Vendola: “Privatizzare i servizi pubblici. Sono contrario, ma devo essere preparato”
di Andrea Palladino | Il Fatto Quotidiano del 1 giugno 2012
Il leader di Sel e governatore della Puglia Nichi Vendola lo scorso autunno non ha tentennato neanche un secondo per opporsi al pacchetto di privatizzazioni firmato dal governo Berlusconi il 13 agosto 2011. Accogliendo l’invito dei referendari Ugo Mattei e Alberto Lucarelli, Vendola firmò con convinzione il ricorso costituzionale contro l’articolo 4 del pacchetto voluto da Tremonti, quando la crisi dello spread iniziava far traballare il governo del Pdl e della Lega. Una norma che obbliga i comuni a cedere i servizi pubblici locali ai privati, ignorando – di fatto – il risultato dei referendum.
Qualcosa deve essere, nel frattempo, cambiato. Qualche giorno fa lo stesso Vendola che chiedeva di abrogare le norme privatizzatrici – che nel frattempo sono state confermate e rafforzate dal governo Monti – si è detto pronto ad avviare la cessione ai privati di “rifiuti, trasporti locali e acqua“. Una notizia che ha lasciato di sasso il movimento dei beni comuni, che subito ha iniziato a mobilitarsi. “Sull’acqua non privatizzeremo nulla – smentisce parzialmente Vendola – l’acquedotto pugliese rimarrà pubblico almeno fino al 2018”. Una retromarcia solo parziale, perché sugli altri due servizi pubblici locali il governatore della Puglia conferma a ilfattoquotidiano.it di voler accogliere le indicazioni del decreto liberalizzazioni di Monti: cedere ai privati rifiuti e trasporti.
Normale amministrazione? In realtà l’annuncio pubblico del governatore arriva in un momento particolare: mancano appena due settimane all’udienza davanti ai giudici costituzionali che dovranno decidere su quel ricorso presentato ad ottobre, dove lo stesso governo regionale della Puglia, che oggi annuncia le privatizzazioni, chiedeva alla Consulta di bloccarle, per rispettare il voto referendario.
Una scelta politicamente azzardata? “Noi ci batteremo con le unghie e con i denti davanti alla Corte costituzionale – spiega Nichi Vendola a ilfattoquotidiano.it -, questo deve essere chiaro. Ma nel caso in cui la Consulta ci dia torto, l’impreparazione generalizzata può essere l’occasione per l’ingresso della criminalità organizzata nella gestione dei servizi pubblici locali. La domanda è: chi ha più competenza oggi sul ciclo dei rifiuti in Italia? Chi si può presentare sul mercato con una forza economica e capacità di entratura gigantesca? La battaglia sul fronte della Corte costituzionale va benissimo, ma c’è una diffusa distrazione dei pubblici amministratori su questi rischi”. La critica che arriva dai movimenti riguarda però la tempistica: non era forse opportuno aspettare la decisione della Corte costituzionale prima di avviare le privatizzazioni? “Ma il termine è il 30 giugno, noi dobbiamo legiferare entro questa data e la discussione davanti alla Consulta avverrà qualche giorno prima – commenta Vendola – e penso che il privato non può essere contrastato soltanto da una opzione ideale, perché c’è privato e privato”.
La reazione dei movimenti pugliesi è dura: “Noi ci saremmo aspettati una posizione di forte resistenza da parte della regione Puglia – commenta Margherita Ciervo, del Comitato pugliese acqua bene comune – rispetto alle politiche liberiste dei governi Berlusconi e Monti e di non essere la prima regione a fare i compiti a casa”. Nella questione torna poi il nodo non ancora risolto dell’acquedotto, oggi gestito da una Spa a capitale interamente posseduto dalla Regione Puglia, con un processo di ripubblicizzazione partito subito dopo il risultato del referendum e fermato dai ricorsi del governo centrale. La “gaffe” di Vendola che aveva citato anche l’acqua tra i servizi da privatizzare – dichiarazione poi smentita dallo stesso governatore – ha allarmato i comitati acqua pubblica: “Non è vero che l’acquedotto rimane pubblico fino al 2018, come sostiene il governatore – spiega Ciervo – perché la forma della società per azioni non garantisce la gestione pubblica. Nel 2009 l’allora capogruppo del del Pd in consiglio regionale, propose una mozione per la vendita di una quota di Aqp ai privati, decisione poi bloccata solo grazie alla nostra mobilitazione. Se non cambia la forma societaria non ci sentiamo garantiti rispetto all’ingresso dei privati”.
