Genova 2001 – Genova 2011: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione».
Note per una lettura globale della fase imperialista.
Chi soccombette in queste disfatte non fu la rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionari, risultato di rapporti sociali che non si erano ancora acuiti sino a diventare violenti contrasti di classe, persone, illusioni, idee, progetti, di cui il partito rivoluzionario non si era liberato prima della rivoluzione di febbraio e da cui poteva liberarlo non la vittoria di febbraio ma solamente una serie di sconfitte.
In una parola: il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario. (Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850)
Incipit
A distanza di dieci anni dalle giornate genovesi del 2001 la citazione posta a esergo del testo appare persino banale. Ciò che subito dopo il 1989 aveva iniziato a prendere forma, nell’arco grosso modo di un ventennio, ha trovato con la recente «campagna di Libia» la sua chiusura del cerchio1. Il luglio genovese, in tutto ciò, ha svolto un ruolo non secondario poiché ha mostrato, su un terreno di massa, il volto apertamente controrivoluzionario e dispotico che fa da sfondo al nuovo ordine mondiale anche dentro i rassicuranti territori dello «Stato di Diritto» del vecchio Primo Mondo. «Genova 2001» è stato un evento di non secondaria importanza poiché ha iniziato a porre in evidenza intorno a quali temi il «cuore del politico» avrebbe definitivamente preso forma negli anni futuri. A distanza di due lustri quattro sono gli aspetti che sembra sensato porre al centro dell’analisi politica attuale:
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La guerra come elemento costitutivo e costituente del nuovo ordine imperialista.
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La formazione di un proletariato globale la cui battaglia, oggettivamente, non può che condursi all’insegna dell’internazionalismo.
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Il tramonto dello Stato – questa la vera fuoriuscita dal Novecento – come apparato finalizzato nel mondo occidentale anche alla mediazione dei conflitti sociali attraverso la messa a regime di politiche sociali e l’emergere del suo ruolo, al contempo classico e puro, di comitato d’affari delle classi dominanti, macchina burocratica e militare finalizzata al dominio della borghesia imperialista, quindi con un ruolo di mediazione dei conflitti sociali sempre più ridotto.
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La crisi delle varie ipotesi socialdemocratiche finalizzate alla messa in forma di un «patto sociale» tra il proletariato indigeno e la borghesia del blocco imperialista di appartenenza.
Proprio la «campagna di Libia» offre la possibilità di chiarire, senza dubbi di sorta, il frame entro il quale si definisce il rapporto tra proletariato e borghesia su scala internazionale consentendo, al contempo, di fare piazza pulita di tutte quelle retoriche che, pur partendo da presupposti teorici diversi, avevano salutato l’era del capitalismo globale come rottura radicale e definitiva con tutto ciò che in maniera ampiamente indifferenziata veniva ascritta alla modernità2. Di colpo, con tutte le tare del caso, la «campagna di Libia» − più che a scenari post moderni − ci rimanda alla più prosaica epopea del colonialismo tout court e, con questa, alla multipolare competizione di gruppi e consorterie imperialiste ciascuna delle quali reclama, per sé e in completa autonomia, un posto al sole.3
In ordine politicamente sparso, perché ognuna rivendica diritti di conquista propri, le consorterie imperialiste si sono lanciate sulla preda libica facendo intravvedere che, quella campagna, non sarà altro che l’inizio di una nuova e grande avventura coloniale. Non a caso Francia e Inghilterra stanno manovrando per tornare in possesso di ciò che, assumendo una logica coloniale, appartiene loro di diritto. In Francia, tra l’altro, tale passaggio era stato da tempo teoricamente preparato attraverso una cospicua letteratura politologica che aveva riabilitato in gran parte l’epopea coloniale4. Sotto tale profilo, allora, la Libia può essere considerata il banco di prova sia per una nuova serie di azioni di conquista, sia un modo per saggiare quali e quante forze politiche e militari i diversi raggruppamenti imperialisti sono in grado di porre in campo. Ciò che appare chiaro è quanto la forma guerra detterà i tempi e i ritmi dell’agenda politica dei prossimi anni.
Nel 2001 tutto questo era, in gran parte, ancora in una fase di gestazione anche se, non poche avvisaglie, consentivano già allora se non altro di «fiutare» in quale direzione il vento soffiasse. Uno scenario internazionale «oggettivo», in quanto frutto delle esigenze proprie di una ben determinata fase imperialista che,a gran parte delle organizzazioni politiche attive dentro il «G8 genovese» è sfuggito sia nella sua fase preparatoria e ancor più dopo quando, di fronte alle feroci repressioni, hanno focalizzato l’attenzione sulle presunte aporie del Governo locale invece che ascrivere le medesime dentro i passaggi come dire «naturali» del presente ciclo capitalistico.
Per questi motivi il testo che presentiamo ha dedicato non poco spazio alla dimensione immediatamente internazionale a cui il «politico» oggi obbliga, evidenziando altresì quanto a dir poco miopi siano quelle posizioni che continuano a leggere, e quindi ad agire, le vicende storiche e politiche considerando i confini territoriali come ambiti ancora di per sé centrali ed esaustivi.
