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Cos’è la cittadinanza, nell’Europa del 2000?

La questione della cittadinanza è ricca di contraddizioni. Ogni tentativo di dare definizioni “interessate” (fasciste, leghiste, berlusconiane, “buoniste”) sbatte violentemente contro apparenti paradossi logici che rivelano all’istante un uso bislacco e arbitrario di “categorie” senza fondamento teorico, storico, pudore.

Ma ben poche volte la questione è stata posta dal punto di vista di chi, in questo disastro di paese, ci è entrato e ci ha ragionato – molto bene – sopra. Abbiamo il primo ministro nero e donna della storia italiana, e un branco di deficienti non hanno trovato di meglio, per criticarla, che osceni insulti.

Il fatto che questa intrigante riflessione venga ora da un’atleta forte, bella, vincente, non varrà forse a tacitarli. Ma almeno a costringerli a pensare un attimo – forse – sì. E’ già una vittoria.

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L’Italia sono (anche) io

Ai Mondiali di atletica Dariya c’ha provato. Non è andata, ma competere con gente da 200 paesi non è facile, e la ragazza è giovane e si farà (e non ha per niente le spalle strette). Dariya parla con uno spiccato accento campano e indossa la divisa azzurra con l’eleganza e la forza del suo corpo tonico. Ci ha messo 12 anni per prendere la cittadinanza italiana, per essere “naturalizzata” (che espressione grottesca), uno meno di me (se ben ricordo: le odissee quando non diventano canti epici si tende a dimenticarle). Comunque un’eternità.

Dariya Derkach ritratta da GQ due anni fa, quando era ancora ucraina.

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Per qualcuno 10 anni sono troppi, per altri troppo pochi. C’è chi dice che nascere su suolo italiano non deve contare ai fini della cittadinanza, chi ribatte che essere italiani mica è un fatto di sangue, è un fatto di cultura, di gusti, di abitudini. Ti piace la pizza? Bene. (Ma allora io sono spacciata.) Di posizioni sull’argomento se ne sentono tante, anche se non è proprio “da bar” come le vicende del magnate televisivo fu primo ministro. Ebbene, non ne avete un’idea. E invece dovreste, davvero.

Voi italiani (sì, ogni tanto me ne tiro fuori, e ogni tanto mi vien facile, quando voi mi date una grande mano) non state facendo alcun ragionamento collettivo utile su una questione ormai irrimandabile e delicata. Non ne sapete una mazza, probabilmente volete continuare così, e questi tristi mezzi d’informazione che ci ritroviamo (sì, “ci”, perché dalle sciagure non mi posso tirare fuori) non vi aiutano di sicuro. Ma è un lusso che non potete –più– permettervi. Non ce lo possiamo più permettere. Perché il mondo cambia e ti impone di stare da una parte o dall’altra. O di inventartene una terza, a patto che tu la sappia inventare.

Immaginate una situazione paradossale. Immaginate che a voi tutti, nati e cresciuti entro Chiasso e Lampedusa, non dessero automaticamente la cittadinanza. Immaginate che, sì, siete italiani e tutto, ma c’è un passaggio ulteriore, una specie di Riconferma che vi faccia passare da cittadino in nuce, provvisorio, a cittadino vero e proprio. Tipo a 16 anni, una età a caso.

Cosa chiedereste alle istituzioni? Cosa chiedereste a chi le governa e a chi le controlla, a tutti, perché possiate vivere serenamente la Riconferma? Potete pensarci un po’, se volete. Voglio dire, vi sentite italiani —siete italiani!— ed è giusto che possiate riflettere con calma sul documento che sancirà quello che già vi sentite —siete!— di fatto. Mi permetto di avanzare qualche ipotesi.

Chiedereste probabilmente criteri univoci chiari validi per tutti. Poco interpretabili, quindi (sai almeno una terzina dantesca a memoria sì o no?), comprensibili a chiunque abbia 15 anni (un anno per prepararsi ci vorrà, no?), applicabili senza scappatoie e senza distinzioni di provenienza regionale, censo, istruzione. Poi uno è tranquillo, no? Se il mazzo non è truccato e io ho in mano una scala reale sono ragionevolmente tranquillo, vero?

