Pensiamo al vocabolo “riforme”, che in sé dovrebbe assumere un significato positivo: invece viene stravolto strumentalmente dagli uomini politici di governo e di potere per indicare cambiamenti di norme e di rapporti sociali e sindacali che in definitiva vanno a depauperare solo le classi lavoratrici e i pensionati già indigenti.
Si parla di “libertà”, ma questo termine viene ormai inteso come “licenza”, vale a dire in idioma volgare “facciamoci tutti i cazzi nostri”, chiaro intendimento discriminatorio che ingenera darwinismo sociale e di conseguenza anche fisico.
Si parla di “democrazia” e si usa il termine “democratico” in ambienti che di democratico non hanno nulla, che non hanno mai fatto nulla per inverare la democrazia, per fornire effettiva consapevolezza ai cittadini nelle loro “libere” scelte.
Viene codificato il termine “clandestino” come sinonimo di “delinquente”, e così si inducono le persone ad atteggiamenti discriminatori, razziali, di esclusione. E via con i pogrom contro gli zingari e le sparatorie contro gli uomini “neri”.
Si è parlato, e si continua a parlare di “sussidiarietà”, che dovrebbe significare solidarietà, aiuto, collaborazione, e al contrario provoca solo “precarietà” nel lavoro e nella gestione dei servizi.
Il professore Samy Alim, dell’università di Stanford, parte dalla constatazione che il termine inglese “occupy” ha cambiato segno e senso. Fino a qualche tempo fa denotava l’effetto di incursioni militari, oggi sta a significare una protesta, una reazione alle ingiustizie, alle ineguaglianze e agli abusi di potere. Ecco la necessità di mettere in luce come il linguaggio venga utilizzato come strumento di controllo sociale, politico ed economico.
Curzio Bettio
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Facciamo nostra l’attenzione e la curiosità di Curzio Bettio, che molto collaborativamente ci segnala temi di riflession sempre molto stimolanti. In questo caso sul linguaggio, che muta col mutare sociale, col protagonismo di nuove figure prodotte da meccanismi durevoli.
Naturalmente non nasciamo oggi e sappiamo bene, e Curzio con noi, che questa doverosa attenzione al linguaggio – “non è una gue5ra, è un’operazione di polizia internazionale”, potremmo aggiungere agli esempi fatti – è una componente fondamentale del conflitto sociale. Non basta “agire” per sfondare la corazza della sensibilità sociale, così come non basta “parlare” per cambiare il presente. Conosciamo le secolari “tentazioni” di limitarsi a uno solo dei due aspetti, con eloquenti “professorini” pronti a sostituire l’agire sociali con le proprie trasgressioni verbali e, all’opposto, rozzi maneggioni incapaci di portare il movimento reale oltre la propria ignoranza.
Vanno combattute entrambe. Mantenendo la sensibilità della dialettica tra pensiero e agire, tra comunicare e fare. Per riflettere produttivamente, per migliorare l’efficiacia dell’agire politico, per una maggiore incisività delle lotte.
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“Occupy Language”
Quando lo scorso ottobre sono partito dall’aeroporto di San Francisco, abbiamo sorvolato i porti che “Occupy Oakland” aveva contribuito a bloccare con gli scioperi, e sono giunto in Germania, e qui ho incontrato i blocchi stradali dei manifestanti di “Occupy Berlin”. Ma il movimento non solo ha trasformato lo spazio pubblico, ha perfino trasformato il discorso pubblico.
Occupy
È ormai quasi impossibile ascoltare questo termine e non pensare al movimento “Occupy”.
Anche un esperto autorevole come il lessicografo ed editorialista Ben Zimmer lo ha ammesso senza dubbio questa settimana: “occupy”, ha affermato, è la favorita per essere scelta come “Word of the Year – Parola dell’Anno” dalla American Dialect Society (Società sugli idiomi e dialetti inglesi nel Nord-America).
