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Il Medio Oriente dopo Mubarak: alba democratica o crisi dei popoli?

Le migliaia di profughi giunti in Italia dalle coste tunisine dimostrano che la transizione in quel paese non sta aprendo nuove prospettive ai suoi abitanti e, invece di condurre la Tunisia verso la democrazia, rischia di farla sprofondare nel caos, mentre i resti della vecchia élite al potere continuano a mostrarsi restii a coinvolgere le altre forze politiche nel processo decisionale.

In Egitto, l’esercito ha accentrato il potere nelle proprie mani, e le modalità della transizione dipenderanno interamente da esso. Le forze armate, che già rappresentavano la base storica del vecchio regime, sono uscite rafforzate da queste settimane di rivolta popolare, potendo contare sul monopolio della forza ed avendo intelligentemente gestito la collera della piazza, che si è rivolta soprattutto contro il presidente Mubarak e contro l’élite affaristica rappresentata dal figlio Gamal.
Quella egiziana è per il momento una rivoluzione incompiuta, e solo se la pressione popolare continuerà, l’esercito dovrà convincersi a rinunciare a molti dei propri privilegi politici ed economici, e ad aprire lo spazio politico ad un vero confronto democratico.
Gli analisti si sforzano di tracciare scenari futuri, anche se fino a questo momento – bisogna riconoscerlo – hanno totalmente fallito nel compito di prevedere ciò che si stava preparando sulla sponda sud del Mediterraneo.
Alcuni si attendono che l’Egitto seguirà un percorso simile a quello della Turchia, dove l’esercito mantiene un ruolo forte di garante dello Stato e della sua laicità, ma il paese si è progressivamente aperto alle riforme democratiche. Altri prevedono uno scenario di tipo “pakistano”, in cui l’esercito e i servizi di intelligence mantengono il monopolio del potere mentre governi civili deboli e corrotti si succedono senza disporre di reali capacità decisionali.
Lo scenario di una rivoluzione islamica in stile “iraniano” sembra essere stato finalmente accantonato da molti (sebbene fissazioni di questo genere siano dure a morire), di fronte all’evidenza dei fatti che hanno mostrato al mondo un movimento popolare democratico che porta avanti rivendicazioni civili e non ideologiche, né religiose.
Ma, per quanto le opinioni degli osservatori divergano, pochi prevedono in Egitto una rapida evoluzione verso la democrazia. Quantomeno sarà necessario un nuovo round nell’attuale confronto tra le forze della conservazione (le élite del potere militare e finanziario) da un lato, e le emergenti forze civili e democratiche dall’altro, prima che questa evoluzione possa aver luogo.

