L’articolo di Philippe Poutou che abbiamo deciso di tradurre racconta la storia degli operai della Ford di Blanquefort mobilitatisi contro la decisione della multinazionale di chiudere lo stabilimento francese, licenziando di netto 870 dipendenti e recando un grave danno all’economia della regione, in primo luogo alle aziende pubbliche e private dell’indotto. In questa storia abbiamo riscontrato alcune analogie con la mobilitazione attualmente in corso degli operai della Whirlpool di Napoli. Siamo convinti di poter trovare, nel racconto e nelle riflessioni di Poutou, indicazioni d’interesse più generale sulle odierne lotte operaie.
Philippe Poutou è operaio della Ford di Blanquefort (Francia) e deputato sindacale della Confédération Générale du Travail (CGT); è stato uno dei protagonisti della mobilitazione operaia esplosa all’annuncio della chiusura dello stabilimento di Blanquefort[1].
La storia raccontata da Poutou inizia nel lontano 2008, quando, per la prima volta, la Ford cerca di chiudere il sito produttivo francese. Tuttavia, la forte mobilitazione operaia e l’impegno dello Stato nel concedere sussidi all’azienda portano nel 2013 alla firma di un accordo in cui la Ford s’impegna a mantenere la produzione e almeno mille posti di lavoro per cinque anni. Ciononostante, la multinazionale statunitense non mantiene gli accordi, l’occupazione resta al di sotto di quanto previsto, mentre, gradualmente, anno dopo anno, scrive Poutou, l’azienda riduce la produzione: “tutto si deteriorava: meno personale, meno produzione, meno formazione”.
Uno smantellamento lento, indolore: togliere un poco alla volta; logorare mentalmente, moralmente gli operai; indebolirli, stancarli, far loro accettare fatalmente, anno dopo anno, un destino altrimenti ben evitabile; prendere tempo, fino all’annuncio della chiusura.
Una situazione che conosciamo bene anche in Italia, dove gli stabilimenti Whirlpool di Napoli e di Siena hanno ridotto gradualmente la produzione negli scorsi anni, costringendo i lavoratori ad accettare contratti di solidarietà con orario di lavoro e salari ridotti.
Dal 2009, ad esempio, gli operai dello stabilimento di Via Argine, a Napoli, hanno contratti di solidarietà, lavorano 3 giorni a settimana per 6 ore al giorno, per una media di 18 ore a settimana. Il salario medio operaio è di 16 mila euro all’anno lordi, che tradotto fa 900-1000 euro netti al mese.
Anni di sacrifici e incertezza per gli operai della Whirlpool di Napoli, finché nell’ottobre 2018 la multinazionale statunitense firma un accordo con il Governo: promette investimenti per 17 milioni di euro nello stabilimento napoletano per i successivi tre anni. Ma è solo un fuoco fatuo. La mattina del 31 maggio, anche a Napoli arriva l’annuncio: si vende a terzi, lo stabilimento è in perdita, la sorte dei 430 operai e dei circa 600 dell’indotto non è affare dell’azienda. Già, l’azienda deve badare ai profitti degli azionisti, non già alle vite degli operai.
Purtroppo le nefandezze della Whirlpool in Italia risalgono ad anni ben precedenti. Il 28 giugno 2013 l’azienda annunciava la chiusura dello stabilimento di Trento, compromettendo il destino di 500 operai impiegati e di 300 lavoratori dell’indotto. L’intenzione dell’azienda era quella di concentrare la produzione dei prodotti da incasso nello stabilimento di Cassinetta (Varese), mentre quelli di libera installazione sarebbero stati prodotti nello stabilimento di Wroclaw, in Polonia.
Nel 2014, la multinazionale comprava la Indesit, storica azienda italiana di elettrodomestici, e, con essa, acquistava un marchio e ampie quote di mercato nel nostro paese. Da quel momento, la Whirlpool è in Italia con diversi stabilimenti: Napoli, Cassinetta (Varese), Fabriano (Marche), Comunanza (Marche), Siena, Carinaro (Caserta).
Ma l’acquisto della Indesit implicava un imponente processo di ristrutturazione. Il 17 aprile del 2014 l’azienda annunciava la chiusura dello stabilimento di Carinaro, che contava 830 operai. Si apre un tavolo di negoziazione tra la multinazionale e il Governo che dura alcuni mesi. Lo Stato promette 50 milioni di finanziamenti pubblici, ma l’azienda si ostina a dichiarare oltre 1380 esuberi.
