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Tiferai come dico. Il politicamente corretto verso la soluzione finale negli stadi italiani?

Consideriamo che un’innovazione nel linguaggio, anche se nata per tutelare la sfera dell’emancipazione, quando finisce per imporsi rischia di diventare pienamente un dispositivo di potere. E’ capitato, ad esempio, al linguaggio, giuridico e sindacale, della tutela dei diritti. Ad esempio, bastava sentir parlare Ichino ieri, o ascoltare Dell’Aringa oggi, per cui il linguaggio dei diritti del lavoro si trovava, e a maggior ragione si trova, a contenere una realtà che sta all’opposto di quanto evocato. Potenza della retorica. Tanto più questo esempio vale per il linguaggio del politicamente corretto e della sua tentata applicazione negli stadi italiani. Qui vale la pena di aggiungere una nota storica: la questione dell’applicazione intensiva di un linguaggio politicamente corretto, rispettoso delle minoranze e antisessista, si impone nei campus universitari americani a cavallo degli anni ’80 e ’90. Si tratta di una forma di resistenza, e di innovazione, linguistica che risponde sostanzialmente, anche se la questione sarebbe più complessa, a due grandi mutazioni dell’epoca nell’università americana: la maturazione, e l’imporsi su molti livelli disciplinari, di un decennio di elaborazione del linguaggio delle minoranze che si incontrava con la French Theory applicata su scala Usa; e una prima forte forma di resistenza verso un’università, e su questo ci sono atti interessanti di convegni dell’epoca, che andava progressivamente riducendo l’investimento nelle scienze umane per concentrarsi sull’ormai prossimo mondo di yahoo! e google e l’immancabile sfera della finanza. Il politicamente corretto -o meglio la lotta per l’imposizione di un linguaggio rispettoso delle minoranze nelle guide universitarie, nei corsi e anche nei testi- nasce come frutto del laboratorio linguistico americano degli anni ’80 e come strumento di resistenza, e di tentativo di egemonia, della declinante università americana delle scienze umane.

Per arrivare a noi, ai nostri stadi, il problema è una particolare forma del successo del politicamente corretto. Quella del brand. Per cui si passa dai corsi universitari politicamente corretti, e in vari modi formali come informali, certificati come tali al loro incontro con un simile processo, anch’esso formale come informale, di codificazione della merce. A questo punto, come sappiamo, la merce però non è più certificata per il solo valore del prodotto ma anche per quello etico che contiene. Insomma, il politicamente corretto che si fa brand incontra sempre più, in forma già matura negli anni ’90, le merci e, in tempo reale, il marketing sportivo. Giova qui aggiungere che la campagna Respect dell’Uefa, l’istituzione sportiva che ha emesso la direttiva che restringe la sorveglianza sui cori degli stadi, esiste per tutelare, attraverso il branding etico, il patrimonio di immagine chiave del calcio: i giocatori che, per la natura del gioco e per le leggi del mercato, non possono che essere di differenti nazioni in ogni campionato. Pena il declino dell’accumulazione economica e finanziaria nel calcio. Il politicamente corretto, il brand etico e la difesa del valore di mercato dei cartellini, nonché della universalità dell’audience pagante, si integrano così completamente. Ma se la campagna contro il razzismo nel calcio è comprensibile, oltre che auspicabile sul piano che non riguarda il mercato, cosa significano le norme contro la “discriminazione territoriale”, quelle contro cui si protesta ormai in tutte le curve d’Italia?