Usciamo un attimo dal paradosso e torniamo a noi. Italia anni ’90-2013. Il mazzo non è che sia truccato, eh. È solo che mancano delle carte. E ci sono due donne di picche, chissà perché. E un quattro di bastoni da un mazzo di triestine —quelle col numero— che rende difficile mescolare. Insomma, i criteri cambiano di riforma in riforma, di questura in questura, di provincia in regione. Alla mia famiglia capitò secoli fa di fare domanda di cittadinanza e di vedercela respinta perché dopo la nostra richiesta la legge aveva cambiato un certo criterio. La legge non era retroattiva, e un ricorso avrebbe forse cambiato gli eventi futuri. Ma del senno di poi…

E se i criteri della Riconferma non vi trovassero d’accordo? Cosa valutereste importante? Non vorreste forse conoscerli subito, una volta e per sempre? Almeno a grandi linee, voglio dire. Nelle cose che contano. Se devi saper cucinare almeno un tipo di pasta al forno ci puoi lavorare, ecco. Ma se devi dimostrare che i tuoi antenati risiedono in Italia dal 1700 potrebbe essere un po’ più complesso, magari: no? E poi forse potresti non voler vivere in un Paese che guarda l’albero genealogico indietro di 10 generazioni. Forse, eh. E poi: forse vorreste che queste linee guida fossero condivise. Da tutti, non solo dai quindicenni in coda per la Riconferma. Perché se no, come fai a discutere dell’assurdità del 1700?

Non avete la più pallida idea di come si diventi cittadini italiani, ammettetelo. Non sapete nemmeno perché si può diventare cittadini italiani. No, non c’entra la faccenda dello ius soli. Quella è per l’eventuale diritto di cittadinanza alla nascita. Io non sono nata in Italia, né ho sangue (?) italiano, eppure sono cittadina italiana. In tanti anni, dagli amici più cari a gente appena conosciuta a una cena o a un evento, centinaia di persone mi hanno fatto domande —talvolta assurde— su nazionalità, etnie (?), cittadinanza. E nello specifico sull’iter di cittadinanza italiana. Mostrando lacune che parevano voragini. Ebbene, lasciatevelo dire: non ve lo potete più permettere. Non ce lo possiamo più permettere.

Non possiamo più rimandare l’idea della società che vogliamo essere. Quella che dobbiamo costruire. La cittadinanza non è solo un pezzo di carta, è lo specchio del proprio livello di civiltà, della propria apertura. Compreso —e lo sottolineo con forza— l’iter che serve per arrivarci (è tutto chiaro? è tutto condiviso? il trattamento è uguale per tutti?).

Avete una idea della vostra Italia di domani e dopodomani? Se a voi la Riconferma non è mai stata chiesta perché nessuno ha mai messo in dubbio la vostra italianità, chiedetevi con chi —nuovo— vorreste condividerla. Deve sapere la lingua, l’altezza al garrese di Francesco Totti, deve distinguere pappardelle e fettuccine, conoscere la Costituzione? Essere cattolico, essere almeno cristiano? O per voi il sangue conta e un argentino che sa solo lo spagnolo ma ha tutti e quattro i nonni italiani è più italiano di me, per voi? Mica mi offendo, eh. Basta esser chiari. E, al momento, non lo si è.

Ottenere la cittadinanza italiana è un’odissea. Non c’è niente di certo, di logico, di condiviso. A parte i 10 anni di residenza coordinata e continuativa (co.co.re), devi dimostrare un reddito cospicuo che spesso manco i tuoi amici italiani da generazioni hanno (a proposito: questi nuovi italiani li volete bianchi caucasici e magari ricchi?), devi non cambiare città perché se no cambi questura ed è un casino, e soprattutto devi esser pronto a passare ore al telefono con un ufficio ministeriale per capire il destino della tua pratica.

La tendenza evidente del ministero è di respingere le domande. Lo sapevate, questo? Di base, provano a dirti di no. Poi se tu sei pervicace ai limiti dell’autolesionismo e insisti, rispondi, alleghi nuovi documenti che non erano mai stati citati prima, chiami, richiami, ti fai passare le crisi di pianto isterico, bestemmi il paese dove sei nato e quello dove vivi, maledici i nazionalismi e lo Stato nazione, smetti di accarezzare l’idea di tornare apolide, ricomponi il sorriso per parlare con l’ennesimo inutile funzionario, allora forse qualche speranza ce l’hai.

Ho chiesto la cittadinanza perché non potevo fare altrimenti. Ho passato anni a rispondere “non saprei” alla domanda “ma tu ti senti italiana?” per capire alla fine che non conta più nemmeno tanto. Non ha importanza se io mi sento italiana, io sono italiana (ho privilegiato due indicativi perché risultasse meglio il confronto: spero non me ne vorrete). Magari sono anche italiana, e del resto perché dovrei negare un altro pezzo di identità? Ma italiana lo sono, e tanto. Sarei italiana comunque, anche se non lo volessi. Ma questi sono fatti miei. La domanda è: che posizione avete voi davanti a queste situazioni?

Se credete che sia importante sentirsi italiani, va bene pure. Basta dirlo. Quando ho fatto domanda io non gliene fregava niente a nessuno. Ero pronta a fare tremila test di italiano, di cultura generale, di aspettare tre ore dopo mangiato per il bagno (anzi, no: quello no). Nessuno m’ha mai chiesto niente. —Perché vuoi prendere la cittadinanza? mi chiese un amico caro anni fa. —Mah, per comodità, ormai vivo qua da anni. —Non sono d’accordo! Per niente! Se proprio uno non è italiano di nascita, che almeno lo sia per sentimento. Ecco, questo mio amico ha una posizione che magari non condivido, ma almeno chiara e netta. Voi?

