L’equità secondo DraghiGabriele Pastrello
È inutile dire a Angela Merkel o a Mario Draghi che le misure che passano sotto il nome di fiscal compact, cioè l’omogeneizzazione delle politiche fiscali nell’area euro, sono recessive. Lo sanno benissimo, ma ancora non gli basta.
Infatti, nell’intervista concessa giorni fa al Wall Street Journal, Mario Draghi ha detto che queste misure sono inevitabili e «recessive nel breve periodo». Ma, ha aggiunto, alla contrazione immediata seguirà una crescita sostenibile nel lungo periodo se, e solo se, verranno introdotte «riforme strutturali». I tagli alla spesa di per sé non bastano, se l’ulteriore riduzione del deficit è ottenuta con aumenti di imposte, che secondo lui andrebbero invece ridotte. Il che si può fare solo con altri tagli alle spese, cioè allo stato sociale. Ma questo ancora non basterebbe.
C’è accordo sul fatto che ci vorrebbero più spese per investimenti pubblici in infrastrutture e modernizzazione. Anni fa l’ex-presidente della Commissione europea Jacques Delors propose di non conteggiare gli investimenti pubblici nei deficit dei bilanci degli Stati, per non aumentarne il livello ammesso, che allora era il tre per cento e oggi è lo zero. Draghi, invece, propone che queste spese vadano a ulteriore riduzione della spesa corrente, che però è in gran parte costituita da istruzione, sanità e altre spese sociali.
Inevitabile quindi la domanda dell’intervistatore se l’Europa si definirà ancora o no in base al suo modello sociale. «Il modello sociale europeo non c’è più», secondo Draghi in quanto si è permesso che alti tassi di disoccupazione giovanile lo rendessero meno equo. Conclusione pretestuosa perché, casomai, è proprio la persistenza di uno stato sociale ancora abbastanza ampio che ha reso socialmente sostenibile l’iniquità del mercato lavoro dualistico a danno dei giovani. Di questa iniquità sono responsabili il mercato e le imprese, non certo i lavoratori.
Non stupisce quindi, di conseguenza, il concetto di maggiore «equità» del mercato del lavoro enunciato da Draghi. Secondo lui, il peso della flessibilità ricade tutto sui giovani perchè c’è una parte del mercato del lavoro «protetta». Di conseguenza l’obiettivo della riforma del mercato del lavoro deve essere di ridurre le difese contrattuali per tutti, così il disagio sarà più equamente distribuito. Più ex-protetti licenziati e più precari assunti, tutti a condizioni complessivamente peggiori, questa è l’equità secondo Draghi. Che questi «protetti» siano magari i genitori dei più «precari» i quali quindi starebbero molto peggio se mancassero le difese contrattuali dei «protetti», che a loro volta sono genitori anche di figli più giovani cui non potranno offrire condizioni di ingresso decenti nel mercato del lavoro, è un’idea che non sfiora né Draghi né altri.
Come ciliegina, Draghi si permette una spiritosaggine degna delle esternazioni dei nostri «sobri» ministri, ricordando che un economista americano tempo fa disse che l’Europa era così ricca da potersi permettere di pagare tutti anche senza lavorare. Al contrario, Romano Prodi in una conferenza a Bologna, ha gettato l’allarme sul fatto che la riduzione dello stato sociale mina la coesione sociale. Mina anche, vale la pena aggiungere, quella competitività di cui tanti parlano a vanvera. Difficili condizioni di vita per ampi strati sociali, scuole e università sottofinanziate, non possono che produrre carenza di massa di quadri della conoscenza di cui l’economia italiana ha invece particolarmente bisogno per reggere la concorrenza mondiale. Pare che la Apple abbia detto al presidente Obama che non può riportare produzioni negli Usa perché mancano quadri adeguati; e mancano perché il sistema scolastico americano non li produce. E’ questo il destino che Draghi e Monti, con il contributo fattivo di Gelmini e Sacconi, hanno in mente per l’Italia?
La linea enunciata con chiarezza da Draghi, certamente condivisa da Monti, è meno stato sociale e meno difese contrattuali per tutti. Ciò dovrebbe favorire la crescita nel lungo periodo. Ma sia Draghi che Monti sono molto eufemistici riguardo alla stessa crescita. Il primo non dice che alla recessione seguirà semplicemente crescita, bensì che, grazie alle riforme strutturali, seguirà una crescita «sostenibile», perché sa che ben altre sono le misure che producono crescita senza aggettivi, ma non le vuole. Nella stessa vena Monti ha detto che il suo decreto cresci-Italia «aiuta» la crescita, così come fanno certi venditori di lozioni, di cui non possono più dire che «fanno crescere» i capelli.
Alla fine, dopo questo «breve» periodo di purgatorio, avremo una crescita moralmente accettabile. Ma, come diceva un famoso economista, la lunghezza del «breve periodo» è molto diversa a seconda che lo si guardi dall’inizio o dalla fine. E noi siamo solo all’inizio.
da “il manifesto”
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa