Si può in effetti benissimo sostenere che “noi il vostro debito non lo paghiamo”, e movimenti di mezzo mondo lo stanno già facendo. Ma ci sembra meglio, più efficace, “costruttivo” di una visione alternativa della crisi, foriero di un ologramma realistico di “quale nuovo mondo possibile”, sostenere questa linea supportandola con un’analisi inconfutabile. Buona lettura e soprattutto, svegliamo la mente!
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Una cacofonia oscurantista
Non si ragiona sul fatto che le economie europee hanno ampie capacità produttive eccedentarie. I redditi della stragrande maggioranza dei cittadini europei non sono però a un livello sufficiente ad attivare l’utilizzo normale delle industrie e dei servizi al consumo. Queste imprese investono poco e, se lo fanno, l’investimento é abbinato a piani di ristrutturazione e delocalizzazione. A loro volta le industrie di beni strumentali non ricevono – dalle aziende di beni di consumo – nuovi impulsi a produrre per via dell’eccesso di capacità.
In verità le aziende produttrici di macchinari potrebbero espandere gli investimenti indipendentemente dai settori dei beni di consumo, se vi fossero prolungate ondate di innovazioni tali da coinvolgere l’insieme dell’economia. Non é più così da decenni: su base decennale, il tasso di crescita dell’insieme dei paesi dell’Ocse é andato calando dal 1980, malgrado la rivoluzione nell’elettronica. Il Giappone, fulcro dell’innovazione mondiale, entrò in una stagnazione permanente proprio negli anni ’90, quando l’elettronica s’involava, e da allora non é mai riuscito a liberarsi dall’eccesso di capacità produttiva. Le esportazioni lo hanno solo parzialmente aiutato, e in misura decresente, per giunta.
Per l’Unione Europea la strada delle esportazioni nette extraeuropee come mezzo per assorbire l’eccesso di capacità é virtualmente preclusa. Gli Usa non tirano e le loro importazioni provengono essenzialmente dall’Asia; mentre con Cina, Giappone e Corea, l’UE é grandemente deficitaria malgrado l’espansione del suo export verso Pechino.
Le fonte principale della dinamica della domanda europea risiede quindi in una combinazione tra incrementi nella spesa pubblica e nella massa di salari e stipendi. Ma queste sono proprio le voci che vengono compresse dove c’é una gara al ribasso. In Germania, ad esempio, il salario mensile medio calcolato ai prezzi del 2005 era nel 2010 del 2,5% inferiore al 2000. Per oltre il 50% dei dipendenti il calo ha superato il 10%.
In queste condizioni non può ripartire niente e i paesi europei finiscono solo per farsi reciprocamente le scarpe. Il tentativo tedesco di saltare l’Europa per proiettarsi verso la Cina é velleitario, in quanto la maggioranza del surplus commerciale di Berlino proviene dalle esportazioni nette col resto della UE. Infatti la Germania, dopo la sua fuga in avanti del 2010, sta per essere risucchiata dallo statico plotone europeo (appena +0,1% del Pil nel secondo trimestre 2011).
Le autorità di Bruxelles, come alcuni giorni fa anche Ignazio Visco della direzione della Banca d’Italia, sono ormai consapevoli che le misure di decurtazione dei bilanci hanno un impatto recessivo. Visco ha giustamente osservato – come da tempo sostengo su questo giornale – che l’effetto recessivo può allontare, tramite il ridotto introito fiscale, il riequilibrio dei conti pubblici. In queste ore la Grecia conferma tale analisi poiché l’implosione economica del paese sta facendo mancare l’obiettivo di riduzione del deficit pubblico. Si parla di un’ulteriore richiesta di aiuti!
Le autorità europee non vogliono però dire pubblicamente che l’obiettivo della riduzione del debito pubblico, e ora perfino del pareggio di bilancio, é incompatibile con misure di rilancio economico che la stessa Bruxelles chiede. Fin dalla manovra Amato del 1992, la Banca d’Italia era a conoscenza del fatto che ri-bilanciare i conti pubblici significa trasferire il deficit sulle famiglie e sulle imprese. Dallo scoppio della crisi mondiale, tra il 2007 ed il 2008, Martin Wolf del Financial Times ha sistematicamente documentato tale dualità e ha criticato con ragione il Fondo Monetario Internazionale, tacciandolo di «ignoranza» per aver posto l’obiettivo dell’equilibrio sia dei conti pubblici che di quelli privati. Più precisamente, le operazioni volte al riequilibrio dei conti pubblici mettono in deficit le famiglie e le imprese, le quali dovranno ridurre le spese in consumi e investimenti, aumentando quindi la capacità produttiva inutilizzata. L’effetto recessivo vanifica il progettato rientro dal debito pubblico.
Bisogna pertanto opporsi all’idea che i sacrifici sono necessari. Lo sarebbero se, dovendo costruire case o scuole o ospedali, i laterizi e i macchinari non fossero sufficienti; in questo caso si dovrebbe investire a scapito di altri settori. L’esempio presuppone però che l’economia si trovi in una situazione di utilizzo elevato degli impianti. Oggi ne siamo lontanissimi e anche la Cina sta accumulando capacità inutilizzate.
Non vi sono pertanto vincoli reali alla spesa pubblica, come non vi é nessuna necessità oggettiva nell’esigere sacrifici da parte della popolazione; a maggior ragione nelle economie odierne, ove la capacità di erogare beni e soprattutto servizi é resa più estensibile dall’elettronica. Il nodo é rompere la sudditanza verso il pagamento del debito pubblico come fonte di rendite delle società finanziarie e anche delle grandi imprese, in gran parte a loro volta finanziarizzate.
Affinché questo ragionamento abbia sbocchi pratici é necessario entrare nel contenuto della spesa pubblica e rilanciare il ruolo ridistributivo della fiscalità. Nell’oscurantismo imperante, però, la mia é una pura illusione.
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