Inizia la mobilitazione, gli operai si mettono in sciopero permanente, compiono azioni di forza bloccando la circolazione stradale, i binari ferroviari, organizzano cortei cittadini e presidi al Mise, rivendicando che venga almeno confermato l’accordo ottenuto con la Indesit e firmato nel dicembre 2013, che prevedeva la stabilità lavorativa per tutti i 830 lavoratori e lavoratrici di Carinaro almeno fino al 2018. Di questo accordo la Whirlpool era a conoscenza quando ha provveduto all’acquisizione della Indesit. Ma la multinazionale statunitense, già allora, non intendeva rispettare alcun accordo.
La vertenza terminò con una dura sconfitta degli operai (o, se si preferisce, con una vittoria assai parziale). Per il sito di Carinaro fu prevista la chiusura degli stabilimenti di produzione di piani cottura e frigoriferi (così come già preventivato), portando invece attività di stoccaggio, assemblaggio e spedizione di accessori e pezzi di ricambio. Questa ristrutturazione comportava l’impiego di un organico di 320 unità lavorative a fronte delle 830 presenti sul sito. Circa 200 furono i lavoratori direttamente impiegati nello stabilimento di Caserta mentre altri 120 sarebbero impiegati a rotazione. L’eccedenza di 500 lavoratori fu gestita dall’azienda facendo ricorso, in larga parte, ad ammortizzatori sociali ed esodi all’uscita, mentre per 100 lavoratori fu previsto il trasferimento nel sito Whirlpool di Napoli, per altri 50 il trasferimento a Varese.
Ma quali garanzie ottenevano i 100 lavoratori di Carinaro che avrebbero dovuto essere impiegati a Napoli? Nessuna, sicché essi non vennero mai impiegati, la Whirlpool mai rispettò l’accordo. Quali garanzie, ancora, otteneva il Governo che la Whirlpool non avrebbe preso i finanziamenti pubblici, prima, disimpegnandosi, dopo, con l’eterna giustificazione di un calo di fatturato? Nessuna garanzia, sicché il caso è riesploso dopo cinque anni, a Napoli, appena sette mesi dopo aver firmato un nuovo accordo con il Governo.
Prima toccò a Trento, poi a Carinaro, infine a Napoli. In tutti questi casi la Whirlpool dimostrava di essere inaffidabile, di non rispettare gli accordi contratti, di non avere interesse a rimanere in Italia.
Intanto lo stabilimento senese è in via di smantellamento e sarà il prossimo bersaglio della multinazionale. Ma gli operai di Siena sembrano già presi da quel sentimento di accettazione del dramma, di fatalità inevitabile, che li condanna alla sconfitta, prima ancora di lottare.
Mentre in Italia accadeva questo, tra il 2012 e il 2018, la Whirlpool EMEA chiudeva gli stabilimenti di Schorndorf e di Neunkirchen-Wellesweiler, in Germania, di Norrköping, in Svezia, e di Amiens, in Francia.
Via dall’Europa Occidentale. Dopo decenni in cui ha potuto impadronirsi delle tecnologie più avanzate nella produzione di elettrodomestici, quelle europee, Whirlpool se le porta dietro. E parecchie di quelle lavatrici in magazzino andranno sul mercato est-europeo, dove la multinazionale concentra sempre più la produzione europea, e ancora sul mercato Usa, protette dai dazi trumpiani.
Dal 1989 ad oggi, la Whirpool ha acquistato alcune delle aziende europee di elettrodomestici più avanzate, come le italiane Ignis e Indesit, la tedesca Bauknecht, la britannica Hotpoint, e con esse ha comprato marchi, mercati, tecnologie. Ma Whirlpool può “disinteressarsi” dell’Europa (e del Sud Africa, da cui sembra si stia disimpegnando) ora che, ben tutelata, ha il 70 per cento del ricco mercato americano del lavaggio (Usa, Canada, America del Sud) e ottime posizioni nel freddo. Innovazioni, design ed efficienza energetica europee sono e saranno il valore aggiunto sui mercati oltreoceano.
Come la Whirlpool in Italia, anche la Ford in Francia non ha mai rispettato gli accordi contratti con lo Stato. Un primo insegnamento che possiamo trarre da queste due storie di lotta operaia è che non ci si può fidare della parola di una multinazionale.
Di fronte a questa elementare verità, che in Italia sembra ancora faticare a entrare nella testa dei nostri sindacalisti e politici, il sindacato francese della CGT, che difende i lavoratori della Ford di Blanquefort, cerca gli strumenti giuridici e politici per obbligare la multinazionale statunitense, innanzitutto, a rispettare gli accordi contratti nel 2013, poi, a mantenere la produzione a Blanquefort.
