«Frantz Fanon: Leggere I dannati della terra 50 anni dopo».
FRANTZ FANON, UN CLASSICO PER IL PRESENTE
di Miguel Mellino
Il 6 Dicembre 1961, nell’ospedale di Bethesda nel Maryland, moriva Frantz Fanon.
Nato nella Martinica nel 1925, psichiatra e filosofo divenuto militante organico del Fronte di liberazione nazionale algerino, Fanon morì stremato dalla leucemia pochi giorni dopo l’uscita della sua opera più nota: I dannati della terra. Anticolonialista radicale, morto malvolentieri «nel paese dei linciatori», nulla di meglio che ricordare una sua lettera ad un amico poco prima della morte per rendere lo stato d’animo che attraversa questo testo: «Caro Roger, la morte è sempre tra di noi e quindi ciò che conta
non è sapere se possiamo evitarla ma piuttosto se abbiamo raggiunto il massimo delle idee
per cui abbiamo lottato. Ciò che mi scoraggia qui nel mio letto di ospedale, mentre sento la mia forza andare via insieme al mio sangue, non è la morte in sé, ma morire di leucemia negli Stati Uniti, quando tre mesi fa avrei potuto morire combattendo il nemico, poiché sapevo di essere malato. Non siamo nulla su questa terra se non siamo prima di tutto schiavi di una causa, della causa dei popoli, della causa della giustizia e della libertà. Sappi che fino all’ultimo non farò che pensare al popolo algerino e ai popoli del Terzo Mondo, e che ogni mia perseveranza sarà solo per la loro causa». Come sappiamo, la causa per cui Fanon lottò ebbe la sua prima importante vittoria con la conquista dell’indipendenza dell’Algeria quasi un anno dopo questa lettera.
Un successo mondiale
I dannati della terra è stato uno dei testi più popolari negli anni Sessanta e Settanta in tutto il mondo. In buona parte dei paesi coloniali, divenne uno dei testi principali di riferimento per ogni militante impegnato nelle lotte di liberazione nazionale: sia contro ex potenze colonialiste intenzionate a conservare il proprio dominio, sia contro governi militari e democratici «indigeni», ma ritenuti complici della politica
neocoloniale degli Stati Uniti nei tre continenti del Sud del mondo. Anche all’interno degli Stati Uniti, il testo di Fanon non impiegò molto a diventare una sorta di manuale di formazione rivoluzionaria presso alcuni dei gruppi politici più radicali di quegli anni, ovvero nei campus in rivolta così come tra gli attivisti neri del Black Power o tra i militanti del «Black Panther Party». Bobby Seale e Huey P. Newton, fondatori
delle Pantere nere, consideravano il testo di Fanon di importanza fondamentale per le lotte antirazziste delle comunità afroamericane. Possiamo anche ricordare che l’introduzione del manifesto Black Power. The Politics of Liberation (di Stokely Carmichael e Charles Hamilton, 1967) si conclude con un riferimento al testo di Fanon. Mentre l’enorme popolarità de I dannati nei movimentati campus di allora è qualcosa che si può desumere dall’odio espresso da Hannah Arendt (nel suo Sulla violenza) nei confronti di tutti quei giovani bianchi e neri stregati dai «peggiori eccessi retorici di Fanon» e dalla sua «esaltazione della violenza».
In Europa, la sua ricezione è stata diversa. Il testo ebbe certamente notorietà e vi furono adesioni entusiaste, come quelle di Sartre e Simone de Beauvoir, di Giovanni Pirelli in Italia e del gruppo di intellettuali e attivisti riuniti a Parigi attorno alla rivista Partisans. Ma nel complesso l’atteggiamento riservato a I dannati da
parte delle sinistre e dagli ambienti politici europei più radicali dell’epoca oscillò tra un’accettazione «paternalistica», cioè meramente simpatetica (più che teorica e politica), la rimozione (consapevole) emolto spesso anche la critica frontale. I motivi di questo mancato incontro tra il pensiero politico radicale dominante nell’Europa di quegli anni e il terzomondismo di Fanon non sono difficili da rinvenire. Molto
schematicamente, si può dire che il linguaggio esistenzialista, dialettico e umanistico di Fanon, il suo nazionalismo intransigente (per quanto rivoluzionario e atipico), le sue idee di un proletariato industriale europeo, ritenuto integrato al progetto di dominio capitalistico, e il suo costante accento sui contadini e sul sottoproletariato
urbano dei paesimeno avanzati in quanto unici soggetti potenzialmente rivoluzionari
erano concezioni alquanto distanti da quelle particolari «strutture del sentire» che sono
andate affermandosi negli ambienti radicali europei attorno al 1968.
Ma se questo è ciò che ci dice la storia, perché organizzare a Napoli nel 2011 un convegno dedicato alla rilettura de I dannati della terra? È lo stesso titolo del convegno a suggerirci una prima risposta: sia in Fanon sia nel suo testo vi è oggi un qualcosa di enigmatico e di terribilmente attuale allo stesso tempo che continua a
mobilitarci. È proprio questo resto perennemente in eccesso, questo supplemento di significazione, a garantire la produttività dell’archivio fanoniano, ovvero a spingerci costantemente a leggere il presente attraverso Fanon e, viceversa, a leggere Fanon attraverso il presente.
Tanto per fare qualche esempio: quanti di noi non hanno pensato a Fanon e a questo suo «manifesto per la decolonizzazione» mentre le bombe della Nato colpivano
l’Afghanistan prima, l’Iraq poi e la Libia ora? Quanti di noi non hanno mai pensato a Fanon durante le insurrezioni nelle banlieues parigine del 2005? Quanti di noi non vi
hanno mai pensato di fronte alle consuete invettive contro veli e burqa da parte dei governi europei oppure di fronte al loro continuo inneggiare contro il multiculturalismo, contro quel meticciato che connota oramai in modo irreversibile i nostri spazi metropolitani?
