momenti di rottura storica con Israele nel continente, come la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, o la Guerra del Kippur nel 1973.

Nessuno di questi però ha un ruolo geopolitico di primo piano a livello continentale, come si può constatare rispetto alle prese di posizione su Israele all’interno dell’Unione Africana (UA).

L’UA si è infatti rifiutata di condannare l’azione del 7 ottobre di Hamas, e supportata da tutta la Resistenza palestinese, e bisogna ricordare che sebbene sia stato accordato ad Israele nel 2021 lo statuto di osservatore, questo risulta assolutamente solo “sulla carta”, visto che Algeria, Nigeria e Africa del Sud non ne vogliono assolutamente sentire parlare.

L’ANP, anche lei membro osservatore della UA, si esprime invece regolarmente dalla tribuna dell’organizzazione africana, segno che i rapporti di forza all’interno dell’organizzazione propendono verso la causa palesinese.

Non è un segreto che Israele abbia svolto un ruolo di avamposto della contro-rivoluzione nelle dinamiche dei processi di liberazione africani dall’indipendenza algerina (1954-1962) fino alla lotta contro l’apartheid che aveva in Tel Aviv un acerrimo nemico, Israele era infatti un fedele alleato del regime segregazionista di Pretoria e ne spalleggiava apertamente le avventure militari nell’Africa australe.

In generale, solo 6 paesi africani (su 44), hanno manifestato – dopo il 7 ottobre – il proprio sostegno ad Israele, e persino governi che hanno strette relazioni economiche, come il Ruanda, non l’hanno fatto.

La politica d’Israele si è concentrata, sotto Netanyahu, su coloro i quali già la riconoscevano, non estendendo perciò la sua influenza, che è rimasta piuttosto debole.

L’entità sionista ha solo 12 rappresentanze diplomatiche nel continente – due delle quali (Ghana e Ruanda) aperte durante la leadership di Netanyahu.

Un dato importante, considerato che Israele è stato un vettore della penetrazione degli interessi occidentali nel continente “post-coloniale”, e tenuto conto del progressivo erodersi dell’influenza dei tradizionali attori geo-politici a beneficio di Cina, Russia e Turchia, in particolare, sullo sfondo dell’affermazione di un mondo sempre più multipolare.

Anche dove ci sono forti investimenti economici israeliani, come nel settore minerario – in Angola e nella RDC per esempio – questi non hanno aiutato a cambiare l’ecosistema politico e ad aumentare il peso politico di Tel Aviv nella regione.

In sintesi: i legami economici (dovuti alla divisione del lavoro a livello internazionale) non necessariamente si trasformano in buone relazioni politiche.

Di conseguenza, le possibili difficoltà a “reciderli” – dovute ancora alle interconnessioni delle catene del valore, comunque in via di frammentazione – non escludono un’azione politico-diplomatica conseguente nei confronti del conflitto israeliano-palestinese.

Certamente bisogna ricordare che l’aiuto militare israeliano costituisce, o meglio ha costituito fino ad ora, una “assicurazione sulla vita” per la sopravvivenza di alcuni regimi africani.

Pensiamo al caso del Camerun, dove Paul Biya si appoggia a dei membri di Tsahal (l’esercito israeliano), per inquadrare l’unità d’élite dell’esercito creata nel 1999 – il Battaglione d’Intervento Rapido (BIR) -; o quello del Ciad (territorio dove hanno ripiegato i contingenti francesi cacciati da Mai e Niger), che a febbraio dell’anno scorso ha aperto una ambasciata a Tel Aviv, e vorrebbe acquistare del materiale militare israeliano.

Certamente lo “smacco” subito il 7 ottobre ne ha offuscato l’immagine di ‘campione dei sistemi di sicurezza’ e l’appeal del suo apparato militare-industriale agli occhi di chi pensava di affidarsi ad Israele.

Venendo specificatamente alla politica del Sudafrica dopo il 7 ottobre, bisogna ricordare che nonostante le pressioni in senso filo-israeliano dell’opposizione di “destra” del SAJBD, ha mantenuto una posizione coerente, anche grazie alla pressione popolare, molto attiva, da parte della sua opposizione di “sinistra”.

Ci sono stati anche scontri a Città del Capo, nella prima metà di novembre, tra manifestanti pro-israeliani e filo-palestinesi, con quest’ultimi che si sono presi la piazza a scapito dei primi.

Bisogna anche ricordare che nel paese è presente la più importante comunità ebraica nell’Africa sub-sahariana.

Poco prima del Summit dei Brics in Sud-Africa, Israele, aveva annunciato il 20 novembre il richiamo del suo ambasciatore da Pretoria. Una decisione in risposta a quella analoga del Sudafrica, del 6 novembre.

La «riunione congiunta straordinaria» dei Brics su Gaza è stata condotta dal presidente sud-africano Cyril Ramaphosa, presidente in carica del consesso.

Il capo della diplomazia sud-africana, Naledi Pandor, era stato ad già inizio di novembre piuttosto esplicito: «Noi sappiamo, come sapete, estremamente preoccupati dal perpetuarsi di morti di bambini e di civili innocenti nei Territori palestinesi, e noi pensiamo che la risposta d’Israele è divenuta una punizione collettiva».

Il giudizio di “punizione collettiva” è presto integrato con quello di genocidio.

Così si esprime Ramaphosa di fronte ai rappresentanti dei 5 paesi dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina oltre al Sud Africa).

«La punizione collettiva dei civili palestinesi attraverso l’uso della forza da parte d’ Israele è un crimine di guerra»; ed aggiunge: «il rifiuto deliberato di fornire dei medicamenti, del carburante, del cibo e dell’acqua agli abitanti di Gaza equivale ad un genocidio».