Il sindacato francese, spinto dalla volontà dei lavoratori più determinati a non arrendersi in questa vertenza, porta la Ford in tribunale, chiedendo allo Stato di costituirsi parte civile per mancato rispetto dell’accordo firmato nel 2013. Il tribunale nel 2017 enuncia una prima sentenza favorevole ai lavoratori. La sentenza rimane, tuttavia, senza conseguenze: il Governo non intende costituirsi parte civile, manca la volontà politica di perseguire il comportamento della multinazionale.
Nel 2018, poi, l’annuncio della chiusura. Gli operai di Blanquefort si mobilitano, ma la loro strategia è debole, speravano, racconta Poutou, “che il casino che stavamo facendo e la copertura mediatica che stavamo ottenendo sarebbero stati sufficienti”. Non era così. L’azienda si ostinava a chiudere, lo Stato non opponeva altra soluzione che quella, molto debole, di proporre ulteriori incentivi.
Per due mesi la lotta degli operai della Ford assume livelli di massa. Tuttavia, lo scoramento, la stanchezza, la demoralizzazione subentrano e sono gli avversari più temibili da combattere. Inoltre, per usare ancora le parole di Poutou: “Non avere nessun sostegno o prospettiva esterna non aiuta a condurre una battaglia”.
La mobilitazione si indebolisce per cause fisiologiche, ma anche per la mancanza di una prospettiva politica che possa risolvere le impasse della negoziazione in corso tra l’azienda e il Governo. Soltanto una minoranza di operai si ostina a proseguire la lotta, cerca una via d’uscita, un’alternativa. Il sindacato li appoggia, la mobilitazione continua, nonostante le difficoltà.
La CGT porta lo scontro su un piano politico: denuncia la mancanza di una legislazione che tuteli effettivamente gli interessi dei lavoratori e dei territori compromessi dalle nefandezze delle multinazionali. Inizia, così, una campagna di boicottaggio dei prodotti della Ford, mentre gli operai si appellano di nuovo alla giustizia civile, che lo scorso 4 luglio, in corte di appello, emette di nuovo una sentenza favorevole ai lavoratori.
Ma soprattutto inizia la battaglia politica nei confronti del governo per richiedere la requisizione statale dello stabilimento, il mantenimento della produzione e della piena occupazione sotto tutela dello Stato.
In Francia, la Ford ha percepito 50 milioni di euro di finanziamenti pubblici dal 1973 a oggi. Il sindacato francese chiede, allora, che lo stabilimento sia requisito sulla base di questi investimenti che lo hanno reso, di fatto, un bene pubblico, pagato con i soldi dei contribuenti. In un comunicato stampa di martedì 2 luglio 2019, il sindacato dichiara:
A quanto pare, la “costituzione” non permette né la requisizione della fabbrica Ford, né permette allo Stato di appropriarsi di fabbriche per trasformarle anche quando queste fabbriche, in realtà, sono già parzialmente pubbliche date tutte le sovvenzioni erogate. Tra l’altro la legge non prevede neanche il rimborso dei finanziamenti pubblici incassati dalle multinazionali. Tutto questo dovrebbe essere però possibile: Lo Stato e le collettività territoriali dovrebbero prendere il posto delle multinazionali quando queste distruggono e tagliano migliaia di posti di lavoro, quando intascano illegittimamente il denaro pubblico. Esistono così tante merci da produrre per soddisfare i bisogni sociali e ambientali, così tanto da realizzare in un settore “nazionalizzato” o socializzato. Le soluzioni esistono eccome[2].
Le lotte come questa degli operai della Ford, a Blanquefort, o della Whirlpool, a Napoli, vanno spesso per le lunghe, sono molto dure. Il racconto di Poutou ci fa riflettere su un elemento fondamentale: queste lotte perdono quando la stanchezza e la sfiducia inizia a prevaricare tra i lavoratori, quando dalla lotta collettiva si passa al “si salvi chi può” individuale, alla ricerca personalistica di una soluzione, di un lavoro nuovo o cose simili.
Sicché la lotta di Poutou e degli operai più combattivi della Ford di Blanquefort è diventata innanzitutto una lotta contro il “fatalismo”, contro la rassegnazione che regna sovrana tra la maggioranza degli operai, per preservare l’unità e la fiducia dei lavoratori.
Ma la prospettiva che si persegue nella lotta, come ci suggerisce ancora Poutou, è altrettanto importante, fondamentale. Questa prospettiva non possiamo essere noi a imporla, sono i fatti a dettarla. E i fatti ci dicono che gli sgravi fiscali e gli incentivi pubblici alle grandi aziende non bastano, non sono mai bastati.
D’altra parte, il secondo elemento su cui insiste Poutou, è che la sconfitta è determinata anche dalla mancanza di una legislazione che obblighi le multinazionali a rispettare gli accordi contratti e preveda la requisizione dei mezzi di produzione da parte dello Stato nel caso in cui l’azienda si ostini al disimpegno.
La lotta degli operai della Ford, quindi, è diventata una lotta politica, non solamente economica, per obbligare lo Stato a requisire lo stabilimento (nel caso in cui la Ford si ostini a chiudere) e a garantire con i fondi pubblici la continuità occupazionale pur nella eventuale riconversione produttiva.
Quando si apre un tavolo di negoziazione inizia un lungo processo di contrattazione tra le parti che non sempre porta a risultati; allora è necessaria una prospettiva politica alternativa, un “piano b”: andata via l’azienda, rimane lo Stato, rimangono gli operai… che fare allora?
Le ipotesi in campo sono molteplici, tutte da valutare in concreto:
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a) requisizione dello stabilimento e nazionalizzazione da parte dello Stato;
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b) requisizione dello stabilimento e autogestione degli operai in cooperativa con il sostegno economico dello Stato;
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c) acquisto da parte di Stato e privati dello stabilimento con creazione di una società compartecipata e amministrata congiuntamente.
Queste tre ipotesi sono in alternativa tra loro e prevedono gradi differenti di socializzazione della proprietà[3]. Esse, nondimeno, ci spingono a interrogarci su uno stesso, fondamentale quesito: riteniamo noi che le scelte produttive, tecnologiche, di localizzazione degli impianti compiute da un management assunto dai proprietari privati di una impresa (multinazionale o no) sarebbero le stesse compiute da un gruppo dirigente che dovesse rispondere direttamente allo Stato, garante del bene pubblico, o meglio, agli operai e agli impiegati costituiti in cooperativa?
Per tutte le ipotesi finora discusse, la questione centrale resta la seguente: lo Stato deve garantire la piena occupazione, che sia nella continuità produttiva o nella riconversione con fondi pubblici (o pubblici e privati); ovvero deve assumersi la responsabilità politica e amministrativa di salvare lo stabilimento e preservare l’occupazione, con o senza la Whirlpool, con o senza aziende private.
Ma per realizzare una di queste ipotesi è necessaria la volontà politica del Governo e il coraggio dei sindacati. E soprattutto è necessaria l’ostinazione, l’unità, la determinazione degli operai in lotta e della base sindacale per continuare la mobilitazione e imporre un’alternativa al Governo e ai vertici sindacali.
Se il tavolo di negoziazione tra Governo, sindacati e azienda non portasse a risultati concreti, se la lotta dei lavoratori non riuscisse a imporre all’azienda di mantenere il sito produttivo di Napoli e con esso la piena occupazione, a nulla servirebbe disperare, a nulla arrendersi, un’alternativa, invece, sarebbe possibile: proseguire la lotta su un livello più alto, ovvero più conflittuale, per mettere sotto pressione il Governo, e, soprattutto, su una piattaforma rivendicativa autonoma che imponga a Governo e vertici sindacali di valutare le ipotesi:
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a) della nazionalizzazione;
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b) della creazione di una cooperativa operaia in autogestione, con il sostegno statale;
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c) della creazione di una società compartecipata da Stato e privati, amministrata da Stato e privati, che garantisca la continuità produttiva o la riconversione a condizione di mantenere la piena occupazione.
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Mobilitazione per salvare la fabbrica Ford a Blanquefort
Cronaca di una lotta contro il fatalismo[4]
“Le aziende vivono e muoiono: questa è la vita.” Così, in sostanza, un presidente francese ha giustificato la chiusura di uno stabilimento Renault a Vilvoorde, in Belgio, nel 1997. Nel 2019, è la volta di Ford a Blanquefort, vicino a Bordeaux. Ma l’apatia delle autorità pubbliche si scontra con la resistenza dei lavoratori, come testimonia Philippe Poutou, delegato sindacale della fabbrica. A luglio, la giustizia dovrebbe decidere.
Di Philippe Poutou
Tutto sembra perduto. Il piano di protezione dell’occupazione[5] è stato approvato, la produzione cesserà in agosto e le lettere di licenziamento saranno inviate il prossimo 1° ottobre. Le autorità pubbliche stanno lavorando sul dopo, che chiamano “rivitalizzazione del territorio”.
