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Per gli eroi autentici non si guasti il ricordo. A Gigi Riva

Gianni Brera – il più grande scrittore di sport di ogni tempo (oggi, in mezzo ad un’aurea mediocrità, solo Darwin Pastorin gioca nella stessa serie A di Brera, come ci giocavano Arpino e Gianni Mura) – scrisse nel 1976 un articolo su Gigi Riva, nell’occasione triste del suo terzo grave incidente di gioco che ne chiuse la carriera a soli 32 anni.

Quell’articolo è forse il più bel racconto breve mai scritto nella letteratura sportiva. Io lo lessi quando avevo quindici anni; fatto sta che, più della sobria prosa manzoniana, devo il mio modo di scrivere e raccontare alle acrobazie e rovesciate letterarie di Gianni Brera (nei commenti, un esempio recente, si parva licet).

Il dolore e la commossa ammirazione che traspaiono da questo articolo di Brera per Gigi Riva, eroe caduto, sono toccanti.

Gli anni sono passati, da quel 1976, molti ma non abbastanza, campione.

Ti conobbi seduto sui gradini fuori dal famoso ristorante a Cagliari, quello che tiene in permanenza un tavolo apparecchiato solo per te, sotto un tuo ritratto trionfante del 1970. Fumavi una sigaretta, fumavo io pure il mio mezzo toscano: fosti amichevole, gentile nella tua timidezza, scherzammo su quanto in realtà tutte queste prediche che ci han sempre fatto per farci smettere, alla fin fine, ci allungassero la vita.

Non abbastanza, campione. Non abbastanza.

Sento il dolore sordo del panta rei, quella stretta al cuore di quando cade anche l’eroe che ci illudevamo essere invincibile.

Gigi Riva è stato il miglior attaccante italiano di sempre.

Il nostro eroe. Rombo di tuono.

Massimo Zucchetti

*****

La notizia del grave incidente occorso a Luigi Riva mi è discesa nell’anima a tradimento, come un’amara colata di assenzio. Istintivamente ho riudito i lamenti di Lorca (“que no me dejas veerlo”) per il suo amico Ignacio riverso nell’arena.

Egli stesso, con voce roca ma ferma, si è raccomandato che non ne facessimo un dramma. Era però Luis Riva l’atleta grande e famoso che aveva pudore di mostrarsi per una volta, debole come gli altri, lui che della vita ha il concetto tragico di chi ha dovuto forzare il destino.

Proprio io, tra i primi, l’avevo visto sbozzarsi a fatica da un ossuto traccagno del mio paese lombardo. Fasci di muscoli guizzavano imperiosi fuor dell’impianto rozzo e quasi greve. Non molti lo capirono e dovette emigrare.

Lo fece bellissimo l’esercizio, peraltro scavandolo a vantaggio di prominenze decisamente michelangiolesche se non addirittura barocche. Nonché esaltarsi di questa nuova realtà della sua vita, egli era fatto cauto dal ricordo di troppe miserie vissute e sofferte a Leggiuno.

Ancor oggi lo vedo sollevarsi da un bulicame confuso e informe di vittime predestinate alla fame e all’umiliazione. Si è ribellato come usano i romantici e gli eroi, troppo facilmente apparentati con quelli. Nel suo viso incavato erano scritti infiniti ricordi di dolore.

Nessun pericolo ha mai potuto arrestarlo. Ha sempre considerato possibili le acrobazie più temerarie, tanto più temibili e pericolose in quanto più vicine all’arcigna durezza della terra.

Spiriti meschini hanno talora fraintese le sue prodezze attribuendole al caso. Altri hanno ignorato la virile bellezza dell’atleta rifugiandosi nel molle decadentismo degli esteti. Inconsciamente e no abbiamo lottato per lui in Italia con i ricordi non proprio estinti degli evirati cantori.

Certo, i miaulii dei fighetti seducono più dell’urlo vibrato, non umiliano i deboli al paragone. Rombo di Tuono, io dissi un giorno per quasi incredulo entusiasmo, e trovai memoria di un re Brenno nel nostro etnos più antico.

Anche Brenno, come lui, era comancino ma Luis non era mai nato nel nostro calcio, costituiva fenomeno nuovo nuovissimo, sicché qualcuno esitava, poco riconoscente, a indicarlo quale degno erede di Silvio Piola, lui pure di sangue lombardo.