Al momento, questo vocabolo è già riuscito a spostare i termini del dibattito, portando frasi come “massimale del debito” e “crisi di bilancio” fuori dai centri dell’attenzione, e mettendo esattamente al centro termini come “disuguaglianza” e “avidità”.
Questo cambiamento di segno e senso ha reso più difficile per Washington continuare a promuovere le false ragioni del disastro finanziario e delle conseguenti disuguaglianze che ha messo a nudo e che ha ulteriormente prodotto.
Per di più, si è chiaramente evidenziata l’ironia di un movimento sociale progressista, che sta usando il termine “occupare” per riformulare ciò che ora gli Usamericani pensano sulle questioni della democrazia e dell’uguaglianza.
Dopo tutto, la regola vuole che siano le nazioni, gli eserciti e la polizia che “occupano”, di solito con la forza. E in questo, gli Stati Uniti sono stati i leader indiscutibili.
Solo ora, dopo nove anni, il governo statunitense sta mettendo fine alla sua palese ed illecita occupazione dell’Iraq, è ancora asserragliato in Afghanistan e sta mantenendo in campo le sue truppe in decine di paesi nel mondo.
E tutto questo non oscura per nulla il fatto che gli Stati Uniti, come noi li conosciamo, hanno avuto la loro origine da una occupazione – una violenza progressiva e devastante, un compiuto genocidio di tutta la popolazione dei nativi Americani su migliaia di miglia di territori.
Eppure, in un lasso di tempo molto breve, questo movimento ha radicalmente cambiato il modo in cui noi pensiamo all’“occupazione”.
All’inizio di settembre, “occupare” indicava incursioni militari in corso. Ora significa protesta politica progressista. Il termine non fa più riferimento principalmente alla forza del potere militare, bensì significa resistere all’ingiustizia, alla disuguaglianza e all’abuso di potere.
Non si tratta più semplicemente di occupare uno spazio, si tratta di trasformare quello spazio.
In questo senso, “Occupy Wall Street” ha occupato il linguaggio, ha fatto proprio il verbo “occupare”. E, cosa importante, persone di diverse etnie, culture e idiomi hanno partecipato a questa occupazione linguistica – che si è distinta dalla storia delle occupazioni forzate, in quanto costruita per ospitare tutti, non solo i più potenti e violenti.
Come Geoff Nunberg, da lungo tempo presidente del gruppo sull’appropriato uso dei termini per l’American Heritage Dictionary, e altri studiosi hanno spiegato, il primo utilizzo di “occupy” in inglese con riferimento a movimenti di protesta poteva essere fatto risalire nei media anglo-sassoni alle descrizioni di manifestazioni italiane negli anni ‘20, in cui i lavoratori “occupavano” le fabbriche fino a quando le loro richieste non venivano accolte.
Questo è ben lontano da alcuni dei precedenti significati di “occupy”. Di fatto, The Oxford English Dictionary ci informa che “occupy” una volta significava “avere rapporti sessuali con…” È possibile immaginare cosa allora avrebbe comportato una frase come “Occupy Wall Street”.
Nel mese di ottobre, Ben Zimmer, che è anche presidente del Comitato sui neologismi dell’American Dialect Society, sottolineava ad “On the Media”, un programma radiofonico di NPR, la National Public Radio, che il significato di “occupy” è cambiato radicalmente dal suo ingresso nella lingua inglese nel XIV secolo:
“Quasi sempre, il verbo è stato usato come verbo transitivo. Questo è un verbo oggettivo, che richiede un oggetto, … si occupa un posto o uno spazio. Ma poi il suo utilizzo si è trasformato in un grido di battaglia, senza oggetto, solo per incitare a partecipare a quelle che ora vengono definite “Occupy protests”, manifestazioni di protesta con occupazione. Ora il verbo viene utilizzato come elemento che modifica sostantivi – “Occupy protest”, protesta con occupazione, “Occupy movement”, movimento di occupazione. Quindi questo è un termine molto flessibile, che ora sta colmando molti ambiti grammaticali del linguaggio.”
Cosa potrebbe succedere se il significato di “occupy” venisse cambiato ancora una volta?
In particolare, se pensassimo a “Occupy Language” né più né meno che al linguaggio di “Occupy movement”, e cominciassimo anche a considerare “Occupy Language” come un movimento in sé e per sé?
Che tipo di problemi potrebbe suscitare “Occupy Language”? Cosa potrebbe sembrare riprendersi il linguaggio dai suoi auto-proclamatisi “maestri e padroni”?
Potremmo iniziare ad esaminare queste questioni dal punto di vista delle discriminazioni razziali, e trovare delle risposte in questo ambito, su come promuovere l’equità e l’uguaglianza.
Decolonizziamo Wall Street
Wall Street Difendiamo la Terra Madre sta su territorio algonchino occupato!
Decolonizziamo il 99%
Orlando Arenas, Ernesto Yerena, Ricardo Lopez, Sandra Castro
“Occupy Language” potrebbe trarre ispirazione sia dal modo in cui “Occupy movement” ha rimodellato le definizioni di “occupare”, cosa che ci insegna come le parole abbiano il significato che noi assegniamo loro al momento opportuno e che una lingua non è mai statica, sia dal modo in cui movimenti indigeni hanno contestato l’uso di un certo linguaggio, il che ci insegna a tenere sempre ben presente che il linguaggio può fornire grande potere ed opprimere, unificare ed isolare.
Per cominciare, “Occupy Language” dovrebbe prima fare esercizio di introspezione.
In una recente intervista, Julian Padilla di People of Color Working Group [gruppo di lavoro creato all’interno del movimento “Occupy Wall Street” sulle problematiche che investono le persone di colore] ha invitato il movimento “Occupy” ad esaminare le sue scelte linguistiche:
“Occupare significa conquistare uno spazio, ed io ritengo che il gruppo di anti-capitalisti che hanno conquistato lo spazio di Wall Street abbia dimostrato le sue potenzialità, ma mi piacerebbe che il movimento di New York cambiasse il suo nome in “decolonise Wall Street”, “decolonizziamo Wall Street”, così prendendo in considerazione la storia, le voci alternative e critiche dei nativi, la gente di colore e l’imperialismo … Occupare uno spazio non è intrinsecamente cattivo, tutto dipende da chi lo fa, e come e perché. Quando i colonizzatori bianchi occupano la terra, non si limitano a dormirvi durante la notte, rubano e distruggono. Quando il popolo dei nativi ha occupato l’isola di Alcatraz è stato (un atto di) protesta.”
Questa variazione linguistica può ricordare agli Usamericani che la maggioranza del “99 per cento” ha beneficiato dell’occupazione di territori indigeni.
“Occupy Language” potrebbe anche sostenere la campagna per impedire ai media di usare la parola “illegale” con riferimento agli immigrati “senza documenti”.
Secondo il punto di vista di questa campagna, nella lingua inglese vengono etichettati come illegali solo oggetti inanimati ed azioni; quindi l’uso di “illegali” con riferimento ad esseri umani è disumanizzante.
Il manuale di stile del New York Times raccomanda attualmente agli scrittori di evitare termini come “immigrato clandestino” e “senza documenti”, ma non indica nulla sul termine “illegali”. Ecco che il caposervizio delle norme linguistiche di The Times, Philip B. Corbett, recentemente è intervenuto su questo, ribadendo che il termine “illegali” contiene in sé un “tono inutilmente peggiorativo”, e che “è cosa saggia tenersene alla larga”.
Un linguaggio peggiorativo, discriminatorio può avere conseguenze sulla vita reale.
A questo riguardo, gli attivisti sono preoccupati per la coincidenza della crescita nell’uso del termine “illegali” e il picco di crimini d’odio razziale contro tutti i Latinoamericani. Per molto difficile che sia in questo caso risultare provata la relazione causa-effetto, l’Istituto Nazionale per i rapporti politici con i Latini riferisce che i rilevamenti statistici annuali condotti dall’FBI sui crimini motivati dall’odio di natura etnica e razziale mostrano che nel 2010 i “Latinos” costituiscono i due terzi delle vittime di reati per odio a sfondo etnico.
Quando “qualcuno” ripetutamente viene descritto come “qualcosa”, il linguaggio ha tranquillamente aperto la strada ad azioni violente.
Melanie Cervantes
Danno la colpa a me della crisi economica…e le banche di Wall Street non c’entrano per nulla?
Sicuramente, “Occupy Language” dovrebbe preoccuparsi di più per le parole che usiamo, ma dovrebbe agire anche per l’eliminazione di un linguaggio basato sul razzismo e la discriminazione. Rimanendo nell’ambito giuridico, la CNN ha recentemente riferito che il Ministero della Giustizia degli Stati Uniti asserisce che in Arizona il tristemente celebre Sceriffo Joe Arpaio, fra le altre ingiurie, ha discriminato “i reclusi Latinoamericani che presentano evidenti limiti nella lingua inglese, punendoli e negando loro i servizi essenziali.”
Nell’ambito dell’istruzione, l’antropologa linguistica Ana Celia Dentella sottolinea che continua ad essere un problema l’ostilità verso coloro che parlano “inglese con un accento” (Asiatici, Latinoamericani e Afro-americani).
In materia di abitazione, l’“Alleanza Nazionale per un’abitazione dignitosa” ha da tempo riconosciuto che gli “accenti” giocano un ruolo significativo nella discriminazione nel corso di una assegnazione dell’alloggio.
Sul mercato del lavoro, la discriminazione basata sul linguaggio si interseca con questioni di discriminazione razziale, etnica, di classe e di origine nazionale, che rendono più difficile per i candidati qualificati, però dotati di “accento”, ricevere pari opportunità.
Di fronte a tale diffusa discriminazione basata sul linguaggio, “Occupy Language” può diventare un movimento di critica linguistica progressista che metta in luce come il linguaggio venga utilizzato come mezzo di controllo sociale, politico ed economico.
Come “Occupy Language”, siamo in grado di fare chiarezza su quanto le istituzioni dell’educazione, politiche e sociali usino il linguaggio per emarginare ulteriormente i gruppi oppressi; possiamo opporci e resistere a pratiche linguistiche colonizzatrici, che pongono alcune lingue su piani superiori rispetto ad altre; possiamo resistere ai tentativi di definire le persone con termini radicati in stereotipi negativi, e cominciare a fornire una diversa connotazione al discorso pubblico sulle nostre comunità e sul ruolo centrale del linguaggio nell’affrontare le questioni del razzismo e della discriminazione.
Come ha dimostrato il movimento globale “Occupy”, le parole possono indurre all’azione intere nazioni – perfino il mondo intero.
“Occupy Language”, come movimento, dovrebbe fare appello al potere del linguaggio per trasformare il modo in cui noi ripensiamo al passato, come ci comportiamo al presente, e come immaginiamo il futuro.
Le illustrazioni presenti nel documento fanno parte di una collezione di manifesti del movimento “Occupy”, dei quali si può prendere visione sul sito Occuprint.
Che cosa ne direste se “Occupassimo il Linguaggio”?
H. Samy Alim dirige il centro-studi sulla razza, le etnie e il linguaggio (CREAL) all’Università di Stanford. Il suo libro di prossima edizione Articulate While Black: Barack Obama, Language, and Race in the U.S., scritto in collaborazione con Geneva Smitherman, esamina la politica razziale della presidenza Obama sotto la prospettiva del linguaggio.
Per concessione di The New York Times
Fonte: http://opinionator.blogs.nytimes.com/2011/12/21/what-if-we-occupied-language/#h[]
Data dell’articolo originale: 21/12/2011
URL dell’articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=6538
(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
da “il manifesto” del 31 dicembre 2011
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