Ma alcuni di noi non si arrendono. No, questa storia non è finita. Ciò che non abbiamo ottenuto finora attraverso la mobilitazione o l’intervento dello Stato, potremmo ottenerlo attraverso i tribunali. Finché l’impianto non è chiuso, finché siamo ancora qui, non c’è motivo di arrendersi. C’è ancora la speranza di realizzare un’impresa, salvando la fabbrica e i posti di lavoro.
Dopo anni di manovre e di menzogne, i dirigenti della Ford hanno messo fine a una falsa suspense rivelando la loro intenzione di liquidare il sito di Blanquefort (Gironda). In due fasi: l’annuncio del disimpegno nel febbraio 2018 e la chiusura il 7 giugno successivo.
L’azienda ha cercato di liquidare il sito per più di dieci anni. La prima volta ci hanno provato nel 2008, ma una forte mobilitazione gli ha impedito di farlo. A quel punto vende ad un acquirente fittizio (2009), poi ritorna, riacquista (2011) e rilancia l’attività con la produzione di un nuovo sistema di cambio. La lotta ha portato anche ad un accordo con lo Stato, che ha portato al suo impegno (2013) a mantenere almeno mille posti di lavoro in cinque anni… in cambio di qualche milione di euro di sussidi all’azienda.
Ma era solo una tregua da parte dell’azienda. Ford non ha cambiato obiettivo. La Confederazione Generale del Lavoro (CGT), il sindacato di maggioranza a Blanquefort, denuncia la truffa che porta inevitabilmente al disastro. Dal 2013 al 2018, gli enti locali e il Ministero dell’Economia sono allertati. Nel 2015, mentre le autorità pubbliche non rispondono e continuano a concedere sovvenzioni, noi ci rivolgiamo al Tribunal de Grande Instance [tribunale civile di prima istanza, n.d.t.] per il mancato rispetto dell’impegno a mantenere mille posti di lavoro non appena il sito di Blanquefort scende al di sotto di questa soglia prestabilita. Nel 2017, vinciamo. Ma questo rimane senza alcun effetto: la produzione e l’organico diminuiscono inesorabilmente, nei mesi e negli anni, fino all’annuncio della chiusura, che sveglierà i politici locali e lo Stato, provocando la loro rabbia.
Cinquanta milioni di euro di sovvenzioni
I politici implicati in questa faccenda sono tutti molto indignati. Alain Juppé, allora sindaco di Bordeaux, Alain Rousset, presidente del Consiglio regionale della Nuova Aquitania, il ministro dell’economia Bruno Le Maire e altri dicono di sentirsi traditi. Ingenuità o comicità? Un po’ entrambe le cose? Il fatto è che i dirigenti della Ford li prendevano in giro.
Per gli 870 dipendenti dell’azienda lo shock è stato grande. L’atmosfera della fabbrica è stata dominata per anni dal fatalismo, dalla certezza che la direzione stesse preparando dei brutti colpi. Gradualmente, tutto si deteriorava: meno personale, meno produzione, meno formazione. Stavamo invecchiando, ci consumavamo moralmente, tra stanchezza e disgusto, con il desiderio che tutto trovasse una fine.
La rabbia c’era. Era chiaro a tutti che Ford ci disprezzava, approfittava e abusava della collettività. Certo, avevamo guadagnato qualche anno, ma ciò non era stato sufficiente a darci fiducia per il futuro. Non avere nessun sostegno o prospettiva esterna non aiuta a condurre una battaglia.
Siamo riusciti ad organizzare diverse azioni forti, molti di noi hanno manifestato a febbraio-marzo 2018, ma la mobilitazione non è durata. Il colpo è arrivato. Dopo anni di paura, attesa e usura, i danni sono nella testa delle persone. Ci sono ovviamente diverse ragioni per questa incapacità di mobilitarsi nel tempo. La rassegnazione non è sufficiente a spiegarlo. Abbiamo visto che, per innestare il braccio di ferro, la maggior parte avrebbe avuto bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa in cui sperare. Semplicemente non credevano nella vittoria. Erano contenti per lo spirito combattivo della minoranza attiva, ci sostenevano, ci dicevano che avevamo ragione, ma non avevano né la volontà né la forza – per stanchezza, per demoralizzazione… – di combattere con noi. Era come se i nostri colleghi contassero su di noi, sperando che il casino che stavamo facendo e la copertura mediatica che stavamo ottenendo sarebbero stati sufficienti.
Tuttavia, i loro gesti di incoraggiamento e sostegno, così come quelli della popolazione, hanno permesso alla nostra resistenza di durare, con le sue sorprese positive, con colleghi più o meno mobilitati a seconda delle occasioni, portando avanti parecchie iniziative, dentro e fuori la fabbrica – come a Colonia, in Germania, nella sede di Ford Europa, in giugno, o davanti al Salone di Parigi, in ottobre –, riuscendo a far sentire la nostra rabbia.
Ciononostante, non siamo riusciti a cambiare il clima generale. La rassegnazione non riguarda solo i lavoratori. Dappertutto è lo stesso. Nella popolazione che ci circonda, si è radicata la certezza, mantenuta dalle autorità pubbliche e trasmessa dai media dominanti, che l’azienda alla fine chiuderà, qualunque cosa si faccia; che la Ford avrà l’ultima parola, perché alla fine sono sempre i padroni a vincere. Guardiamo l’operaio che piange, che protesta, ma supponendo che non sarà in grado di cambiare nulla.
Questo fatalismo torna utile a molti. Rafforza i responsabili politici che fanno poco o nulla, che si accontentano di una posizione di indignazione. Rapidamente, le loro affermazioni scivolano verso un freddo realismo che relativizza il dramma: una fabbrica chiude; è triste, ma è la vita; dovremo andare avanti.
Il sito di Blanquefort è stato liquidato da un piano di licenziamenti, il precedente “piano sociale”, ora appunto chiamato piano di protezione dell’occupazione (PSE). Il disastro sociale e collettivo si trasforma così in una somma di casi individuali. Il PSE è un sistema a scatole cinesi. C’è chi va in pensione anticipata, e poi gli altri, che iniziano la loro propria attività, scelgono una formazione o trovano un contratto a tempo indeterminato. Esiste un’agenzia di ricollocamento che riceve, guida e consiglia ogni lavoratore, come fosse un centro per l’impiego interno all’azienda.
Il tutto è progettato per individualizzare, dividere. Ed è efficace: ognuno rimane nel proprio angolo, nella propria storia. E questo causa danni, distrugge la solidarietà, le prospettive comuni, la collettività dei lavoratori. Con l’obiettivo di ridurre il rischio di conflitto, al fine di preservare la stabilità e il dialogo sociale. Uno strumento che i padroni e il potere politico hanno sviluppato e perfezionato insieme nel corso degli anni. Siamo subito stati confrontati ad esso.
Tutto questo spiega in gran parte perché non siamo stati in grado di costruire una mobilitazione più importante. Ma c’è anche il fatto che un terzo del personale di Blanquefort era pronto per il prepensionamento, e quindi meno preoccupato dall’obbligo di cercare lavoro o dalla paura della disoccupazione. Il suo destino non era invidiabile, ma, come dicevamo tra noi, “limitava i danni”. Nonostante tutti questi svantaggi, abbiamo contestato e combattuto, il che ha permesso di esprimere la nostra rabbia e denunciare la chiusura dello stabilimento e i licenziamenti.
La nostra lotta ha generato simpatia. Esprime una rivolta che fa bene a molte persone, che può incoraggiare e aiutare gli altri a sollevare la testa. Le reazioni alla nostra determinazione rimangono molto positive.
Questa battaglia è altamente politica, perché riguarda tutti. La lotta per i posti di lavoro nello stabilimento Ford riguarda anche i circa duemila posti di lavoro dell’indotto, pubblico e privato, creati nella regione.
Nel corso del 2018 abbiamo organizzato cinque manifestazioni, a Bordeaux e a Blanquefort, per ricordare alla gente che esiste la fabbrica Ford, ma per ricordare allo stesso tempo anche tutti gli altri licenziamenti e gli altri tagli di posti di lavoro in altre fabbriche, e la necessità di una reazione comune. Cercare di avviare un’ampia mobilitazione, coinvolgere sindacati, associazioni e partiti di sinistra, sensibilizzare la popolazione, esercitare pressioni sulle autorità pubbliche.
Nell’aprile 2018 abbiamo organizzato, questa volta con intellettuali e artisti solidali, due giorni di dibattiti e concerti, e qualche mese dopo è stato pubblicato un libro (1). Abbiamo anche lavorato con il movimento dei “gilet gialli”, partecipando alle loro manifestazioni del sabato e conducendo con loro un’azione in un concessionario Ford nella periferia di Bordeaux. Queste iniziative, che esprimevano la necessità di convergenza tra lavoratori, artisti e intellettuali, ci hanno dato forza e fiducia per continuare.
