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Lotte nella logistica e generalizzazione del conflitto

Dalla lotta di classe nella logistica alla generalizzazione del conflitto – ruolo delle soggettività politiche e dei movimenti di solidarietà –  per l’unità e la ricomposizione della classe. 

Indice

Un contesto mutato, l’affacciarsi della crisi nel settore della logistica e il suo uso strumentale da parte del padronato per ulteriori deregolamentazioni e contrazioni di diritti e salari.      Pag. 2

Gli scioperi generali organizzati in occasione della trattativa per il rinnovo del ccnl trasporto merci  e logistica. Passi in avanti ma anche errori tattici ed “economicismo”.    Pag. 4

Ma gli scioperi e le mobilitazioni continuano     Pag. 7

La costruzione di un movimento politico sindacale, il ruolo fondamentale delle realtà politiche solidali.  Pag. 9      

 

 

 

UN CONTESTO MUTATO. L’AFFACCIARSI DELLA CRISI NEL SETTORE DELLA LOGISTICA E IL SUO USO STRUMENTALE DA PARTE DEL PADRONATO PER ULTERIORI DEREGOLAMENTAZIONI E CONTRAZIONI DI DIRITTI E SALARI.

Sono ormai più di cinque gli anni passati dalla vertenza alla Bennet di Origgio, prima lotta operaia che dalla radice ha scosso il settore della logistica.Anni nei quali le lotte sono cresciute e si sono estese, abbracciando pressoché la totalità degli hub del nord e del centro Italia, confliggendo tanto con i colossi (nazionali e multinazionali) presenti nel complessivo sistema dei trasporti e della grande distribuzione quanto contro le cooperative appaltatrici che ne costituiscono la vera ossatura e la prima “trincea” con la quale confrontarsi.Un movimento di lotta autorganizzato che del salario e dello sfruttamento ha fatto questioni dirimenti immediate ma che è riuscito, anche affrontando le inevitabili sconfitte parziali e i passi falsi tattici, a porre con decisione la questione del comando interno ai singoli magazzini incidendo e ribaltando rapporti di forza dati e considerati inamovibili.Un movimento di lotta che ha fatto del protagonismo operaio diretto e della partecipazione attiva ai singoli momenti di lotta la propria cifra qualificante rifiutando le logiche concertative del sindacalismo colluso con gli interessi padronali e che ha visto crescere, in numero, estensione e ruolo, le realtà politiche solidali con i facchini e con il S.I. Cobas (principale sindacato autonomo di riferimento che ha conquistato, di lotta in lotta, una rappresentatività reale e maggioritaria tra i lavoratori e si è posto quale interlocutore necessario per un padronato da sempre abituato a una dialettica sindacale “morbida” se non collaborazionista) e che hanno fatto proprio questo percorso collettivo e unitario.Lavoratori e lavoratrici che sono riusciti consapevolmente a riaffermare con forza e riconquistare quella dignità negata nella materiale quotidianità del lavoro fatta di ritmi insostenibili, salari infimi e discriminazioni, stritolata dai meccanismi dello sfruttamento cui sono sottoposti.

Tutto questo in un contesto di crisi generalizzata del sistema capitalistico che, come era preventivabile, si sta ora affacciando quasi meccanicamente, stante la generale stagnazione nella produzione di merci, anche in questo settore particolare.

 

Non ancora con modalità dirompenti, buoni livelli di profitti sono infatti ancora realizzabili in questo ramo soprattutto se confrontato con la situazione di altri settori produttivi, ma ormai sicuramente presente. Non stupiscono quindi le parole, rilasciate all’inizio di quest’anno, dal direttore di Confetra (una delle maggiori centrali di rappresentanza padronale della logistica e dei trasporti) che è stato chiaro nell’esprimere la specifica posizione padronale sullo stato in cui attualmente versa l’intero settore: “Ci si aspettava, per il 2012, una ripresa dell’attività produttiva e quindi un aumento dei volumi di merci trasportate ma la crescita non c’è stata. È un periodo nero che le imprese della logistica non hanno vissuto nemmeno nel 2008 e che non migliorerà nemmeno nel 2013” (Il sole 24 ore, 5/01/2013).

 

Visione e preoccupazioni, queste di Confetra, sicuramente parziali e interessate ma che comunque segnalano i primi giri a vuoto in uno dei settori economici che negli ultimi anni, non solo nel nostro paese, hanno garantito profitti elevatissimi ai numerosi operatori nazionali e sovranazionali presenti sul territorio (settore che, ricordiamo, incide per circa il 10% sul prodotto interno lordo italiano).

 

Comparto questo della logistica e dei trasporti che, quale conseguenza della politica economica degli ultimi trent’anni volta alla esternalizzazione e allo snellimento della produzione in funzione anche della realizzazione di profitti a breve termine con gli strumenti sempre più sofisticati offerti dalla finanza speculativa, è diventato centrale e decisivo nell’assetto produttivo nazionale e cifra anche descrittiva del nuovo ruolo assegnato all’Italia nella divisione internazionale del lavoro.                                                                         

 

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Scelte economiche dettate altresì nel momento in cui la classe ha acquistato livelli di coscienza e di autorganizzazione tali da metterne in discussione la catena di comando del capitale e, in alcuni momenti, la sua stessa esistenza: speculazione finanziaria e rendita fondiaria sono diventate quindi opzioni obbligate per tentare di mantenere elevati tassi di profitto anche quale conseguenza della riduzione dei margini degli stessi dovuta alle lotte operaie che si sono succedute dal ’69 per un intera decade. La politica industriale di delocalizzazione produttiva dei decenni passati e il conseguente aumento degli investimenti e della presenza della sfera della circolazione a scapito della produzione diretta e materiale di merci, sono ulteriori fattori che segnano l’attuale consolidamento della nuova funzione assegnata all’Italia nella filiera mondiale della produzione: quello periferico o comunque finale. E che segnano un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica allorché il padronato ha comunque deciso di privarsi di una massa di forza lavoro nel settore della produzione reale di merci per “spostare” gli investimenti, come detto, nella sfera di circolazione e nella finanza. 