Parole come pietre, dentro un consesso internazionale, con la precisa richiesta nei confronti della comunità internazionale di convergere verso «azioni urgenti e concrete per mettere fine alle sofferenze a Gaza e aprire la porte ad una risoluzione giusta e pacifica del conflitto».

Di qui è seguita la puntuale azione di Pretoria che ha investito la Corte Internazionale di Giustizia, dopo avere chiesto – insieme ad altri stati – una inchiesta alla Corte Penale Internazionale sulla guerra in corso.

Così, il 29 dicembre il Sudafrica investe la Corte Internazionale di giustizia di una denuncia contro Israele per la violazione della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimini di genocidio, con un documento di 84 pagine in cui viene messo in evidenza il carattere intenzionale dell’azione dei responsabili israeliani e dei militari ad alto livello.

Gli avvocati del Sud Africa si sono basati sui rapporti delle Nazioni Unite, i reportages dei giornalisti sul campo e le ricerche di varie ONG.

Per i legali del paese africano, questo genocidio viene svolto «sullo sfondo dell’apartheid, dell’espulsione, della pulizia etnica, dell’annessione, dell’occupazione, della discriminazione, della negazione del diritto dei Palestinesi all’autodeterminazione».

É interessante ricordare che la prevenzione di un genocidio  teoricamente è obbligante per coloro che hanno sottoscritto (153 soggetti) la convenzione di Parigi del 9 dicembre 1948 e e può prevedere sanzioni, embargo sulle armi e rottura di relazioni diplomatiche nei confronti del paese che lo commette.

É la terza volta in vent’anni che tale organismo si trova a decidere su aspetti riguardanti il conflitto israeliano-palestinese.

Bisogna infatti ricordare che nel 2004 i 15 giudici che la compongono avevano dichiarato “illegale” il muro che separa la parte dei territori occupati da Israele, esigendo la sua demolizione.

Israele aveva ignorato tale giudizio nei confronti del “muro della vergogna” nel silenzio quasi totale della “comunità internazionale”.

Successivamente, invece nel 2018, l’ANP aveva accusato gli Stati Uniti di violare la convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche dopo la decisione di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme.

Attualmente questo dossier è ad un punto morto.

É chiaro che questa volta per le accuse formulate, e i paesi che hanno appoggiato il Sud Africa, questa azione politico-legale ha un peso ben più rilevante e inchioda maggiormente l’Occidente alle sue responsabilità.

Alla fine della sua arringa di fronte alla Corte, il ministro della giustizia sudafricano Ronald Lamola – che ha integrato il team dei legali – non poteva essere più esplicito denunciando «il fallimento del sistema internazionale a mobilitarsi per prevenire il genocidio a Gaza».

Il modo in cui il blocco euro-atlantico sta affrontando questo genocidio è un vistoso esempio del carattere pretestuoso e solo ideologico del suo rappresentarsi come “paladino di valori universali”.

L’azione del Sud Africa e dei paesi che lo hanno sostenuto offre una profondità strategica anche a coloro che, in Occidente, lottano per il cessate il fuoco e una pace che si coniughi con la giustizia nei confronti dei palestinesi, oltre ad essere una conferma della sua storia di lotta antirazzista ed anticoloniale, nonché del suo nuovo protagonismo nel contesto del mondo multipolare.

La campagna di boicottaggio, dis-investimento e di sanzionamento nei confronti di Israele ne trae così ulteriore forza e legittimità politica anche qui in Occidente, dove l’onda lunga della solidarietà con la Palestina trova nuovo vigore.

Come affermava Mandela: «La nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi».

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

5 Commenti



  • Maurizio

    Davvero complimenti!!!
    Sembra scritto da un giurista palestinese.
    Autori come Marchetti (adesso vado a vedere su Wikipedia) dovrebbero avere spazio ogni giorno sui media ufficiali (IN UN PAESE NORMALE).



  • salvatore drago

    Perchè da un gurista palestnese? A mio giudizio, l’articolo sembra scritto da un giornalista indpendente che egli sia sì o no giurista, palestinese o meno. Uno degli oltre 150 giornalisti che sono stati assassinati dall’esercito sionista proprio al fine che le atrocità commesse dall’esercito di Israele non venissero conosciute. E’ pur vero che avremmo bisogno di una stampa “libera” ma quando la avremo se non quando riusciremo a liberarci dal sistema che la tiene sotto stretto controllo ora foraggiandola e l’altra tenendola sotto scacco con le rinunce a “pubblicità” oltre che a leggi liberticide che offendono la semplice dizione di “libertà di stampa”? La avremmo, forse, e molto forse, se riusciscimo a far resuscitare i giornali e giornaletti che circolavano neigli anni settanta… So bene che la mia è una pia illusione, un’otopia, ma di che altro vivere avendo raggiunto e passati i settantanni se non di illusioni ed utopie?


  • Lollo

    Muri illegali, occupazioni illegali ed a mano armata, ghettizzazioni, misure repressive violente e sproporzionate ( ricordo i soldati che sparano ai bimbetti colpevoli di sassaiole ai blindati durante la prima intifada ). I crimini israeliani sono molteplici e ripetuto nel tempo. Il MUTISMO OCCIDENTALE NON C’ È DAL 7 OTTOBRE, ma da molto prima. Politicamente parlando intendo. Mai definitiva non esiste più nemmeno un vero occidente , inteso come vari stati indipendenti. Adesso esistono solo gl’ Americani ed il loro pensiero unico imperialista, assieme ai servi Nato ed UE.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *