Punizioni «non consentite dalla legge», percosse «con manici di scopa in legno fino a spezzarli», calci, pugni e schiaffi sul viso e sul corpo. Le violenze che una «squadretta» di poliziotti penitenziari avrebbe usato su alcuni detenuti nel carcere di Sollicciano, a Firenze, tra il settembre e il dicembre 2005, si aggiungono – se il processo che si è aperto lunedì scorso confermerà le accuse mosse dal sostituto procuratore fiorentino Concetta Gintoli contro cinque agenti, di cui uno nel frattempo è deceduto – alla “tortura di Stato” che normalmente subisce chiunque venga recluso nelle celle italiane.
«Una grande sofferenza», l’ha definita (la tortura legale, non quella illegale) il neo Guardasigilli Paola Severino che, dopo aver appreso la notizia di altri due suicidi nella sola giornata di ieri, nei carceri di Busto Arsizio (Varese) e di Civitavecchia (Roma) – e siamo a 64 dall’inizio dell’anno – ha promesso di portare sul tavolo del Consiglio dei ministri di domani, o comunque entro Natale, un pacchetto di norme per tentare di risolvere almeno il problema del sovraffollamento. Misure tampone ovviamente, perché di amnistia come chiedono da tempo i Radicali non se ne parla nemmeno. Però sembra che la ministra abbia almeno fatto un mezzo passo indietro sul braccialetto elettronico, «non definitivamente accantonato ma solo rinviato» per maggiori approfondimenti; e in tempi di crisi è difficile che pensi di proporre nuovamente il piano di edilizia carceraria. Piuttosto, al momento i tecnici del ministero starebbero lavorando ad ampliare il piano svuotacarceri varato nel dicembre 2010 da Angelino Alfano: prolungando fino a 18 mesi di pena residua il requisito per poter beneficiare di pene alternative al carcere, si potrebbero liberare 3-4 mila dei 67 mila detenuti in celle che ne possono contenere al massimo 45 mila. Decisamente, non un colpo di genio. E sembra incredibile che debba intervenire la Cassazione a ribadire un concetto lapalissiano: «In presenza di gravi patologie – è la sentenza che ieri ha dato ragione a un detenuto ricorrente – si impone la sottoposizione al regime degli arresti domiciliari o comunque il ricovero in idonee strutture».
Invece, alle violenze «non consentite dalla legge» ci pensano al momento solo le procure. A Firenze, le accuse formulate dal pm Gintoli sono già arrivate in dibattimento davanti al giudice Maria Dolores Limongi e nella prima udienza di lunedì scorso anche le associazioni Antigone e L’Altro diritto si sono costituite parte civile. In calendario, la seconda udienza è fissata a luglio prossimo. La «squadretta» di cinque poliziotti penitenziari di Sollicciano – di cui uno, morto, risulta «recidivo specifico» – che «in concorso tra loro» avrebbero sottoposto a violenze psichiche e fisiche alcuni detenuti, italiani e immigrati, sarà giudicata per «lesioni volontarie aggravate» e «abuso di poteri e violazione dei doveri inerenti la pubblica funzione e con l’arma». Secondo la ricostruzione della procura, che porta tra le altre fonti di prova la stessa segnalazione del Provveditorato regionale e la relazione ispettiva del Dap, oltre agli accertamenti clinici e alle testimonianze delle associazioni di volontariato presenti nella Casa circondariale, la «squadretta» agiva nell’ufficio del capoposto e nelle celle dei detenuti. Colpiva con calci, pugni e schiaffi, e in un’occasione anche con un manico di scopa in legno «sino a spezzarglielo addosso in più parti». «Misure di rigore non consentite dalla legge», le chiamano gli inquirenti.
Succede però che anche se fossero confermate tutte le accuse, i quattro agenti (uno nel frattempo è morto) non rischiano molto: «Non più di due o tre anni – spiega l’avvocato delle associazioni, Michele Passione – lo sforzo è quello di arrivare a sentenza prima che i reati si prescrivano, nel giugno 2013». Ma non è neanche questo il punto.
«Non sempre i fatti di violenza prodotti da squadrette penitenziarie illegali arrivano a giudizio – commenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – Perciò in quelle rare volte in cui ciò avviene è interesse pubblico assicurare giustizia alle vittime». Ecco perché a Firenze, dice, «ci siamo costituiti parte civile». «Ma vorremmo che al processo – aggiunge Gonnella – come anche nel caso di Stefano Cucchi o della squadretta di Asti, fosse presente anche lo Stato. Sarebbe un segno di rispetto profondo della legalità». E la legalità dice che le persone in carcere vanno trattate con dignità. E, perlomeno, non vanno pestate.
* Da Il Manifesto del 15 dicembre 2011
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