Di scarso interesse per la nostra analisi è l’elencazione puntuale delle cause strutturali ed endogene al sistema dei trasporti italiano (più o meno reali) che contribuiscono all’afasia del settore che, secondo la vulgata padronale e degli osservatori, sarebbero in sintesi da ricondurre all’estrema frammentazione e debolezza infrastrutturale, alla presenza di numerosi operatori anche di piccole dimensioni incapaci di fare “sistema” unita alla propensione industriale e commerciale (dalla parte dei fruitori del servizio) a non affidarsi a soggetti capaci e strutturati per seguire l’intero processo logistico, a una burocrazia farraginosa…

 

E’ evidente, lo si dice per puro scrupolo, che non si stanno fornendo giustificazioni o formule assolutorie a un padronato colpito dalla crisi o comunque incapace, per mero interesse di riduzione dei costi fissi, di investire o attuare misure strutturali in grado di reggere la concorrenza internazionale (e tentare di rallentare l’inevitabile tendenziale calo dei profitti del settore): è facile infatti osservare come sia stato capace, in termini complessivi e utilizzando strumentalmente la crisi stessa per affondare il colpo, di riorganizzare un’azione fortemente classista dai forti costi sociali in termini di contrazione di salari e diritti per i lavoratori e le lavoratrici italiani. Del resto non è la prima volta che i ceti dominanti del capitale dimostrano di aver avuto la capacità di trasformare le situazioni di crisi in opportunità di attacco contro la classe proletaria…

 

In ciò coadiuvati dai governi che si sono succeduti dall’esplosione della crisi (in particolare da due anni a questa parte: da Monti in poi), ormai ridotti a meri esecutori delle indicazioni non negoziabili della Troika (BCE, UE e FMI), nello smantellamento sia del sistema sociale sia delle residue tutele del lavoro nell’indifferenza o con la complicità pressoché generale e a tutto vantaggio delle imprese di ogni dimensione. Dopo aver infatti operato, durante il governo tecnico, pressoché esclusivamente a vantaggio della finanza e delle banche attaccando direttamente le garanzie sociali degli italiani (pensioni, sanità, ecc.) ora gli obiettivi sono altri.  

 

Esemplari sul punto, ma solo ultime in ordine di tempo, le priorità tracciate dal FMI per l’Italia nel rapporto stilato al termine della sua ultima missione nell’Eurozona (Agi, 25 luglio 2013): introduzione di contratti flessibili a tempo indeterminato, promozione della contrattazione aziendale, considerazione delle differenze regionali nelle retribuzioni pubbliche e flessibilità salariale nel settore privato, privatizzazione dei servizi pubblici locali. Ed è sufficiente analizzare gli ultimi provvedimenti in materia di lavoro (tra cui il blocco dei contratti e delle retribuzioni nel pubblico impiego), gli accordi interconfederali sottoscritti da associazioni padronali e sindacalismo complice e i rinnovi contrattuali conclusi o in via di definizione (tra cui proprio quello del settore dei trasporti e logistica) per leggere

 

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l’applicazione concreta delle “suggestioni” provenienti dai diversi, ma univoci negli indirizzi di politica economica, organismi sovranazionali.     

Ma nel tornare ad osservare nel particolare gli ultimi sviluppi del settore della logistica e l’esplodere delle prime avvisaglie delle conseguenze della crisi strutturale dell’intero sistema capitalistico nelle specificità del medesimo, ciò che può essere immediatamente rilevato è che nemmeno il meccanismo rodato degli appalti e sub-appalti a cooperative per comprimere i costi (soprattutto attraverso l’erogazione di salari da fame, l’elusione contributiva, il mancato adeguamento agli standard minimi di sicurezza previsti dalle leggi in materia, l’estrazione di plusvalore assoluto) e reggere la concorrenza pare sembri essere oggi sufficiente a garantire margini di profitto fino a qualche anno fa considerati normali e assodati.

 

 E non pare altresì sufficiente il ricorso, coerente peraltro con l’intera storia industriale italiana (Fiat in testa) e già utilizzata in più occasioni quale strumento di controllo della forza lavoro e di compressione del conflitto (Esselunga e Granarolo su tutte), alla cassa integrazione in deroga.

 

Primi esempi si sono palesati alla Fiege Borruso nel lodigiano e alla TNT Italia che, dopo aver dichiarato ingenti esuberi di personale (854 lavoratori, soprattutto impiegati amministrativi), li ha trasformati con il beneplacito del sindacalismo di regime in cassaintegrati così sospendendo e rinviando nei fatti la soluzione a futuri accordi comunque con la previsione, già concordata, di ricorrere alla mobilità incentivata anche per altra forza lavoro operaia impiegata nei propri magazzini. Tutto ciò peraltro dopo il tentativo di fusione con UPS, bloccato dall’antitrust comunitaria, che avrebbe garantito, come ogni concentrazione, maggiori utili al nuovo soggetto.

 

Altri operatori invece hanno preferito investire sul capitale costante introducendo automazione e tecnologie più avanzate (agendo così, per tentare di arginare la caduta del saggio di profitto, sul plusvalore relativo): è il caso della DHL che nei magazzini siti a Carpiano, come riporta il sole 24 ore del 3 luglio, ha provveduto all’ammodernamento dei propri impianti di smistamento interno.