L’altro aspetto politico della nostra lotta è stata la denuncia dei finanziamenti pubblici indebitamente percepiti. La Ford ha richiesto e ricevuto sovvenzioni non appena ha aperto lo stabilimento di Blanquefort nel giugno 1973. Quasi 50 milioni di euro solo negli ultimi otto anni! Condanniamo questa “assistenza”. Con tutti questi soldi pubblici, la fabbrica è di fatto diventata pubblica, il che dovrebbe impedire all’azienda di decidere del proprio destino. Chi è il legittimo proprietario e chi decide? Si pone la questione della requisizione o, più precisamente, della riappropriazione dei mezzi di produzione da parte della collettività. A seguito di uno braccio di ferro tra la multinazionale e lo Stato nel novembre scorso, lo stesso ministro dell’economia Bruno Le Maire aveva fatto riferimento ad una “nazionalizzazione temporanea”. Ma non aveva alcuna intenzione di darle seguito.
Il ministro Le Maire e il presidente Emmanuel Macron hanno alzato la voce, accusando Ford per la sua “ostilità”, il suo egoismo, la sua corsa al profitto! Al Senato, lo scorso dicembre, il ministro dell’Economia ha persino reso omaggio ai sindacalisti per la loro determinazione a salvare i posti di lavoro, e ha opposto il loro comportamento a quello della multinazionale. All’epoca quest’ultima si rifiutava di vendere lo stabilimento di Blanquefort a Punch, l’unico candidato a un’acquisizione che lo Stato considerava serio. La legge Florange del 29 marzo 2014 impone a tutte le grandi aziende che intendono chiudere uno stabilimento ed effettuare licenziamenti collettivi di cercare un nuovo acquirente, ma non impone di trovarne uno. Ben informato sulle normative francesi, Ford ha quindi fatto il minimo legale, svolgendo semplicemente ricerche formali, senza esiti positivi. Quanta sfortuna!
E lo Stato non ha messo in atto le sue minacce. Il ministro Le Maire, che si era dichiarato sostenitore di uno Stato che si assume le proprie responsabilità, si trova di fronte all’impotenza che lo Stato stesso ha costruito negli ultimi quarant’anni di riforme ultraliberiste; privandosi dei mezzi per agire, ha spianato la strada della superpotenza dei capitalisti. Ma delle leggi contro la distruzione di posti di lavoro permetterebbero di invertire il processo. Si tratta di una questione di volontà politica.
Nel corso della nostra lotta, siamo stati testimoni di questa impotenza pubblica. Ford non fa un passo indietro, decide di chiudere, impunemente, senza scrupoli. Ogni incontro diventa teatro delle esitazioni, delle debolezze e dell’incapacità dello Stato di difendere l’interesse collettivo. Impotente perché incapace di prendere decisioni politiche fondamentali: lasciare fare o requisire.
La giustizia come ultima istanza
Il governo vorrebbe dimostrare la sua efficacia e utilità. Mentre cerchiamo di salvare i nostri posti di lavoro, lui vorrebbe essere in grado di salvare la faccia. Ma, di fronte alla nostra determinazione a impedire la chiusura dello stabilimento, i servizi statali, la “Direzione regionale delle imprese, della concorrenza, dei consumi, del lavoro e dell’occupazione” (Directee) [6], i ministeri del lavoro e dell’economia non sono in grado di evitare la catastrofe. Intrappolati nella loro propria ideologia, si fanno prendere in giro da una multinazionale americana che padroneggia meglio di loro i cavilli delle leggi francesi, dato che i suoi avvocati sono sempre un passo avanti. Affrontare un’azienda così sleale non sarebbe sufficiente, perché tutti gli altri capitalisti, compresi quelli francesi come Auchan, Carrefour o Renault, operano e imbrogliano allo stesso modo. Obbligare Ford [con delle decisioni politiche, n.d.t.] significherebbe che anche queste altre aziende sarebbero costrette abbastanza rapidamente a dover seguire queste decisioni.
La suspense attorno all’omologazione del piano di protezione dell’occupazione (PES) tra gennaio e marzo ne è un esempio. Abbiamo insistito perché la Direccte rifiutasse la sua approvazione. Ciò è stato fatto per la prima volta il 29 gennaio, dopo una forte esitazione da parte della Direccte e approfittando di un piccolo errore di procedura da parte dell’azienda. Pensavamo di guadagnare tempo per convincere Ford ad accettare il nuovo acquirente. Ma l’azienda non si è piegata, e il 4 marzo, alla fine della scadenza, la Direccte ha approvato lo stesso piano di protezione dell’occupazione (PSE), senza altri mezzi di pressione o costrizione.
