Da anni, grazie al generoso ruolo interpretato dalle miriadi di mobilitazioni che hanno attraversato questo territorio, è venuta alla luce una realtà materiale che mostra, inequivocabilmente, i disastri e le manomissioni che hanno segnato queste aree e il destino di milioni di persone.
Esiste, infatti, una ampia pubblicistica, elaborata dalle varie comunità in lotta ma anche da numerosi intellettuali e ricercatori indipendenti, la quale fornisce dati, notizie e cronologie di tale processo di devastazione ambientale che ha colpito, spesso in forme inesorabili, ampie zone della Campania.
A fronte di questo scenario, degno della più colorata cinematografia catastrofistica, nulla hanno fatto le varie forme di governance che si sono succedute negli ultimi anni. Nonostante l’evidenza di tali forme di disastro, nonostante il clamore sollevato, nonostante le migliaia di morti premature ascrivibili a questa situazione non è stato messo in campo nessun serio ed articolato intervento di bonifica e di risanamento territoriale.
Anzi, come se non bastasse, esistono accertati casi di presunte bonifiche i cui esiti, a volte anche giudiziari, sono stati peggiori dei punti di partenza e dove si è, di nuovo, rivelato il sapiente e collaudato intreccio tra pezzi del sistema imprenditoriale, criminalità organizzata e sottobosco politico affaristico.
Insomma non esistono esempi seri e significativi di bonifiche territoriali che, seppur in modalità certamente insufficienti rispetto all’entità del disastro prodotto, abbiano, in qualche maniera, invertito il ciclo di depauperamento ed avvelenamento dell’habitat e delle forme di vita della Campania.
Questa estate, poi, abbiamo assistito ad una nuova tappa di tale escalation antisociale che si è caratterizzata attraverso una serie impressionante di roghi di depositi di materiali chimici, di ecoballe, di discariche e di depositi di materiali pericolosi.
Da Acerra a Caivano, da Marigliano a Nola, da Capodichino alla zona vesuviana l’intero hinterland dell’area metropolitana è stato investito da una ondata di incendi appiccati in maniera dolosa per far scomparire rifiuti tossici e nocivi non identificati e fuori da ogni procedura di smaltimento autorizzato e controllato.
La conseguenza di questa allucinante serie di incendi è stato l’innalzamento vertiginoso dei picchi di diossina nell’aria e l’aumento dell’assorbimento di questa sostanza nella catena alimentare. Non è un caso che da qualche giorno, nelle aree attigue alle zone degli incendi, si susseguono sequestri di allevamenti di bestiame (http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=215579&sez=CAMPANIA#) con conseguenze drammatiche sul versante economico ed occupazionale.
Un cambio di passo.
L’evidente accelerata dell’insieme delle dinamiche di avvelenamento e di vera e propria distruzione del territorio campano è, oramai, un dato costitutivo ed immanente delle modalità in cui, in questo spaccato territoriale, si palesano quelle esemplificazioni del modo di produzione capitalistico che definiamo, analiticamente ed in termini propagandistici, attraverso il neologismo produzioni di morte.
Infatti, a determinate condizioni del ciclo di valorizzazione e di riproduzione del capitalismo – questo modo di produzione – nel suo procedere disordinato, parossistico ed antisociale, giunge ad una soglia di imbarbarimento e di virulenza che non esita a raggiungere punti di non ritorno nell’ambito dei contesti di inquinamento e aggressione del territorio.
Alla luce di questa maturità/senescenza di tale disastro bene fanno i comitati, le associazioni ambientaliste non compatibilizzate a non dare tregua al complesso dei programmi di ulteriore inquinamento del territorio costruendo controinformazione, mobilitazione e conflitto e pagando, come soventemente avviene dalle nostre parti, un enorme tributo in termini di repressione e criminalizzazione del dissenso.
Accanto a questo fondamentale versante inizia a configurarsi, fuori da ogni mitologia ideologica, un possibile piano dell’alternativa che pone il tema di come far vivere l’allusione ad un diverso modello di società e ad una diversa e più qualificata organizzazione dei rapporti sociali.
Tale rompicapo teorico/pratico sollecita una rinnovata funzione per una moderna soggettività comunista organizzata la quale mantiene l’ambizione ad un ruolo non testimoniale ma espansivo e, potenzialmente, egemonico.
Vicende come quelle in corso nell’area napoletana, casi come quello dell’ILVA di Taranto e le diversificate vertenze che presentano l’esplodere della contraddizione capitale/natura sono un banco di prova – anche sperimentale ed inedito – su cui, ed attorno cui, si può mettere a valore la capacità analitica dei comunisti e la loro duttilità alla relazione con i mutamenti del modo di produzione e della composizione di classe.
Su tale crinale si verifica questa attitudine e si posiziona un ragionamento politico/pratico proprio di chi ritiene che il capitalismo non sia la fine della storia e che le rivoluzioni non siano un fenomeno da archiviare delle narrazioni novecentesche.
* Rete dei comunisti – Napoli
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