Piola era giusto di piede rozzo come il suo: ben altro però li doveva rivelare alla grandezza sportiva: innanzi tutto il coraggio, poi la potenza atletica, l’impeto generoso, la quadrata rudezza del carattere. Quel tanto di più armonioso ed equilibrato che era nel gesto di Piola diventava in re Brenno squassante potenza, irruente immagine di aggressione e fors’anche di rapina.

Le frustrazioni subite nell’infanzia gli impedivano ogni forma di prepotenza morale. Nessuno più di lui era disposto a capire gli umili. Pensandoci bene, nella sua fuga in Sardegna era improrogabile voglia di riscatto, direi di evasione nel sacrificio, e quindi fatalmente nel dolore.

Parlava di calcio come di un lavoro: non si e mai consentito il piacere di chiamarlo gioco: l’edonismo non era contemplato nella sua natura di ribelle che sapeva le umiliazioni dei vinti. Forse è subito piaciuto ai sardi perché anche loro sembrano mossi da un folle e talora persino torvo eroismo fuori del tempo.

I sardi vedevano in lui il campione, l’eletto che doveva riscattarli di fronte a una storia matrigna. L’hanno benvoluto e adottato prima che lo assalisse la nostalgia. Divenuto in pochi anni uno dell’isola, si è sottratto quasi del tutto ai crudeli complessi d’un’infanzia troppo a lungo umiliata nell’indigenza.

Per quanto impegnato sulla parola a essere suo biografo, ho durato fatica a capire io stesso perché non lo allettasse un ritorno in Lombardia. Gli offrivano ingenti ricchezze e ovviamente onori tifo amicizie importanti.

Preferiva rifugiarsi in casa di pescatori cagliaritani. Scopriva gli agi come glieli andava offrendo la natura, ancora per poco autentica in Sardegna. Vederlo stritolare e succhiare chele di aragosta era un godimento che sapeva fors’anche di vendetta.

I suoi amici sardi annuivano ridendo con i loro antichi visi di berberi. Senza saperlo, certo, si sentivano uniti dal sangue. Berberi erano anche i leponti che avevano popolato i laghi lombardi: da noi, in Italia, venivano chiamati liguri; ma tornare in Lombardia lo spaventava troppi fantasmi sgradevoli, ancora, sotto il suo cielo.

Quando ho conosciuto Riva, ho quasi subito intuito il suo drammatico destino e puerilmente mi sono sforzato di esaltarlo nel favoloso. Re Brenno è diventato Rombo di Tuono perché l’iperbole si addiceva ai suoi prodigi di atleta. Considerando lavoro, dunque sofferenza, il gioco del calcio, mai si e lagnato del proprio dolore fisico.

Due volte ha offerto quel che aveva di più necessario nel suo mestiere (per mera auto?ironia precisavano i suoi agiografi che aveva dato due gambe alla patria pedatoria). Ora parole grosse non vorrei dirne, esattamente come piace a lui: però non esistono nello sport altri esempi di dedizione pagata a cosi caro prezzo. Ed è sempre risorto obbedendo a una volontà che doveva anche dare sgomento ai troppi pusilli italiani.

Con i minatori del Sulcis

Non basta dire che l’aiutava l’agonismo a evadere dal suo difficile passato di privazioni. In effetti eravamo in presenza dell’eroe. Non commuovi un pastore accennando a gesti solamente vezzosi; non incanti a parole il vecchio incallito uomo di sport.

In Italia, dove tanto scarseggia, sul coraggio si preferirebbe scivolare con discrezione di comodo. Nossignori, che dobbiamo distinguere l’uomo dal piccolo barlafuso imbroglione, l’atleta che conosce il sacrificio generoso dal furbo fregnoncino capace di fingere e infinocchiare!

Certi spettacoli di calcio, in Italia, rasentano il fescennino burlesco, talché si potrebbe dire che a nobilitarli sia soltanto la ferocia dei meno bravi, il loro disperato e impietoso “struggle for life”.

Ma quando Rombo di Tuono distendeva le sue poderose falcate, nessun gesto poteva mai scadere a parodia agonistica. La qualità del suo lavoro appariva rozza soltanto agli incompetenti. In realtà la esaltava uno slancio irresistibile, un tempo raffinatissimo, un senso dell’impatto quale pochi possedevano al mondo.