 

Entrambe soluzioni comunque che imporranno nel prossimo futuro ai lavoratori, al sindacalismo combattivo e alle realtà politiche solidali nuove sfide: è evidente infatti che esuberi, sospensioni dei rapporti di lavoro e automazione incideranno in maniera sempre più preponderante sugli attuali livelli occupazionali e sulla necessità reale di forza lavoro operaia da impiegare nei differenti hub (e, sia detto per inciso, dalla nostra parte non potrà che riacquistare il giusto peso e portata antagonista la mai sopita lotta per “lavorare meno, lavorare tutti a parità di salario”).  

 

GLI SCIOPERI GENERALI ORGANIZZATI IN OCCASIONE DELLA TRATTATIVA PER ILRINNOVO DEL CCNL TRASPORTO MERCI E LOGISTICA.

 

Passi in avanti ma anche errori tattici ed “economicismo”.

 

Ed è in questo contesto che si innesta la trattativa per il rinnovo del contratto collettivo di settore scaduto ormai da più di un anno nella quale il padronato sta cercando, agitando ovviamente lo spauracchio della crisi e la necessità di sacrifici (ecco svelato il significato reale delle parole del presidente di Confetra di inizio anno), di scaricare i costi relativi sugli addetti attraverso ulteriore precarietà, aumenti salariali risicati e autorizzazioni a deroghe alla legge in tema di orari di lavoro, straordinari, indennità di trasferta ovviamente con la complicità, affiancata da un’opposizione di maniera o semplicemente evocata, del sindacalismo confederale.

 

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Questi infatti sono i primi chiari segnali che arrivano dal tavolo della trattativa e dalle ipotesi di accordo: congelamento dell’indennità di vacanza contrattuale, introduzione dell’orario multiperiodale (definizione di un orario di lavoro giornaliero normale compreso tra un limite minimo di 6 ore e massimo di 10 ore giornaliere: è così certificato, se ve ne fosse la necessità, che i lavoratori debbano essere sempre a disposizione delle esigenze padronali), ratificazione dei principi di cui all’Accordo interconfederale del giugno 2011.                      

In definitiva, ogni strumento (anche quello del contratto collettivo nazionale) è utile e asservibile al tentativo di continuare a garantire al padronato del settore quote di profitto in caduta anche attraverso la socializzazione delle perdite e una gestione della forza lavoro sempre più flessibile, da un punto di vista contrattuale, e irregimentata sindacalmente con il tentativo esplicito di escludere di fatto il sindacalismo conflittuale.

 

E, a ben guardare quest’ultima questione, il disegno che si prefiggono le parti sociali del settore della logistica è in linea con quanto contrattato, a un livello più complessivo, da Confindustria e CGIL, CISL e UIL nell‘accordo sulla rappresentanza siglato lo scorso 31 maggio (definito peraltro dagli attori interessati, dalla Camusso a Squinzi, e dal presidente del consiglio Letta come “storico” e di “svolta” per l’intero sistemo delle relazioni sindacali): ossia la scrittura di regole autoritarie per prevenire il conflitto nel sistema delle relazioni industriali.

 

Ciò attraverso (appunto e tra gli altri) la marginalizzazione del sindacalismo di base prevedendo che alle trattative possano partecipare esclusivamente le sigle firmatarie dell’accordo stesso, l’esigibilità dei contratti e degli accordi sottoscritti con rinuncia espressa alla promozione di azione di contrasto, la previsione di sanzioni per i dissenzienti e per gli scioperi, il controllo nei fatti della forza lavoro delle singole aziende operato direttamente dalle rappresentanze sindacali unitarie.

 

E’ la trasposizione nello spazio delle relazioni sindacali di quanto già sta avvenendo a livello istituzionale e di politica generale: la ricerca di una forzosa stabilità, ossia il cautelarsi contro qualsivoglia opposizione o conflitto, perseguita attraverso governi tecnici o delle larghe intese il cui esclusivo fine è il cieco adempimento ai diktat europei e il tentativo di attirare investimenti e salvare un capitalismo nazionale (e i relativi profitti) sempre più in affanno. Un’azione sicuramente non ancora lineare nella sua costruzione e dispiegamento, ma certa nelle finalità strategiche.

 

Ciò nonostante le pretestuose ultime dichiarazioni del ministro dell’economia Saccomanni su presunti segnali positivi per una ripresa nella seconda metà di quest’anno dovuti a una contrazione del PIL inferiore rispetto a quello previsto: nient’altro che un’irreale e squallida giustificazione delle ulteriori deregolamentazioni e tagli alla spesa sociale che ci attendono per “non vanificare gli sforzi già fatti”.   

 

Nessuna agibilità quindi per chi intenda “disturbare il manovratore”: il dissenso e le lotte non devono più essere solo e semplicemente represse nel loro sviluppo (o dopo la loro esplosione) bensì devono essere impedite all’origine ed evitate creando le condizioni legali e contrattuali per cui sia, quantomeno sul terreno specifico delle relazioni industriali, assai complesso e farraginoso organizzare e praticare un’opposizione radicale realmente incisiva sugli interessi padronali.

 

E’ in atto un ulteriore passaggio del tendenziale consolidamento di una democrazia caratterizzata da una deriva autoritaria progressivamente più spinta nel quale i lavoratori sono sempre più sottomessi e le relative istanze marginalizzate, eternamente precari, con salari ai limiti della sopravvivenza e sudditi di un’oligarchia tecnocratica e finanziaria sovranazionale i cui dettati di politica economica vengono garantiti da un Presidente della Repubblica che, nei fatti, anticipa la possibile svolta presidenzialista:

 

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dirige i partiti e i lavori di un parlamento ormai svuotato di ruolo, definisce gli avversari della democrazia da colpire e reprimere (l’opposizione sindacale e sociale, il movimento No Tav,…), orienta il governo sulla linea politica da tenere (comunque decisa altrove e indefettibilmente quella dettata dalla Troika).    

Ma, se ve ne fosse ancora bisogno, è altrettanto vero che questo accordo (al pari del decreto lavoro del governo Letta e del recentissimo accordo ultraprecarizzante sull’Expo sottoscritto sempre dal governo e dal sindacalismo complice nazionale e lombardo) segna un discrimine netto tra chi intenda posizionarsi all’esterno delle strette maglie concordate e scegliere percorsi di lotta autorganizzata e chi invece, ancora una volta, opti per la disastrosa via della compatibilità di sistema e della conseguente subordinazione agli interessi padronali.

 

La scelta di campo è all’oggi obbligata, non vi è più alcuno spazio possibile per tentennamenti o presunte opzioni tattiche di sospensione del conflitto in attesa di possibili uscite dalla crisi salvifiche per tutte le parti in causa.   

 

Ed è proprio nel settore della logistica che si ha l’esemplificazione plastica di quanto possa essere fallimentare questa seconda ipotesi: è stato infatti accennato in precedenza come nell’accordo stesso che ha trasformato in cassa integrazione gli esuberi annunciati da TNT sia già prevista la mobilità incentivata per i lavoratori interessati.

 

Non si tratta altro, quindi, che di licenziamenti rinviati: il padrone infatti, se non è costretto da nuovi rapporti di forza più favorevoli alla classe determinati dalla lotta reale, non cede…anzi ha tutto da guadagnare (anche i soldi dell’INPS per garantire la cassa integrazione). 

 

Come detto, nuovi rapporti di forza e conquiste in termini non solo salariali rappresentano del resto due tra i maggiori risultati che il posizionarsi al di fuori dei (e ribaltare i) tradizionali schemi sindacali ha permesso di raggiungere in questi sei anni al vasto movimento di lotta dei lavoratori e delle lavoratrici della logistica e che gli ha consentito, correndo anche lungo le vie informali del passaparola tra comunità di immigrati (che costituiscono la pressoché totalità della forza lavoro impiegata), di allargarsi sempre più sulle parole “vincere è possibile”, guadagnare credibilità e forza.

 

Anche le dure reazioni repressive che sin dall’inizio hanno accompagnato ogni singola vertenza esplosa non hanno scalfito la capacità del movimento di riprodursi e raggiungere nuovi magazzini (l’elenco sarebbe lunghissimo: dal nord Italia, a Roma, dall’Emilia ad Ancona).

 

Tra queste si assiste, per la gravità dell’attacco portato al diritto di sciopero nel suo complesso, all’intervento della Commissione di Garanzia che ha dapprima, nella vertenza Granarolo a Bologna, inserito tra i servizi pubblici essenziali la movimentazione e il trasporto di merci genericamente deperibili e poi, in occasione dell’ultimo sciopero generale del 12 luglio, ne ha esteso la portata anche ai beni di prima necessità con conseguente applicazione delle procedure previste dai codici di autoregolamentazione e delle norme della legge 146 del 1990 (la famigerata legge “anti-sciopero”).

 

E’ evidente come tali interventi delle istituzioni amiche e complici rappresentino un deciso salto di qualità nell’offensiva che il padronato ha posto in essere quale risposta a lotte sempre più incisive.

 

Questi non si limitano più infatti a reagire colpendo direttamente con sospensioni cautelari, licenziamenti politici, manganellate ai picchetti e denunce ai lavoratori e ai solidali: la strada intrapresa è ancora quella di tentare, da un lato, di prevenire, con tutti gli strumenti che il diritto mette a disposizione, il conflitto prima della sua esplosione, costringendo così a lunghi periodi di attesa tra la proclamazione e lo sciopero permettendo nei fatti ai padroni di organizzarsi per limitare il danno economico e, dall’altro,

 

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depotenziare e rendere inoffensive, riportandole a un livello accettabile di concertazione, lotte autorganizzate che hanno fatto emergere nella pratica del conflitto un punto di vista di classe, scoperchiando nel contempo un sistema consolidato di potere e di commistione istituzionale, politica e sindacale sulla pelle dei lavoratori.

MA GLI SCIOPERI E LE MOBILITAZIONI CONTINUANO.

 

Nell’ultimo semestre, in occasione della trattativa per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di settore scaduto il 31/12/2012 sono stati organizzati tre differenti momenti di sciopero generale (a marzo, maggio e luglio) e di mobilitazione davanti ai cancelli contro, come detto in precedenza, le ipotesi che trapelavano dal tavolo di trattativa istituzionale di un ulteriore peggioramento dello condizioni di lavoro.

 

Ma non solo. Queste mobilitazioni erano a sostegno di una piattaforma radicalmente alternativa a quella del sindacalismo complice frutto della rielaborazione collettiva delle vertenze passate (e delle pressoché identiche richieste avanzate a livello aziendale e/o di filiera nelle centinaia di vertenze di questi anni) e discussa in numerose assemblee dai lavoratori (quindi non imposta o tenuta nascosta ai lavoratori dalle segreterie sindacali, come accade per il sindacalismo confederale che ha licenziato una propria fumosa ipotesi discussa solo a livello dirigenziale) che si sono confrontati su questa partecipando direttamente alla redazione dei contenuti e dei punti da presentare alle controparti (committenti su tutti, individuati correttamente quali i reali interlocutori che utilizzano il sistema delle cooperative principalmente quale strumento per comprimere salari e diritti).