Le persone dall’identità plurima ci sono e sono in mezzo a noi. Facciamocene una ragione, e poi capiamo come comportarci nei loro confronti. Ne abbiamo facoltà. Solo, ricordate che le identità vere sono quelle che uno si sceglie, o quelle che alla fine accoglie come un dato di fatto (come io con la mia italianità). Le identità imposte o quelle negate creano sempre problemi. Fidatevi, lo so. Nulla è più pericoloso di quando ti dicono cosa sei o cosa non sei (vi ricordate “sei ebreo, non sei ariano”? quella roba là).

Essere razzisti è un lavoraccio. Credo non ci abbiate mai pensato, ma è così. Pensate al povero Hitler che si è dovuto arrampicare sui vetri per convincere il suo popolo che sì i rom e i sinti erano ariani, e di quelli puri dato che tendono a sposarsi tra loro, ma che la vita nomade aveva snaturato la loro arianità e quindi era giusto sterminarli assieme agli ebrei (semiti odiosi) e ai gay (ariani un po’ troppo allegri, si vede). E in Italia, gli esilaranti dibattiti sulla rivista La difesa della razza? Alcuni editorialisti fascisti razzisti l’avevano capito, che la questione del sangue era spinosa. E parlavano di una italianità che “si respira”, quindi culturale, tradurremmo noi con spirito antropologico. Ma qualcuno poi ricascava nella tentazione biologica (genetica, diremmo oggi), invocando la necessità di una pura discendenza da Cesare. Ma poi: mamma gli etruschi! Cosa farne del sangue di questo popolo antico dalle ignote origini? E se poi non sono indoeuropei e quindi nemmeno ariani? Poi i tedeschi ci schifano. E tutti gli invasori dell’Italia? Gli arabi (semiti!), i vichinghi, Francia Spagna purché se magna?

Quando frequentavo i forum del KuKluxKlan provavo quasi pena per loro. Non sapete che fatica difendere un’America bianca e cristiana in una nazione che ha sì praticato la segregazione razziale (?) fino a pochi decenni fa, ma che è nata dal miscuglio, dall’esplorazione e conquista anche violenta di territori sconfinati su cui gli unici detentori di veri diritti potrebbero essere semmai i nativi “pellerossa”. Perché frequentavo i forum del KuKluxKlan? Tranquilli. Per un laboratorio di Analisi semiotica del discorso razzista. Utilissimo. Mi ha lasciata con ancora più dubbi di quel che avessi, ma dubbi utili. Come del resto il corso di Relazioni internazionali del bravo prof. Luciano Bozzo (non sputiamo sempre sull’università italiana, santinumi: aiutiamo a tirar fuori le perle e a sbarazzarci di quelle false, semmai).

La Nazione non esiste, la Nazione si costruisce. È un dettaglio della dottrina politica che spesso sfugge. E i media, che confondono sempre Stato popolo Nazione Paese per la triste ossessione delle ripetizioni, perdono l’ennesima occasione per fare bene il loro dovere. In formula brevissima, un po’ approssimata ma bastevole. Un popolo (con la sua cultura abbastanza omogenea fatta di lingua tradizioni usi costumi) si identifica in una idea di Nazione, e quindi (di solito) rivendica uno Stato. Per dire, all’indomani dell’Unità d’Italia c’era lo Stato, ma la Nazione, dopo esser stata teorizzata da sparuti gruppi di filosofi politici ideologi, era ancora in costruzione. Io credo che dopo che s’è fatta l’Italia anche gli italiani son stati fatti. Ci son state due guerre mondiali, un ventennio indecente, una scuola pubblica nazionale e una televisione di Stato che hanno suggellato la nascita della Nazione.

Oggi la Nazione italiana è in crisi di identità. E non per colpa dei brutti ceffi che volevano inventare e costruire la Nazione padana; siete stati bravi a non dare alcuna chance a una teoria tanto bislacca. Si tratta invece della crisi di un Paese vecchio per anagrafe e per testa, che non prende posizione sulla sua identità, e quindi la difende in modo goffo e inefficiente. Perché ci sono dubbi sull’italianità di Balotelli? Diciamolo. Perché è nero. Facciamo che uno è italiano solo se bianco? Non sarò mai d’accordo, ma almeno lo sappiamo. (Poi però i figli dei matrimoni misti? Facciamo un biancometro come per i dentifrici whitening?) Che italiani volete essere? Che Italia vogliamo costruire?

A una che c’ha messo dodici anni per diventare italiana e farci vincere le medaglie, davvero volevate dirle di no?

Autoritratto azzurro di @dariyaderkach

da http://biljaic.com

con un ringraziamento a Riccardo Rosati per la segnalazione

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