In seconda battuta si è provato ad analizzare la «linea di condotta» dell’attuale Governo e del suo blocco sociale emancipandola dall’abituale gossip legato ai comportamenti in apparenza non convenzionali dell’attuale Premier. Il potere politico, se da un lato nasce dalla canna del fucile, dall’altro, per mantenersi in carica e governare, deve fare affidamento su un «consenso» fatto di molteplici fattori. Tra questi, interessi materiali a parte, anche la messa in forma di un «pensiero forte», la condivisione di un insieme di «valori» e il conseguente sentirsi parte di un «tutto» che sembrano lasciare ben poco spazio alle retoriche care a gran parte dell’intellettualità di sinistra e ai movimenti da queste influenzati, intorno ala fine delle «grandi narrazioni» e il prevalere, a livello di massa, di un «pensiero debole» per non dire effimero5.
Sulla scia di ciò, prendendo a modello soprattutto la Lega Nord e la Chiesa cattolica, si è mostrato come le strutture politiche e sociali «pesanti», in pieno stile Novecentesco, siano tutto tranne che morte e sepolte, anzi. Proprio la Lega nord e la Chiesa cattolica mostrano al meglio come, in definitiva, la presenza costante e continua dentro i territori, nei luoghi di lavoro, nei circoli ricreativi sino ad arrivare alla propaganda porta a porta, mantengano inalterata la loro funzionalità e sensatezza. Una presenza capillare, ricca di «identitarismo»6, che consente a queste forze di imbrigliare non pochi settori di proletariato, classe operaia e masse subalterne. Sotto tale luce, allora, il Governo attuale più che un’aporia e un incidente di percorso frutto di una bizzarria della storia – eccessi ormonali del Premier a parte – si mostra come un laboratorio politico se non eccelso non proprio di infimo ordine.
Ciò che su scala internazionale si stanno sperimentando sono una serie di pratiche finalizzate a contenere il conflitto dentro lo scenario di crisi in cui il modo di produzione capitalistico è ampiamente precipitato. In questo senso il «laboratorio Italia» ne è parte del tutto legittima. La sostanziale tenuta degli assetti politici del sistema – Italia a fronte di una condizione sociale ed economica non proprio rosea qualcosa vorrà ben dire.
A partire da questa constatazione abbiamo dedicato alcuni paragrafi alla dimensione e alle forme che il conflitto di classe, almeno oggettivamente, assume sempre più nitidamente dentro la crisi.
A nostro avviso ciò che diventa centrale è capire, dentro la crisi, intorno a quali settori di classe internazionale si costruisce l’organizzazione politica di classe. Per questo abbiamo focalizzato lo sguardo intorno alla composizione di classe che il capitalismo globale ha sedimentato e alle lotte che, a partire dal Nord Africa, stanno scuotendo l’universo capitalistico. Lo abbiamo fatto mettendo queste lotte in collegamento, non ideale ma materiale, con le lotte sviluppatesi dentro le metropoli imperialiste europee, in primis la lotta della banlieue e collegando questa, sempre sul piano del suo legame materiale, con la lotta simbolo del popolo palestinese.
Un continuo attraversamento di «confini» del tutto in linea con quel processo di internazionalizzazione del comando capitalistico che oggi, solo gli stolti, non sono in grado di cogliere. Per questo abbiamo posto, come problema teorico, politico e organizzativo, la relazione oggettiva che lega le vicende «nostrane», come per esempio il «caso Fiat» alle lotte del proletariato nordafricano e al proletariato della banlieue.
La battaglia politica contro il «localismo» e le varie salse in cui è condito è la conditio sine qua non per la costruzione di un’organizzazione di classe all’altezza dei tempi.
Infine abbiamo tratteggiato la forma stato che nell’era del capitalismo globale sembra aver definitivamente, almeno nelle sue linee essenziali, aver preso piede.
In questo modo siamo tornati allo «stupore» che ha colto i più di fronte agli «eccessi» mostratisi nel corso del luglio 2001.
Con una disamina di quegli eventi inizia la nostra narrazione.
1 Per una buona descrizione degli scenari delineatisi immediatamente a ridosso degli eventi libici si veda, Limes, Il grande tsunami, Gruppo editoriale l’Espresso n. 1, 2011.
2 Cfr., Z. Bauman, Modernità liquida, Editori Laterza, Roma – Bari 2002.
3 Per una prima lettura in tal senso della «campagna di Libia» si vedano, Collettivo politico Fanon, «La guerra umanitaria…» l’Unione Europea, la Libia e la continuazione della politica con altri mezzi, Autoproduzione CAU, Napoli 2011; J. P. Pougaia, La vera ragione della guerra in Libia, in Contropiano, Giornale comunista on line.
4 Si vedano ad esempio, P. Péan, Noires fureurs, blanc menteurs. Rwuanda 1990 – 1991, Mille et une nuits, Paris 2005; S. Smith, Négrologie, L’Harmattan, Paris 1991.
5 Cfr., AA. VV., Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983.
6 La questione di una dimensione collettiva, anche se in forma alienata, continua a essere un aspetto importante delle masse subalterne. Al proposito si veda, Z. Bauman, Voglia di comunità, Editore Laterza, Roma – Bari 2001.
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