 

Una piattaforma che, partendo logicamente dal dato rivendicativo sindacale (in estrema sintesi: aumenti salariali importanti per far fronte a un costo della vita in costante aumento, maggiori tutele in occasione dei frequenti e spesso fraudolenti cambi di appalto, abolizione dei nuovi inquadramenti contrattuali introdotti e pagamento pieno di tutti gli istituti legali e contrattuali con l’abrogazione del c.d. minimo conglobato e della gradualità), ha incominciato a porre precisi obiettivi politici più complessivi: egualitarismo tra tutti i lavoratori impiegati nel settore come coscienza di essere parte di un’identità collettiva non più frammentata, reale libertà e democrazia sindacale sostanziale con il riconoscimento di tutti le organizzazioni presenti e garanzia di agibilità per le stesse e i propri delegati, il progressivo smantellamento dell’intero sistema di sfruttamento fondato sulle cooperative (che permette la gestione della forza lavoro a costi minimi con un elevato livello di flessibilità) e, quindi, il tentativo di una ridefinizione dei rapporti di forza e di potere tra interessi inconciliabili indispensabile anche per un reale miglioramento delle condizioni di lavoro e per ulteriori salti qualitativi in termini più complessivi.

 

Ed è proprio partendo da questi ultimi, che rappresentano le finalità più mature e indispensabili, che è possibile leggere l’ulteriore portato politico che ha connotato la piattaforma relativa al contratto collettivo: il tentativo di coniugare vertenzialità economica (come quella espressa appunto nella piattaforma stessa) con una prospettiva più generale e generalizzabile anche in altri settori che, a partire dai minimi livelli rivendicativi sindacali, esprima un’incompatibilità di classe e un’alterità sistemica da sviluppare e sedimentare nella pratica quotidiana del conflitto.

 

Gli scioperi generali, il proselitismo ai cancelli, la diffusione ai colleghi riluttanti dei contenuti della piattaforma, i presidi e i blocchi organizzati hanno dato risultati assai positivi in termini di partecipazione di lavoratori, con un protagonismo operaio capace ancora una volta di superare paura e senso di impotenza, e di forte impatto sulle controparti (in termini di perdite economiche subite) che hanno visto bloccati per le tre intere giornate i propri magazzini su tutto il territorio nazionale con il contributo militante, in diverse città ove non vi è la presenza di poli logistici o la lotta non ha ancora

 

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interessato il settore specifico, di volantinaggi di solidarietà o l’organizzazione di iniziative di denuncia del ruolo collaborazionista della CGIL come a Livorno.        

Tutto avvenuto nel più totale e interessato silenzio dei media mainstream che si interessano alle lotte della logistica, con poche eccezioni, solo in occasione di interventi repressivi delle forze dell’ordine davanti ai cancelli, ma al contempo nel clamore mediatico di tutti quei compagni e quelle compagne che gestiscono fondamentali siti d’informazione di movimento già protagonisti di campagne specifiche a sostegno della cassa di resistenza per i lavoratori licenziati e della vincente operazione di screditamento e danno all’immagine dell’Ikea (e ora della Granarolo). 

 

Per ben tre giornate, con alcuni limiti dovuti a un eccesso di tatticismo e a una visione poco prospettica (e di sottovalutazione dell’importanza, anche a livello di immaginario, di una mobilitazione unica e unitaria), si è deciso di scioperare e picchettare per rivendicazioni più generali che investono l’intero settore, superando le comunque fondamentali singole e specifiche vertenze aziendali, dimostrando il buon livello di maturità raggiunta da parte di un percorso ancora in espansione e in costruzione.                                                  

 

Ma si è anche espresso un ulteriore dato fondamentale: la consapevolezza per i lavoratori (facchini e in alcuni casi, come a Roma, anche corrieri) e i solidali di aver continuato quel processo di consolidamento di un movimento politico-sindacale che, rompendo con ogni logica corporativa, tenti una ricomposizione reale tra lavoratori e lavoratrici dei diversi settori produttivi tanto nei metodi di lotta (solidarietà concreta tra operai dei diversi stabilimenti) quanto nella prospettiva politica della costruzione dell’unità di classe. 

 

Percorso sicuramente da non considerarsi definito e risolto e che anzi comporta continue verifiche e aggiustamenti con un costante confronto dialettico tra lavoratori, soggetti sindacali e politici interni con continuità alle lotte con l’obiettivo di trovare le giuste sintesi per calibrare iniziative, tattiche, metodologie pratiche ed elaborazioni teoriche adeguate al livello del conflitto sviluppato e delle prossime nuove e imminenti sfide che, come detto, il contesto mutato descritto richiede (date le premesse, è infatti evidente che tra queste si stiano ormai profilando all’orizzonte ristrutturazioni aziendali, chiusure di stabilimenti, riduzioni di personale con conseguente ingrossamento del già ampio numero di disoccupati nel nostro paese).

 

Del resto la prassi di questo ampio ciclo di lotte ci dimostra, da un lato, come non sia possibile considerare, in vertenze aziendali e/o di filiera, alcun risultato positivo raggiunto e conquistato quale definitivo e immodificabile: col tempo il padronato è infatti riuscito in più occasioni a recuperare il terreno sottratto con il conflitto riposizionandosi in senso più favorevole. E, deve essere sottolineato ancora una volta, la crisi strutturale e politica che attanaglia il capitalismo continua inevitabilmente a portare con sé misure legislative (e contrattuali) che andranno a peggiorare le condizioni complessive della classe operaia fornendo ulteriori strumenti a tutto vantaggio degli interessi di classe e dei profitti del padronato stesso.  