Ho visto io Sivori strizzare gli occhietti furbi e consolare lo smargiasso che era in lui garantendo che con quelle botte si sarebbe squinternate le gambe: Rombo di Tuono esplodeva saette cogliendo al volo dal limite i lunghi traversoni di Domenghini e altri dall’ala: colpito in pieno collo, il pallone schiattava letteralmente fra i pali.

Incompreso da tutti che non l’avessero già visto e conosciuto in Sardegna, Rombo di Tuono perdette un mondiale che per altri portò anche vergogna. Gli invidi abatini lo ignorarono il giorno della prova decisiva per averlo forse capito fin troppo.

Al ritorno da Durham s’impose per nostro totale scorno di spregiatori gabbati e resipiscenti. Come un antico eroe, ebbe finalmente l’apoteosi per fatiche non indegne – disi mi? – della leggenda erculea: batte il vento Scirocco, maligno figlio di Eolo, africano di nascita, molle persuasore delle nostre secolari fiacche mediterranee: supero l’ambigua ninfa Paura, costante abitatrice dei nostri cieli; cavalco le nuvole per discenderne come un eroe (Lohengrin genannt) di miti un po’ meno labili dei nostri…

Nessuno sa la disperata impotenza dell’atleta che il mite clima delle sirene avvolge e deprime; nessuno la maledetta fifa che ti rode mentre con viso altero o distaccato compi l’innaturale e traumatica funzione del volo: se l’anima esiste, si abbotta come uno stinco percosso con la punta d’uno scarpone.

Non basta: per Rombo di Tuono si trovò compiutamente italiana, anzi campione!, una terra che non lo era mai stata se non nel sacrificio cruento, nei ripetuti massacri della guerra. Gli inviti al ritorno non ebbero più eco se non nel suo dispetto di isolano per elezione.

Visse giornate radiose e altre persino umilianti. Il suo destino tragico ne annullava le gioie proprio nei giorni riservati ai trionfi.

In Messico lo colse l’atroce stanchezza di anni vissuti nell’esaltazione ma soprattutto nel sacrificio. L’altura ne spossava i muscoli troppo forti. Un amore cercato per sopravvivere alle fatiche del campionato già vinto finì di intristirne gli umori. Soltanto nel finale ebbe modo di riscattarsi. E quando fu di ritorno senti magnificare altri che non ne aveva i meriti.

Guarì della stanchezza e della passione di donna applicandosi con l’orgoglio del campione ormai consacrato. Perdette quota con la società che aveva preteso troppo da lui e dall’isola. Ebbe una nuova frattura. Seppe rinascere. Ebbe uno strappo nella gamba d’appoggio, la destra, quando si annunciarono i nuovi mondiali. Naufragò con gli altri e praticamente chiuse.

Tentò di rinascere un’ennesima volta e il miracolo pareva già riuscito ancora. L’ha poi stroncato il destino. “No me dejas veerlo”, implorava Garcia per Ignacio riverso nel suo sangue. Io vorrei solo che degli eroi autentici non si guastasse mai il ricordo.

L’uomo Riva è un serio esempio per tutti. Il giocatore chiamato Rombo di Tuono è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi. Ne può discendere solo per prodigio: purtroppo la giovinezza, che ai prodigi dispone e prepara, ahi, giovinezza è spenta.

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3 Commenti


  • Pietro Palumbo

    forse le mie informazioni non sono corrette, ma a me risulta che G. Riva era uno di destra, un fascista a detta di molti. Ciò non toglie riconoscergli le qualità calcistiche che abbiamo conosciuto e la coerenza e sensibilità di cui si dice.


    • Redazione Contropiano

      Per fortuna, ti sbagli….


  • Sergio

    Amico di De Andrè.
    Era uno che capiva le motivazioni sociali del fenomeno banditismo in Sardegna.
    Venne a proporgli la candidatura lo stesso Berlusconi, se ne andò scornato.
    Al di là dell’ aspetto calcistico lo scudetto in Sardegna significò per la prima volta una sorta di riscatto per tutto un popolo. Per la prima volta i sardi non erano visti solo come banditi, pastori ecc. ma come un popolo con una sua dignità. ci volle un lombardo per capire questa natura ed egli stesso si identificò diventando un sardo più di altri.

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