Era tanto prevedibile quanto inevitabile: tutti i cani da guardia (di sinistra) della borghesia imperialista si sono sentiti in dovere di dire la loro. Lo hanno fatto Alessandro Dal Lago su Liberazione del 12 agosto, Judith Revel e Toni Negri su Uninomade il 13 agosto.
Due prese di posizione apparentemente agli antipodi ma, a uno sguardo solo un poco più attento, non poco affini. Decostruire la posizione di Dal Lago è sin troppo semplice. Da buon riformista e opportunista si guarda bene dal legare la condizione di crisi attuale al modo di produzione capitalista, che non si sogna minimamente di tirare in mezzo, preferendo accanirsi sul solo “liberismo”; come se questo involucro ideologico non fosse l’armamentario elaborato ad hoc dalle borghesie imperialiste per l’attuale fase imperialista, ma quasi il parto malefico di qualche mente rozza e plebea. Dal Lago coglie l’albero – e questo lo fa sicuramente bene – senza però accorgersi della foresta.
Palese – ad esempio – il lapsus in merito alla guerra. Anche in questo caso, le politiche di guerra, non sarebbero il frutto maturo delle attuali politiche imperialiste, la guerra non sarebbe l’elemento costitutivo e costituente della nuova era globale, ma solo il frutto perverso di una linea politica particolarmente estremista. E quidi eliminabile per via elettorale. Ciò che Dal Lago non coglie è la tendenza oggettiva alla guerra perché, in tal caso, l’intero castello di carta su cui poggiano le sue argomentazione “illuminate” andrebbero immediatamente in frantumi. Il suo articolo lascia dunque il tempo che trova, così come tutte le velleità neosocialdemocratiche per cui, dentro la fase imperialista attuale, non vi è alcun spazio. Può, nella migliore delle ipotesi, suscitare un fremito di ciglia tra le dame dei salotti buoni, ma il tempo dei radical chic è abbondantemente scaduto.
Dentro la crisi, gli spazi di mediazione prima si restringono infine si annullano. Per gli imbonitori, ancorché ammantati di radicalismo, non c’è più storia. Basti pensare a come si risponde alla dmanda “chi paga la crisi?” O Noi o Loro. Non si conoscono altre alternative. Lo sanno bene i padroni, le masse sembrano, almeno in parte, cominciare ad intuirlo.
Sicuramente più accattivante e di ben altro spessore l’editoriale della coppia Negri/Revel. Per larghi tratti ciò che scrivono appare persino condivisibile. La lettura immediatamente internazionale degli eventi londinesi non è secondaria; e del resto Marx e Lenin, non sono certo autori a loro ignoti. Negri e Revel hanno, e occorre riconoscerglielo, il coraggio e il merito di pronunciare un termine, da anni oggetto di autocensura, quale insurrezione così come ripropongono, riecheggiando il “settarismo leniniano”, il concetto di “rottura”.
A fronte di uno schieramento politico che, in pieno stile tradeunionista, predica l’unità di tutti e a tutti i costi (ma contro chi?), quindi l’appiattimento sulle posizioni medie e arretrate delle masse, Negri e Revel provano a individuare nei punti più alti dello scontro – e nei soggetti sociali che lo praticano – la frazione di classe in grado di egemonizzare e trascinare, imponendo continuamente salti e forzature, anche gli strati arretrati. Dentro la crisi, si dà unità solo imponendo il punto di vista delle frazioni di classe che, oggettivamente, si pongono ai livelli più alti dello scontro. Rabat chiama Torino, Algeri chiama Londra, Tunisi chiama Parigi e così via.
Fin qui, il discorso non farebbe una piega. I problemi nascono subito dopo, quando dal piano analitico si passa sul terreno della prassi politica. Con non poca faccia tosta, Negri e Revel si liberano in un attimo di tutta la zavorra che per anni hanno contribuito ad accumulare e seminare, gettando a mare il reiterato istituzionalismo e cretinismo parlamentare nel quale i loro adepti meno svegli sono rimasti catturati. Fuor di metafora, mentre il mondo prende fuoco rincorrere Vendola non è neppure stupido, ma solo suicida; e Negri-Revel sono tutto tranne che dei fessi autolesionisti.
Fiutano il vento e si riposizionano “più a sinistra”, tornano estremisti. E lo fanno nel modo abituale degli estremisti: accodandosi alla masse, spiegando che – in questi primi esperimenti di rivolta spontanea – “tutto va bene già così com’è”. Come dire: “non interrogatevi oltre e non cercate soluzioni migliori”.
A loro avviso – e come sempre nel loro percorso teorico-politico – il problema non è come costruire il “partito dell’insurrezione” adeguato alla concreta fase storica, ma, in qualche modo, il partito sarebbe “già dato” dentro le pratiche insurrezionali spontanee. Come se le sconfitte, i durissimi prezzi pagati, lo scoramento che ogni batosta si porta dietro, non costituissero un problema. Come se l’asimmetria strutturale tra una massa che si aggrega occasionalmente e “eserciti” che scaricano nell’azione repressiva l’esperenza storica accumulata attraverso istituzioni secolari, non costituisse un nodo da sciogliere. Soprattutto, come se “imparare dai propri errori e limiti” non fosse la via maestra di una formazione del soggetto sociale e politico, a livello di massa e non.
Tutti i problemi della “conduzione dell’insurrezione”, di cui i testi leniniani del 1905 raccontano qualcosa di strategicamente essenziale, sono bellamente accantonati grazie all’azione definita “già cosciente” delle masse. In questo modo ogni ragionamento sulla forma soggettiva in grado di condurre l’assalto al cielo è tranquillamente rimossa.
Tanto per Dal Lago quanto per Negri/Revel, al dunque, il problema dell’organizzazione (“del Partito”) non si pone. Per il primo, perché non è neppure pensabile che le masse si costituiscano in classe politica, ponendo in tal modo all’ordine del giorno la questione del potere politico e dello smantellamento della macchina statuale imperialista. Per i secondi, perché considerano tutto ciò qualcosa che si risolve spontaneamente dentro l’azione delle masse. Al massimo, propongono se stessi come cantori di questa azione.
Dentro la crisi, invece, la battaglia per il partito è decisiva, il vero banco di prova per le avanguardie comuniste. Ci sono giorni che valgono decenni, è vero. Ma solo la soggettività rivoluzionaria è in grado di trasformare la quantità delle lotte spontanee in qualità politica realizzando la potenza che si portano in grembo
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