Abbiamo quindi portato il caso in tribunale, citando in giudizio Ford per due motivi: mancanza di motivi economici e abuso del diritto di rifiutare un acquirente. Il produttore realizza enormi profitti e il suo stabilimento di Blanquefort era redditizio. Tuttavia, senza motivi economici, non ci possono essere chiusure o licenziamenti economici. Sta a noi provarlo legalmente.
Denunciamo anche che l’abuso dei diritti di proprietà della Ford corrisponde a un abuso di potere. Le dichiarazioni del Ministro dell’Economia e del Presidente della Repubblica confermano il nostro approccio. Gli abbiamo anche offerto un sostegno personale accettando di essere “intervenienti volontari”. Stiamo ancora aspettando la loro risposta.
La procedura di emergenza è stata accettata, a condizione di citare in giudizio anche l’acquirente Punch, cosa che abbiamo fatto. Il caso sarà quindi giudicato in presenza di tutte le parti coinvolte. L’udienza è stata fissata per il 4 giugno. E la sentenza dovrebbe essere emessa quest’estate, cioè prima del nostro licenziamento[7].
Se i tribunali ci daranno ragione, alla Ford sarà vietato licenziare e chiudere lo stabilimento. In tal caso dovremo questa vittoria alla nostra determinazione, se non proprio al nostro accanimento.
(1) Collectif, Ford Blanquefort même pas mort !, Libertalia, Montreuil, 2018
[1] Philippe Poutou è delegato della Confédération Générale du Travail (CGT) presso lo stabilimento Ford di Blanquefort, candidato del Nuovo Partito Anticapitalista (NPA) alle elezioni presidenziali del 2017, autore del libro Un ouvrier c’est là pour fermer sa bouche [Un operaio deve stare zitto], Textuel, Parigi, 2012.
[2] Cfr. www.cgt-ford.com
[3] La proprietà privata dei mezzi di produzione comporta un potere decisionale sulle scelte strategiche dell’azienda, sull’attività produttiva e sul destino di ogni singolo stabilimento che appartiene all’azienda proprietaria, quindi, indirettamente, sulle vite e sui destini degli operai che vi sono impiegati. Se, invece, questa proprietà è socializzata dallo Stato (nazionalizzazione) o condivisa dallo Stato e dai privati (compartecipazione) o perfino collettivizzata dagli operai organizzati in cooperativa, le decisioni strategiche del management aziendale devono rispondere non più, o non solo, a investitori privati il cui unico interesse è il profitto, ma alla volontà dello Stato, come garante del bene pubblico, oppure alla volontà degli operai stessi costituitisi in cooperativa, a seconda della ipotesi perseguita.
[4] Dall’edizione francese del Monde Diplomatique, giugno 2019.
[5] In francese PSE, Plan de sauvegarde de l’emploi; si tratta, di fatto, di un piano sociale che permette l’erogazione degli ammortizzatori sociali in cambio dell’approvazione dei licenziamenti (n.d.t.).
[6] Organismi regionali preposti all’attuazione delle politiche economiche e sociali pubbliche a livello territoriale; in francese “Direccte”, Direction régionale des entreprises, de la concurrence, de la consommation, du travail et de l’emploi (n.d.t).
[7] La sentenza è stata emessa lo scorso 4 luglio, in corte d’appello, ed ha condannato la Ford per non aver rispettato l’accordo firmato con lo Stato francese. La sequenza processuale, tuttavia, non è ancora terminata, la corte d’appello deve riunirsi per una seconda seduta nel prossimo settembre. Il sindacato della CGT denuncia la mancanza di volontà del governo Macron di dare seguito alla sentenza e procedere con una risoluzione politica della faccenda. Il governo Macron è ancora impegnato nella contrattazione di un nuovo accordo, intento a negoziare le condizioni economiche della permanenza della Ford a Blanquefort. La Ford ha già opposto il suo netto rifiuto a rimanere a Blanquefort, ciononostante, pur ammesso che accettasse le condizioni offerte dal governo, la prospettiva di un accordo su basi economiche è considerata dal sindacato del tutto insufficiente a garantire il mantenimento dei livelli occupazionali in fabbrica e rischiosa a fronte del comportamento avuto fino a oggi dalla multinazionale statunitense. Come a dire: chi non ha rispettato e tuttora non rispetta gli accordi passati, non rispetterà quelli futuri.
* Militanti, rispettivamente, della Camera Popolare del Lavoro dell’ExOpg di Napoli e del gruppo d’azione di Potere al popolo – Napoli per il sostegno alla lotta dei lavoratori della Whirlpool
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