Come non pensare a I dannati della terra e al suo programma per la decolonizzazione dell’Africa quando si parla della situazione attuale di paesi come la Costa d’Avorio, lo Zimbabwe o la Nigeria?
Oppure di fronte a quelle rivolte che oggi, a pochi chilometri dall’Italia, stanno sconvolgendo gli assetti politici del Maghreb, ovvero proprio di quella terra in cui Fanon aveva riposto le sue speranze rivoluzionarie? Eppure, anche se lo spettro di
Fanon continua ad aggirarsi dietro eventi come questi, non è mai facile afferrare in modo nitido quel qualcosa di terribilmente attuale che emana dai suoi testi e che li lega cosi visceralmente a tanti dei fenomeni che abbiamo sotto gli occhi.
A cinquanta anni dalla pubblicazione di quel testo, dunque, Fanon continua a interpellarci. Il suo grido disperato, la sua indignazione, le sue scelte radicali di fronte al perdurare della violenza economica e culturale inflitta da secoli dal colonialismo e dal razzismo sumilioni di uomini e di donne continuano a metterci alla prova; ci sollecitano a passare ancora una volta attraverso i suoi testi non soltanto
per cogliere qualcosa di più del mondo che abbiamo di fronte, ma anche per confrontarci con quel resto inafferrabile che ci parla della loro incessante attualità. Per tutto questo, ai fini di una comprensione politica più efficace del nostro presente, rileggere
I dannati della terra oggi può rivelarsi ancora un esercizio di grande utilità.
Tutto un altro mondo
La rilettura di questo testo cinquant’anni dopo non sta dunque a suggerire un mero esercizio esegetico o filologico. L’obiettivo non può ridursi a capire «cosa abbia detto veramente Fanon», come recitava qualche anno fa una collana di una nota casa editrice
italiana. È chiaro sin dall’inizio che i modi di leggere Fanon, 50 anni dopo, saranno molto diversi; ma soprattutto che ognuna di queste letture privilegerà delle priorità, non potrà che essere espressione di un determinato posizionamento – teorico e politico – di fronte alla realtà. Forse è proprio questo uno degli insegnamenti fondamentali che si
può trarre da Fanon: nessuna conoscenza è mai disinteressata; nessun sapere è mai politicamente imparziale.
Ogni analisi culturale e politica della realtà, ogni enunciato, presuppone un posizionamento, una scelta precisa, uno schieramento. Fanon fu molto chiaro su questo punto: a nulla servono i discorsi astratti sull’uomo, sull’umanità – come quelli tipici della tradizione liberal-democratica occidentale o della fenomenologia esistenziale europea di Sartre, Freud e Merleau-Ponty – se ciò che abbiamo di fronte non è una condizione umana comune, ma un mondo gerarchicamente diviso, un uomo amputato dalla sua umanità, ovvero un’intersoggettività barrata dalla violenza coloniale, dall’applicazione
secolare di saperi, leggi, politiche ed economie razzializzate al governo degli uomini.
È chiaro che il mondo di Fanon non è più il nostro mondo, ma l’attualità dei suoi testi sta nel fatto che siamo ancora alle prese con gli effetti di quello che egli chiamò «Europa», ovvero una combinazione mostruosa di capitalismo e razzismo. I movimenti
di liberazione nazionale hanno vinto, ma hanno anche perso. O viceversa. Poco importa. Entrambe le opzioni ci suggeriscono la stessa cosa: a parlarci dell’attualità dell’archivio fanoniano, a garantire la sua inarchiviabilità rispetto alla memoria e all’oblio, è soprattutto il suo racconto della lotta per la decolonizzazione, il suo progetto postcoloniale, nella sua «triplice dimensione», ovvero nella sua natura
insurrezionale, costituente e redentiva allo stesso tempo. Decolonizzazione significava infatti per Fanon lottare con ogni mezzo necessario per sottrarre la vita dalle forze che finiscono per soffocarla e annientarla.
Fanon ci interpella ancora oggi perché: 1) la realtà e l’idea dell’Impero sono ancora tra di noi (si pensi non solo all’Iraq, all’Afghanistan e all’attuale situazione in Libia, ma anche alle invettive di Angela Merkel, James Cameron, Nicolas Sarkozy e Silvio
Berlusconi contro la societàmulticulturale); 2) quella realtà multiforme e razzializzata – caratterizzata dalla coesistenza di diversi regimi di lavoro, di diverse
temporalità storico-culturali, di diverse gerarchie e status di cittadinanza – che secondo Fanon era tipica delle colonie oggi costituisce un elemento primario della composizione di classe nei nostri spazi metropolitani e infine 3) i processi di valorizzazione del capitalismo neoliberale contemporaneo, combinando
«accumulazione per espropriazione» e «finanziarizzazione», cercano oramai di appropriarsi
non soltanto deimezzi di produzione ma anche delle nostre vite. Così, l’uomo integrale di Fanon – il suo progetto di decolonizzazione e riumanizzazione dell’umanità – rialza la testa in ogni lotta del presente finalizzata alla riappropriazione della vita; in
ogni lotta del presente che non abbia per oggetto semplicemente un qualche misero ed effimero compenso corporativo, materiale o identitario, ma la ricostituzione di un nuovo comune umano, ovvero che rivendichi in modo determinato l’auto-gestione di tutte le risorse (materiali e intellettuali) come bene comune.
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