 

Dall’altro, l’organizzazione degli scioperi generali citati per il contratto nazionale ha evidenziato delle differenze tattiche sostanziali nella declinazione concreta delle mobilitazioni tra le organizzazioni sindacali protagoniste (SI Cobas e ADL Cobas) che, nei fatti, soprattutto in occasione della terza e ultima data di mobilitazione prevista  (12 luglio), non hanno permesso di mantenere il livello di incisività dei precedenti momenti di lotta finendo così per depotenziare oggettivamente la compattezza di un intero movimento e permettendo ai padroni di limitare i danni. 

 

Il rincorrere la logica della particolare presunta specificità  (la filiera nazionale di uno o l’altro spedizioniere)  ha portato, in alcune situazioni lavorative venete e piacentine, alla scelta  di non scioperare nella medesima data lanciata a livello nazionale.

 

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Scelta che si è rivelata controproducente intaccando, da un lato, l’unità di classe dimostrata in precedenza  dai lavoratori e riportando il conflitto su un terreno di rivendicazione meramente sindacale.Paradossalmente sembra quasi che sia stato scelto di limitarsi al terreno da sempre imposto dal padronato: quello della singola vertenza e della pura contrattazione sindacale scindendo queste relazioni al massimo corporative, che possono sì (e hanno senza alcun dubbio contribuito al) miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro di una parte anche significativa di operai, dal contesto generale e da una prospettiva più ampia nella quale i lavoratori ragionino in termini di classe complessiva ponendo le basi soggettive per la costruzione di una ricomposizione tra questa lotta con le altre che si sviluppano sul territorio nazionale. 

Riteniamo quindi che questa sia stata una scelta politicamente arretrata e molto miope (se non “economicista”) in netta contraddizione con il tentativo di generalizzare la lotta,   allargare il fronte e costruire reale unità di classe in una prospettiva anticapitalista: gli  scioperi generali (e le assemblee) hanno infatti rappresentato un’occasione per permettere di consolidare, non tanto e non solo a livello di singolo hub o filiera, un’azione politica più vasta e unificante per tentare di raggiungere rapporti di forza più favorevoli nell’intero settore per poi dialettizzarsi, con il proprio contributo teorico ed esperienziale, con le lotte presenti negli altri settori produttivi con il fine di creare collegamenti stabili e organici.

 

E’ partendo proprio dalle contraddizioni reali e dai percorsi di lotta concreti e oggi più avanzati in termini di prospettiva politica che devono essere infatti create le condizioni per una reale ricomposizione di classe e per l’allargamento di un conflitto che sappia essere inclusivo di tutte quelle ulteriori lotte sociali e politiche praticate per la difesa del territorio dagli interessi speculativi del capitale e dell’imperialismo (No Tav, No Tem, Muos,…) e per il recupero di quote importanti di salario indiretto (casa, servizi sociali,…), altro contributo che la classe è costretta a versare per pagare i costi della crisi.  

 

LA COSTRUZIONE DI UN MOVIMENTO POLITICO-SINDACALE. IL RUOLO FONDAMENTALE DELLA REALTA’ POLITICHE SOLIDALI.

 

Ma affinché le condizioni per i necessari ed oggi indefettibili obiettivi della ricerca della generalizzazione del conflitto e della ricomposizione di classe siano concretamente posti – e non rimangano quindi semplici slogan con cui riempire volantini – diviene essenziale che, in particolare per le realtà politiche solidali, si torni a centrare la propria azione politica principalmente sulla contraddizione primaria del conflitto capitale-lavoro e, soprattutto, che la pratica di queste sia rivolta alla ricerca costante di una sempre maggiore internità nella (e relazione dialettica con la) classe complessivamente intesa e a livelli di coordinamento e di organizzazione più organici.

 

Un processo lento e graduale che, come abbiamo anche empiricamente osservato, è soggetto a fluttuazioni e arretramenti…ma oggi, lo ribadiamo, da costruire e sedimentare rifuggendo arroccamenti e sterili identitarismi, ma mettendosi in gioco e sporcandosi le mani all’interno del conflitto di classe con un proprio preciso ruolo dialettico.          

 

In ciò consci delle numerose difficoltà che tale compito presenta (e continuerà a presentare) e delle conseguenti e inevitabili verifiche (critica e autocritica) da affrontare per il loro superamento.                                                                                                          

 

Lo si dice in un momento in cui la presenza attiva di realtà politiche (numerose situazioni territoriali e studentesche, ma anche singoli compagni e compagne), in un ciclo di lotte sempre più ampio territorialmente, è cresciuta in termini di partecipazione diretta e continuativa (e non di semplice solidarietà) nelle diverse mobilitazioni. 

 

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Da Bologna a Torino, a Roma e nel Veneto, sono infatti numerose le strutture, i compagni e le compagne che hanno scelto di unirsi alla lotta dei lavoratori e delle lavoratrici della logistica nei nuovi fronti aperti in questi anni aggiungendosi ai luoghi storici e quasi 

pioneristici nel 2008 (Milano e poi Piacenza). E, come già detto in precedenza, molto importante è stato in questi anni l’ampio contribuito di molte altre realtà (da Genova a Firenze, Napoli, Livorno) che, pur trovandosi fisicamente lontano dallo specifico luogo dell’intervento o dei blocchi, hanno voluto comunque assicurare la propria presenza solidale e partecipazione in altre forme attraverso la controinformazione, i presidi e volantinaggi davanti ai supermercati, le iniziative per la raccolta fondi da destinare alla cassa di resistenza dei lavoratori licenziati, le campagne di mailbombing ai siti delle committenti delle cooperative sfruttatrici.