SE SI RISVEGLIA L’EGITTO…
Tuttavia, mentre l’Egitto – preceduto dalla Tunisia – si incammina verso un futuro incerto, gli eventi egiziani e tunisini hanno assestato una tremenda scossa ai fragili equilibri dello status quo sociale e politico in Medio Oriente.
Se gli eventi tunisini hanno fornito la scintilla iniziale, il fatto che l’incendio si sia propagato all’Egitto – il paese più popoloso, e storicamente e culturalmente più influente del mondo arabo – ha trasformato immediatamente una crisi locale in un terremoto regionale le cui scosse si avvertono tuttora in Algeria, Giordania, Palestina, e Yemen, e le cui ripercussioni potrebbero addirittura valicare i confini del mondo arabo arrivando a lambire l’Iran (come lasciano presagire le manifestazioni di questi giorni), dove nell’estate del 2009 il Movimento Verde diede il via alle rivendicazioni democratiche nella regione.
Il fatto che l’ondata di protesta abbia acquisito dimensioni regionali (seppure con caratteristiche che inevitabilmente variano da paese a paese) fa sì che la minaccia sia reale, non solo per i singoli regimi, ma per un intero ordine regionale rimasto ingessato per decenni.
Tra gli osservatori arabi è diffusa la sensazione che l’Egitto, la “madre del mondo”, come viene chiamato dagli arabi, il paese che negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso fu la guida politica del mondo arabo, si sia risvegliato dopo decenni di paralisi e di torpore.
Dall’Egitto sono nate e si sono diffuse le principali ideologie e correnti di pensiero del mondo arabo in tutto il XX secolo. Il “modernismo” diffusosi nella prima metà del ‘900 ha cercato di fondare i presupposti di un moderno pensiero arabo, attraverso una revisione della sua eredità religiosa e culturale a partire da principi razionalistici. Il panarabismo, che ha raggiunto il suo apice negli anni ’50 e ’60, ha cercato di liberare il mondo arabo dai residui del colonialismo europeo unendolo nel sogno di un’unità nazionale panaraba. L’islamismo, sorto sulle ceneri del sogno panarabo di Nasser, ha riscoperto l’eredità islamica degli arabi e ha cercato di dare nuovo slancio alle loro speranze di riscatto unendoli sotto la bandiera dell’identità religiosa.
Tutti questi movimenti ideologici e culturali sono nati in Egitto. Ora, dopo che l’ultimo grande sogno – quello islamista – si è infranto contro il muro intransigente dei regimi arabi dittatoriali, si è arenato in Libano e in Palestina, è affogato nel sangue, nel settarismo e nel fondamentalismo in Iraq e in Afghanistan, alcuni hanno visto una nuova speranza sorgere dall’Egitto.
“L’Egitto è sempre stato la sorgente delle rivoluzioni intellettuali che hanno scosso il mondo arabo e la cui eco si è avvertita in tutto il mondo”, scrive la professoressa saudita Madawi al-Rasheed dalle pagine del quotidiano al-Quds al-Arabi. Ogni città e ogni villaggio – prosegue al-Rasheed – renderà omaggio a Piazza Tahrir, e il contagio egiziano si estenderà proprio come è avvenuto con le rivoluzioni culturali del passato.
“Se l’Egitto è giunto, come Mosè, a dividere con il suo bastone le acque del mare affinché i concetti di una nuova rivoluzione che rifiuta la dittatura, e le immagini del raduno pacifico [di Piazza Tahrir], si riversino in un mondo che ancora cerca di ‘infrangere il muro della paura’ in paesi come l’Arabia Saudita, quali saranno le ripercussioni per il mondo arabo?”, si chiede al-Rasheed.
Questi entusiasmi non sono affatto isolati. Dal sito web di al-Jazeera, l’analista palestinese Lamis Andoni parla di nuovo panarabismo basato sulla lotta per la libertà e la giustizia sociale, e sul rifiuto della tirannia e della corruzione delle piccole élite politiche e finanziarie al potere.
Del resto, le foto di Gamal Abdel Nasser, il presidente egiziano considerato il massimo leader del panarabismo nella seconda metà del secolo scorso, sono circolate in moltissime manifestazioni svoltesi in queste settimane, non solo in Egitto ma anche in altre capitali arabe.
Tuttavia Landoni sostiene che, se il panarabismo degli anni ’50 e ’60 era rivolto contro la dominazione coloniale e contro la creazione dello Stato di Israele, ed affiancava alla lotta di liberazione nazionale la repressione del dissenso interno, il panarabismo attuale nasce dal rifiuto dell’ingiustizia sociale e dei regimi dittatoriali che la impongono, ed antepone le libertà democratiche ed i valori umani universali al gretto nazionalismo.
Ciò non vuol dire che non vi sia un elemento anti-imperialista nell’attuale movimento – prosegue Landoni – ma vi è la consapevolezza che l’emancipazione dell’uomo costituisce la vera base della libertà sia dalla repressione che dalla dominazione straniera.
In altre parole, secondo Landoni, anche la liberazione dell’Iraq e della Palestina può cominciare dalla democratizzazione dei paesi arabi. I movimenti islamici militanti hanno fallito proprio in questo: hanno creato un eccellente modello di “resistenza”, ma non hanno saputo offrire un modello di sviluppo e di Stato efficiente.
Che la rivolta egiziana sia stata una rivolta democratica, non ideologica, non religiosa, e non anti-israeliana, lo conferma anche un sondaggio condotto dal Washington Institute for Near East Policy (che non si distingue certo per essere filo-arabo, e tanto meno filo-islamico).
Solo il 15% del campione di egiziani intervistati ha affermato di appoggiare i Fratelli Musulmani. Solo il 12% ha anteposto la sharia alla democrazia o allo sviluppo economico fra le priorità nazionali. Riguardo al trattato di pace con Israele, il 37% ha detto di appoggiarlo, contro il 22% che ha dichiarato di opporvisi. E solo il 5% del campione ha affermato che la rivolta è avvenuta perché il regime era troppo filo-israeliano.
Pur prendendo con la dovuta cautela le percentuali di questo sondaggio, che sicuramente possono avere un certo margine di oscillazione, esso conferma una chiara tendenza, che è del resto ribadita da molti osservatori e da numerosi dati oggettivi.
Israele, dunque – come del resto l’Occidente – dovrebbe accogliere come una buona notizia un’eventuale democratizzazione dell’Egitto e del mondo arabo, poiché evidentemente essa rappresenterebbe una ricetta per il pragmatismo e un antidoto all’estremismo.
Questa democratizzazione non sarebbe invece una buona notizia per coloro che, all’interno di Israele, sostengono l’occupazione dei territori arabi, poiché un mondo arabo democratico tollererebbe l’occupazione molto meno di quanto non facciano gli attuali regimi che adottano politiche compiacenti nei confronti di Washington e Tel Aviv – il che, si badi bene, non significa che esso non tollererebbe l’esistenza di Israele.
Ma soprattutto, un mondo arabo democratico potrebbe ricorrere a strumenti democratici e di resistenza civile per opporsi all’occupazione – strumenti che Israele avrebbe molta più difficoltà a contrastare rispetto ai metodi della resistenza armata.

UN MOVIMENTO PER I DIRITTI CIVILI?
E’ evidente che la rivolta egiziana, come quella tunisina che l’ha preceduta, è stata essenzialmente una protesta a sostegno di specifiche rivendicazioni riguardanti la disoccupazione, l’abrogazione delle leggi di emergenza, l’equità sociale, e la partecipazione democratica.
Egiziani di tutte le classi sociali, di diverse convinzioni politiche, e di differenti fedi religiose si sono uniti a quello che alcuni hanno definito il movimento egiziano per i diritti civili.
Cristiani e musulmani, religiosi e laici, esponenti della classe medio-alta e delle classi più povere, abitanti delle campagne e delle città sono confluiti a Piazza Tahrir per esprimere pacificamente la loro frustrazione e la loro volontà di cambiamento.
I giovani hanno avuto un ruolo centrale in questo movimento. “In questo periodo, il mondo arabo ha subito dei cambiamenti sociali irreversibili, i quali sono stati semplicemente ignorati dall’Occidente e dai governanti arabi. Una statistica incredibile riassume questa situazione: due terzi dei 350 milioni di persone che vivono nel mondo arabo hanno meno di 35 anni”, scrive il giornalista somalo Rageh Omaar dalle pagine del Guardian.
Uno degli aspetti più trascurati di questa sollevazione popolare è stato poi il ruolo giocato dai sindacati, non solo in Egitto, ma anche in Tunisia. Al di là di Twitter e Facebook, sono stati i vecchi strumenti della classe operaia a dare un contributo fondamentale al movimento democratico.
Un’ondata senza precedenti di scioperi si è protratta dal 2004 fino ad oggi coinvolgendo centinaia di migliaia di lavoratori. Tali scioperi hanno colpito dapprima il settore tessile e dell’abbigliamento per poi estendersi al settore edile, a quello dei trasporti, e così via. Le rivendicazioni essenziali sono state il rispetto e la dignità del lavoro, le riforme democratiche e il miglioramento delle condizioni di vita.
Questi lavoratori hanno dimostrato di saper ricorrere a moderne forme di lotta, di fronte a un regime brutale che ha sempre soffocato con la violenza ogni forma di protesta. Uno degli strumenti vincenti è sicuramente stato quello di stringere legami con il movimento sindacale internazionale. Il sostegno dei sindacati di altri paesi è stato essenziale per convincere il regime ad allentare la repressione.
Come ha osservato l’attivista siriano Akram al-Bunni, il movimento di protesta ha poi operato una trasformazione miracolosa negli umori della piazza araba, finora tradizionalmente dominata da un misto di frustrazione, rassegnazione e disperazione.
Un interessamento di massa alle questioni della politica, che non si era mai registrato prima, ha favorito la mobilitazione popolare. La gente ha cominciato a trovare il coraggio di parlare apertamente, di denunciare le sopraffazioni e i soprusi degli apparati statali. Ciò ha spinto molti ad affermare che nel mondo arabo è finalmente crollato il “muro della paura”.