Una panoramica parziale ma istruttiva del braccio di ferro tra comitati per l’acqua pubblica, forze sociali e sindacali contro i sindaci privatizzatori – di centrodestra ma spessissimo anche di centrosinistra – ce la dà Angela Lazzaro in un articolo comparso ieri su Il Fatto Quotidiano:
LOMBARDIA
(…) Ma anche tra gli enti locali c’è un bel fermento. A partire dal caso di Cremona. Gli acquedotti della provincia lombarda, infatti, “rischiano”, nonostante il referendum, di andare in gestione a una società mista. La conferenza dei sindaci dell’Ato, l’autorità d’ambito, doveva decidere l’affidamento del servizio idrico a una società misto pubblico-privata (60% in mano al pubblico, 40% in mano ai privati) per poi passare alla gara ad evidenza pubblica. Per ora la mobilitazione dei comitati per l’acqua pubblica, con un presidio di 250 persone lo scorso 22 novembre mentre era in corso l’assemblea dei sindaci, ha bloccato l’iter. I sindaci hanno fatto mancare il numero legale, ma il “pericolo” resta. L’articolo 23bis del decreto Ronchi obbligava a privatizzare entro il 31 dicembre 2011: abrogata quella norma con il primo quesito referendario, si fa riferimento – secondo i dettami della Corte Costituzionale – alla disciplina comunitaria, che prevede tutte le forme di gestione possibili, privatizzazione inclusa (ecco perché i Comitati per l’acqua pubblica ce l’hanno anche con l’Unione europea, rea di ammettere e anche spingere le liberalizzazioni, compresa quella del servizio idrico). E il “pericolo” resta, a Cremona e dintorni, anche rispetto alle intenzioni dell’amministrazione comunale (con il sindaco Oreste Perri in quota An-Pdl) e di quella provinciale (con Massimiliano Salini, uomo di Roberto Formigoni). Perché – dicono – necessari e urgenti sono gli interventi su acquedotti, fogne e depuratori, tubature e pozzi a rischio inquinamento. La stima dell’Ato è di una spesa di 371 milioni di euro per i prossimi due decenni. I Comuni, si sa, non godono di buona salute economica e l’allarme lanciato da Cremona è che lasciare il servizio in mano pubblica – come l’esito referendario richiederebbe – porterebbe ad un aumento delle tariffe per ovviare alla carenza di risorse.
TORINO
E poi c’è Torino, con Piero Fassino sindaco. E con la sua delibera per la privatizzazione delle aziende dei rifiuti e dei trasporti pubblici locali ancora in capo al Comune. Eppure il Pd, alla fine – tra se, ma, forse, chissà, però, ma anche – sul carro dei vincitori del referendum ci era salito, appoggiandolo. Per il momento, all’ombra della Mole, l’acqua resta fuori dalla delibera fassiniana, ma il problema resta. Nel “fare finta che gli italiani abbiano votato solo per il servizio idrico e non per tutti i servizi pubblici locali” e perché neanche l’acqua sembra veramente salva, annoverando tra i suoi potenziali nemici (a Torino ma anche nel resto d’Italia) persino il partito di Nichi Vendola.
(…)
FIRENZE
Buone notizie arrivano invece da Firenze, dove è stata approvata in Commissione Ambiente – con voto trasversale di Sel, Pd e Pdl – la mozione sull’adeguamento all’esito del referendum di giugno delle bollette di Publiacqua. L’atto impegna ora l’amministrazione a presentare nella prima assemblea utile dell’Ato la proposta di adeguare la tariffa del servizio idrico all’esito referendario, abrogando il 7% di remunerazione garantita del capitale investito.
SALERNO E NAPOLI
A Salerno, secondo i Comitati, non si privatizza formalmente, ma la costituzione di una holding multiservizi, in cui è stata inserita anche la gestione del servizio idrico, rappresenta per il referendari il “primo passo verso la privatizzazione”. La giunta di centrosinistra, con a capo Vincenzo De Luca, ha, infatti, ceduto la Salerno Sistemi Spa, controllata dal Comune, alla Salerno Energia Spa, azienda mista di diritto privato. Sempre dalla Campania, però, arriva l’altra buona notizia, con Napoli. Il capoluogo partenopeo rappresenta, ad oggi, l’unico caso reale in Italia di pubblicizzazione del servizio idrico. La giunta di Luigi De Magistris ha trasformato l’Arin Spa, società a totale capitale pubblico, in un’azienda speciale chiamata “Acqua bene comune Napoli”. E’ quello che chiede il popolo dell’acqua: un ente di diritto pubblico a cui parteciperanno cittadini e lavoratori del Servizio idrico integrato. “Napoli lo ha fatto in tre mesi”, dice Paolo Carsetti. “Non si capisce perché nessun altro in Italia lo abbia fatto”.
ROMA
E nella Capitale cosa succede? Nessuno – ricorda il Forum – ha mai smentito la notizia diffusa alcuni giorni fa in merito al presunto finanziamento (200mila euro con causale “relazioni pubbliche”) da parte di Acea – della quale il Campidoglio detiene il 51% delle azioni – al comitato del “no” al referendum durante la campagna referendaria. Comitato cui fa capo anche Franco Bassanini, attuale presidente della Cassa depositi e prestiti, e il cui presidente è Walter Mazzitti. 200mila euro che sarebbero arrivati nelle casse del comitato per il no, movimentati – questa l’accusa – dall’amministratore delegato di Acea, Marco Staderini, e dal presidente della società Giancarlo Cremonesi, senza passare per il Cda.
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