 

Ciò è estremamente positivo e rappresenta un chiaro successo di un metodo di lotta radicale risultato molte volte vincente e capace di imporre nuovamente il protagonismo operaio nella lotta per dignità, diritti e salari erosi, rideclinando e rivitalizzando anche uno strumento come lo sciopero, non più ridotto e confinato al ruolo di vuoto rituale simbolico imposto dal sindacalismo confederale negli ultimi decenni, ma tornato a essere momento efficace di conflittualità contro gli odierni processi di accumulazione del capitale.                                                                                                                

 

Modalità conflittuali incentrate senza compromessi sui propri immediati interessi di classe e, quindi, in netta controtendenza e contrapposizione con le sterili e inefficaci scalate di tetti o gru, gli scioperi della fame e la delega in bianco ai professionisti della concertazione per contrattare sulla propria pelle periodi di cassa integrazione, riduzione di diritti e salari, mobilità e incentivi all’esodo contrabbandati poi quali unici risultati possibili se non addirittura positivi per i lavoratori.

 

Ma il generoso sforzo delle tante strutture e dei compagni e delle compagne che si sono avvicinate senza sovradeterminazione alcuna, riducendo così oggettivamente il radicato scollamento decennale con la classe cui si pensa di appartenere, rischia di essere insufficiente ove ciò non conduca (e sia accompagnato) anche a quell’assunzione di consapevolezza circa la stringente esigenza di superare definitivamente, da una lato, genericità nel proprio intervento e azione politica quotidiana e, dall’altro, quella autoreferenzialità che troppo spesso ha caratterizzato e caratterizza, in una spirale involutiva, la pratica di un movimento (centri sociali in primissima battuta) smarrito e ridotto alla semplice testimonianza della propria sopravvivenza o in progetti di corto respiro. 

 

Un movimento più volte vittima dell’impotenza di affrancarsi dall’afasico scadenzismo troppo spesso impostaci dal nemico di classe (o costretto alla risposta difensiva a seguito degli attacchi repressivi peraltro in costante aumento), incapace di produrre iniziativa e più ancora progettualità politica ma pressoché esclusivamente eventi mediatici da far circolare sui vari social network (ingenerando la confusione tra militante e media-attivista, tra contenuto politico e strumenti di propaganda, rendendo virtuale lo stesso conflitto di classe), in troppe parti ancora abbacinato da “nuovismi” (ultimo in ordine di tempo l’incomprensibile concetto, se non ben declinato, di “bene comune” che ha sostituito, mediandoli in un equivoco calderone interclassista post-modernista, i diritti e la lotta per questi, la difesa della “cosa pubblica” con la difesa degli interessi di classe) e da teorie 

 

postmoderne fatalmente confutate (per chi non l’avesse già compreso) dalla stessa indefettibile e oggettiva riproposizione delle forme e dei tratti “classici” del capitalismo (per dirla con le parole di Badiou) e del conseguente sfruttamento materiale per la propria valorizzazione, in barba alle presunta esistenza pratica delle varie moltitudini,     

 

intelligenze collettive e una classe – trasformata in “cognitariato” – produttrice ormai principalmente di soli beni immateriali (conoscenze e informazioni). 

Se non addirittura ancora affetto da un perdente radicalismo riformista, assolutamente compatibile con gli interessi della classe dominante, che nonostante le evidenze della crisi ancora oggi teorizza il possibile imbrigliamento del capitale da parte di una politica etica che ne mitighi le caratteristiche più rapaci ovvero lo ancora alla rivendicazione di universalistico reddito di cittadinanza che ha l’esclusivo e controproducente effetto di sganciare il proletario dalla produzione di plusvalore e contribuire a frammentare ulteriormente l’unità di classe.

 

E’ auspicabile insomma un deciso salto di qualità politica per continuare un percorso ancora lungo, con numerosi passaggi da affrontare, in un contesto nel quale il rapporto capitale/lavoro è molto teso, le contraddizioni fortissime ed espresse da una conflittualità diffusa in espansione (che già deflagra), che deve essere sostenuta e spinta ad una maturazione anche attraverso un collegamento più organico tra esperienze concrete di lotta.

 

Compito strategico questo che non può che essere assolto se non attraverso l’impulso e con la partecipazione determinata e attiva di realtà politiche a queste stesse lotte insieme alla nuova identità espressa dai lavoratori (tornati finalmente ad autorganizzarsi intorno ai propri specifici interessi di classe): ricerca del consenso di massa e tessitura quindi di relazioni politiche tra settori di classe divisi e frammentati, da inserire in una prospettiva più generale di lotta anticapitalista.

Siamo consapevoli che si tratti di un percorso che si costruisce soprattutto nel quotidiano, come detto in precedenza, attraverso l’ internità alla classe in un rapporto paritetico e scevro da assurde velleità di aver la soluzione più corretta da insegnare ai lavoratori con gli obiettivi della generalizzazione del conflitto e della costruzione di momenti di confronto tra lotte diverse, anche quando non vi è l’esplosione di una lotta precisa.

Attraverso l’individuazione di strumenti autonomi come la puntuale preparazione di assemblee stabili di e tra delegati, la formazione di nuovi quadri politici e militanti, un’elaborazione teorica in relazione alla pratica prodotta, rapporti sempre più organici tra i soggetti sindacali e politici coinvolti, proselitismo e consolidamento di forze nelle realtà lavorative in cui si è già presenti, costruzione di spazi anche fisici di confronto nel tentativo di superare la vertenzialità anche inserendo ragionamenti complessivi all’interno della pratica quotidiana del conflitto e dello scontro con il padrone (in una crescita collettiva con l’umiltà e la determinazione di voler essere presenti senza soluzione precostituite da affermare a chi ha deciso di mettersi in gioco).

 

 Questi solo alcuni degli strumenti di preparazione e crescita con i quali ci si deve attrezzare per il consolidamento di un reale e radicato movimento politico-sindacale che sappia essere elemento esemplare di stimolo non solo per gli operai della logistica ma, in generale, per tutte le altre forme dell’odierno proletariato.