LE FORZE DELLA CONSERVAZIONE E DELLO STATUS QUO
Tuttavia, accanto agli aspetti positivi di questo movimento civile e democratico, manifestatosi in varie forme non solo in Egitto e in Tunisia, ma anche in altri paesi arabi, non bisogna dimenticare le altre forze che sono in gioco nella regione e che, sebbene caratterizzate da una crescente fragilità politica ed economica, conservano tuttavia numerosi punti di forza, ed in particolare il monopolio del potere finanziario, della forza militare, e degli apparati securitari e repressivi. Queste forze sono rappresentate dai regimi al potere e dalle élite che li sostengono, e dagli interessi delle potenze internazionali nella regione.
Tutti i governi arabi, praticamente senza eccezione alcuna, hanno cercato di correre ai ripari (ricorrendo, però, ad una serie di provvedimenti tampone che non cambiano nulla sul lungo periodo) di fronte al crollo di Ben Ali, e poi di Mubarak, e di fronte al dilagare delle proteste di piazza nei loro rispettivi paesi – proteste alimentate da una situazione drammatica che vede ampie fasce della popolazione vivere in condizioni spaventose di degrado e di emarginazione sociale, economica e politica, mentre ristrette élite monopolizzano il potere e le risorse economiche, vivendo una vita di lussi e sperperi totalmente separata dal resto della popolazione.
In Algeria, il regime ha abbassato i prezzi dei generi di prima necessità ed ha promesso l’abrogazione in tempi brevi dello stato di emergenza sotto la pressione di manifestazioni e sommosse sempre più incontrollabili. In Giordania, il re Abdullah ha sciolto il governo e nominato un nuovo primo ministro. Nello Yemen, il presidente Ali Abdullah Saleh ha promesso all’opposizione che non si sarebbe candidato per un nuovo mandato presidenziale. Nel Bahrein, il governo ha promesso 1.000 dinari (circa 2.650 dollari) ad ogni famiglia nel tentativo di contenere il malcontento e le rivendicazioni economiche.
Infine si è dimesso il governo dell’Autorità Palestinese guidato da Salam Fayyad, in un estremo e vano tentativo di ridare credibilità all’ANP. Lo scioglimento del governo segue le dimissioni di Saeb Erekat, il capo negoziatore palestinese, a seguito dello scandalo dei cosiddetti “Palestine Papers”, i documenti palestinesi rivelati da al-Jazeera e dal Guardian, che hanno messo in evidenza che l’ANP era disposta a fare concessioni senza precedenti, e inaccettabili per i palestinesi, a Israele – concessioni peraltro rifiutate da quest’ultima.
L’ANP rappresenta, agli occhi di molti arabi, un esempio tipico non solo della corruzione e inettitudine dei regimi arabi, ma anche delle ingerenze straniere che si servono di tali regimi per dominare la regione. La sua credibilità è stata irrimediabilmente macchiata dal fallimento del processo di pace e dalla sua incapacità di costruire le strutture di un futuro Stato palestinese. Essa appare ostaggio dei suoi finanziatori americani ed occidentali.
“Gli Stati Uniti hanno finanziato, equipaggiato e addestrato una nuova generazione di servizi di sicurezza palestinesi affinché servano il loro vecchio modello di governo nel mondo arabo: stati di polizia e repubbliche delle banane”, ha scritto l’uomo d’affari palestinese Sam Bahour dalla pagine del Guardian.
“Il principale fattore che impedisce ai palestinesi di proseguire nel loro cammino di riforme strutturali, dopo le loro prime elezioni democratiche nel 2006, è il rifiuto degli Stati Uniti di accettare i risultati di quelle elezioni”, prosegue Bahour, concludendo: “Aspettatevi un veto analogo da parte degli USA riguardo a qualsiasi passo egiziano verso una vera riforma elettorale che implichi una reale rappresentatività”.
Ma gli Stati Uniti non sono gli unici ad aver sostenuto lo status quo in tutti questi anni. Lo stesso hanno fatto regimi come quello saudita. Riyadh lo ha confermato ancora una volta proprio in queste settimane, esprimendo il proprio appoggio a Mubarak nei giorni della rivolta popolare egiziana, e addirittura denunciando “ingerenze straniere” negli affari interni egiziani quando gli Stati Uniti hanno cominciato a chiedere una transizione pacifica nel paese.
Dopo la caduta di Mubarak, l’Arabia Saudita ha espresso la speranza che gli sforzi dell’esercito egiziano ristabiliscano “la pace e la stabilità”. Nessun accenno a coloro che manifestavano per la democrazia.
Il governo israeliano non è stato da meno. Dopo aver esercitato pressioni sull’amministrazione americana e sui governi europei affinché venisse salvaguardata la “stabilità” dell’Egitto, impedendo in questo modo che il paese rischiasse di imboccare “la strada dell’Iran”, Tel Aviv si è molto tranquillizzata ora che il potere in Egitto sembra essere in mano all’esercito – un’istituzione che da decenni ha adottato una posizione filoamericana e non ostile ad Israele.
Infine non si può non citare il regime iraniano, che ha cercato di strumentalizzare la rivoluzione tunisina e quella egiziana definendole come “rivoluzioni islamiche”. Ma quella di Teheran, forse, è stata una mossa difensiva prima ancora che offensiva: il regime iraniano sa che le rivendicazioni degli egiziani non sono molto dissimili da quelle avanzate dal proprio movimento di opposizione interno, il Movimento Verde, nel 2009.
Le manifestazioni di lunedì scorso a Teheran, che il regime ha tentato di reprimere con lacrimogeni e manganelli, confermano che il “contagio” potrebbe estendersi addirittura all’Iran – e non si tratta del contagio della rivoluzione islamica di cui parlava Khamenei, ma delle rivendicazioni democratiche che, sollevate proprio da Teheran due anni fa, potrebbero tornare a farsi sentire in questo paese – dopo la repressione operata dal governo iraniano – proprio grazie al “vento democratico” che soffia da ovest, dai paesi del mondo arabo.