 

La coscienza operaia non emerge infatti dal nulla e non corre su una linea progressiva ma è piuttosto fluttuante anche per ciò che riguarda la considerazione del ruolo stesso, a volte ammantato di troppo romanticismo, assegnato ai lavoratori: determinante è la voglia di combattere insieme e di arrivare sino in fondo nelle proprie rivendicazioni ma non può essere dimenticato che i lavoratori non possono “automaticamente” aver maturato una coscienza di classe per il fatto di aver deciso di praticare con coraggio e con determinazione il conflitto.

 

Sicuramente vi è una maggiore cognizione del contesto di sfruttamento nel quale sono costretti a lavorare e la consapevolezza che non vi siano altri modi per far sentire le proprie richieste legittime e ottenere così diritti negati, ma ciò non toglie che la  

 

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maturazione dell’esatta comprensione del proprio ruolo e dei propri compiti (classe per sé) sia un processo altrettanto complesso.    

Crediamo che la consapevolezza dei tempi e delle modalità di questo sia fondamentale per ogni realtà che si approccia a questo percorso di lotte tanto quanto, se non più, della spinta all’organizzazione della propria rabbia davanti ai cancelli, per non vedere sfumare in cenere delle fiammate di lotta di classe altrimenti da espandere e consolidare.

 

Le lotte, come più volte ripetuto, sono infatti di lunga durata e non si esauriscono in un solo momento di mobilitazione o sciopero come se i cancelli dei magazzini fossero il palcoscenico ove ci si rappresenta in un singolo atto seppur duro per gli immediati interessi economici padronali ma anzi si descrivono quali “guerre di posizionamento” nelle quali diviene fondamentale per favorirne la crescita garantirsi nel tempo quanto conquistato e assestarsi, per poter affrontare con più forza e capacità i tentativi di recupero padronali e organizzare la risposta agli incrementati attacchi repressivi.

 

Date le premesse, riteniamo sia quindi necessario continuare nell’opera di consolidamento di un fronte di forze sindacali e politiche sempre più compatto per riuscire ad affrontare anche ciò che, nell’immediato, l’autunno incipiente presenterà in termini tanto specifici (nella logistica) quanto più generali.

 

E come abbiamo cercato di descrivere, in un contesto socio-economico di dilatazione della crisi anche in settori produttivi prima considerati in crescita, nel quale l’occupazione non arresta la propria caduta libera (anche di quella straniera e orizzontale in tutta l’economia: pure, in misura leggermente inferiore, nel terziario e nei servizi, fonte Istat luglio 2013), nel quale per chi lavora le condizioni nelle quali operare sono sempre più di precarietà e sfruttamento, con salari sempre più bassi e servizi sociali draconianamente tagliati, con una blindatura delle relazioni sindacali e degli spazi di manovra strettissimi, in un orizzonte di marcata complicità con il padronato del sindacalismo concertativo.                                        

 

La crisi riduce sempre più gli spazi e accorcia i tempi, costringendoci ad abbandonare l’affannoso inseguimento delle scadenze impostaci e di riprenderci così un ruolo autonomo, collettivo e condiviso con la classe. 

 

Il sindacalismo di base, pressoché all’unanimità, ha  lanciato uno sciopero generale per la seconda metà di ottobre accompagnandola con una settimana di mobilitazioni e una manifestazione nazionale per il diritto alla casa.

 

Anche su questa scadenza, ad esempio, si stanno riversando attenzioni, speranze e proposte politiche di unità, ma se non vogliamo che quel giorno rappresenti la mera autocelebrazione delle diverse sigle in competizione, o la la sola denuncia di un’oggettiva crisi che sta attraversando trasversalmente le vite di milioni di precari e precarie, ci vuole un salto qualità che sappia realmente mettere in relazione i diversi momenti di conflitto, lavorando passo dopo passo per la costruzione di un percorso collettivo che ponga in parallelo ogni espressione di conflittualità trasformandola in una progettualità anticapitalista non assimilabile in perdenti proposte di improbabili cordate elettorali.

 

Dalle fabbriche che chiudono, dalla precarietà diventata ormai elemento strutturale delle nostre vite, da chi abita in territori devastati dalla barbarie di un modo di produzione che assoggetta ogni energia al profitto, da una realtà di rapporti sociali basata su disvalori che definiscono i rapporti tra uomini e donne improntati alla discriminazione, da una quotidianità di competizione e sfruttamento, emerge oggi un “bisogno di comunismo” tutto da declinare, raccogliere e proporre come alternativa radicale di sistema dal punto di vista economico, politico sociale e culturale.

 

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Un’oggettiva richiesta di alternativa che va però raccolta anche in termini soggettivi. 

Ma riteniamo sia giunto il tempo per tutti e tutte di farsi carico ognuno delle proprie responsabilità interpretando e impegnandosi, ognuno per le proprie specificità, in quel salto di qualità oggi necessario, per la costruzione di una pratica quotidiana con la classe, la ricerca di unità nella materialità delle contraddizioni reali, la creazione di connessioni organiche per la ricomposizione e l’allargamento del conflitto in una prospettiva anticapitalista.

 

Continuiamo infatti ad essere convinti che le lotte della logistica, come qualsiasi altro focolaio presente sul territorio, non possano essere di per sé risolutivo se non avviano un processo di aggregazione tale da modificare, con maggiore peso e determinazione, i rapporti di forza attuali all’interno di una strategia più complessiva di trasformazione rivoluzionaria dell’esistente.                                                                                          

I compagne e le compagne del Centro Sociale Vittoria

www.csavittoria.org  info@csavittoria.org

Milano, settembre 2013                                                                               

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