L’EUROPA SAPRA’ ASCOLTARE?
Il mondo intero deve prendere coscienza delle rivendicazioni di libertà e democrazia che si stanno sollevando dal mondo arabo e dall’intero Medio Oriente, ed allo stesso tempo deve rendersi conto del livello di disperazione e di emarginazione sociale, e degli abissi di povertà e di esclusione che sono stati toccati in paesi come l’Algeria, il Marocco, la Tunisia, l’Egitto, la Palestina, lo Yemen.
Quello che sta avvenendo in questi giorni sulle coste italiane, sommerse da un’ondata di profughi tunisini che non hanno più fiducia nel futuro del loro paese nonostante gli sforzi da loro profusi per renderlo più democratico e vivibile, è solo un piccolo esempio di ciò che potrà accadere se le aspirazioni di questi popoli non saranno accolte.
L’Europa saprà ascoltare? O rimarrà chiusa in se stessa e nella propria crisi di valori, sorda, e priva di strumenti che le permettano di comprendere l’importanza vitale che la democratizzazione dei paesi della sponda sud del Mediterraneo ha per il vecchio continente?
Come dimostrano gli sbarchi di questi giorni, l’Europa e il Mediterraneo hanno un destino comune. Il nostro continente, invecchiato e sclerotizzato, deve cogliere l’enorme potenziale di cambiamento e di rinnovamento che proviene da una regione giovane, che lancia un messaggio di speranza assieme a una richiesta di aiuto.
Non illudiamoci che, se l’alba democratica in Medio Oriente e nel Mediterraneo sarà soffocata, noi saremo risparmiati dalle conseguenze. L’alternativa a quest’alba è una crisi dei popoli, che come uno tsunami sommergerà il Mediterraneo e travolgerà le fragili difese della “Fortezza Europa”.

Fonte: medarabnews.com

 


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