Il passaggio del sanzionamento, chiesto dall’Uefa, non più del solo razzismo negli stadi ma della discriminazione territoriale, in sostanza ogni coro acceso contro un’altra tifoseria, risponde sia ad alcune esigenze di branding dell’Uefa che alla permanenza di politiche della selezione della popolazione degli stadi intraprese in Europa a partire dagli anni ’90. Per quanto riguarda le esigenze di branding della federazione calcistica continentale è presto detto: con la sostanziale paralisi delle norme sul fair play finanziario, gli scandali scommesse che hanno portato a squalifiche nella Champions (la gallina dalle uova d’oro dei tornei Uefa e del relativo marketing), e l’immagine più complessiva del calcio legato a proteste sociali (vedi Brasile) il provvedimento sul sanzionamento della discriminazione territoriale è parte dei tentativi di restaurazione dell’immagine della federazione calcistica continentale. Che, per sanzionare in questo modo, adopera un salto logico tipico della radicalizzazione dei parametri etici del politicamente corretto: quello di equiparare a razzismo, e quindi a discriminazione inaccettabile da punire nell’immediato, ogni tipo di gesto spettacolare o coro di scherno nei confronti di qualcuno. Questo salto logico è codificato in sanzioni, revisioni del brand e restauro dell’immagine del calcio europeo rimessa oggi in discussione. Ma la codificazione di questo salto logico, il suo evidenziarsi in sanzioni e immagini ha anche una ragione di politica della selezione della popolazione degli stadi. Ora nel calcio europeo nell’ultimo ventennio, esclusa l’Italia, si è assistito ad una completa ristrutturazione degli stadi frutto di una nuova generazione di investimenti immobiliari e finanziari. Di conseguenza, la popolazione del calcio è cambiata. E anche il modo di operare degli sponsor. La Champions League, massimo torneo dell’Uefa e di gran lunga il più redditizio, non a caso ha tra gli sponsor la MasterCard, un prodotto finanziario per lo shopping che si propone come protagonista in tutta la filiera del piacere da quello delle merci fino a quella dimensione sfuggente “che non ha prezzo”. E tra i tifosi MasterCard, quelli ad alto consumo complesso e alta influenza nel marketing, il calcio dell’”odio”, che sia razzismo o campanilismo, non piace. Il calcio europeo, una volta entrato nell’orbita degli sponsor dello spettacolo globale si modella, come per ogni sport, sul modello normativo dei desideri del tifoso upper class politicamente corretto. Per cui il campanilismo è “odio”, come il razzismo, altrettanto fastidioso rumore di fondo che disturba una partita di calcio che, nei comportamenti del pubblico, deve sempre di più somigliare ad un incontro di rugby (mentre tra calcio e rugby tifoserie e codici sociali sono sempre stati distinti). Il politicamente corretto, codice distintivo delle upper class continentali, chiede la sanzione dell’“odio”, la federazione, composta tra l’altro anche di membri di questa upper class, si adegua. Di fronte alle esigenze etico-antropologiche della fascia alta di consumatori, che alimenta la pubblicità per il torneo più importante organizzato dall’Uefa, anche le altre fasce di spettatori devono adeguarsi. E così l’Italia, in estate, si è adeguata alle norme Uefa sulla forte punibilità della discriminazione territoriale.

Quello che non si coglie, e che non coglie proprio il politicamente corretto nella sua base normativa e cognitiva, e che invece si comprende nelle proteste delle tifoserie italiane contro la norma della discriminazione territoriale, è che il campanilismo è anche un profondo processo di mimesi del conflitto. Non la spia di una barbarie da reprimere immediatamente ma la cifra di un tessuto sociale che si dispiega. Anzi il campanilismo è popolare proprio perché un processo di mimesi. Cosa intendiamo?

Prendiamo un coro del genere “Napoli colera” o “milanesi tutti appesi”. Se viene riportato da un paio di giornali, genere Repubblica o l’Unità, interessati a reiterare il proprio ritardo cognitivo, e quello dei loro lettori, verrà rappresentato come una spia di un processo di odio e di aggressione pronto a sfociare nel dramma. E verso il quale l’emergenza sicurezza si pone in termini immediati, Qualche volta è accaduto, si intende, ma il grosso del processo è un’altra cosa. Socialmente parlando, basta aver sfogliato (e nemmeno tanto) Girard, i processi di rappresentazione del conflitto sono anche processi di mimesi. Ovvero limitano la loro carica di aggressione e violenza reale nel processo di rappresentazione proprio per costruire bene quest’ultimo. Per cui l’espressività nei cori e nelle coreografie è principalmente mimetica piuttosto che propedeutica allo scontro obbligatorio e immediato. Rimanda quindi, come tutti i processi mimetici, ad una pluralità espressiva, che contiene anche quella dello scontro ma non esclusivamente, e a comportamenti e a gesti di tipo teatrale. Del resto le culture, e le subculture, per reiterarsi come processo di aggregazione e di sviluppo del legame sociale necessitano di una espressività simbolica complessa. Quella del calcio, che sia vista come una cultura o una subcultura, non sfugge a queste leggi. Non a caso, per protestare contro le norme della discriminazione territoriale, i tifosi partenopei, durante Napoli-Livorno, si sono messi a cantare “Napoli colera” mimando proprio i cori che, al nord, vengono rivolti contro di loro in molte trasferte. Chiedendo poi la chiusura del San Paolo per la prossima partita. Allo stesso tempo i milanisti, e con loro gli juventini, hanno chiesto solidarietà anche tra tifoserie “nemiche”. Non ci vuole molto a capire che, in questo genere di contestazione, si sta chiedendo il ripristino di uno spazio convenzionale, in questo caso lo stadio, dove esprimere pienamente la propria espressività in modo sia caldo che mimetico. La forma della protesta napoletana, più delle altre, fa capire questo. Perché “chiama” la presenza di un avversario e perché usa il linguaggio dell’ironia tipico del processi di mimesi, di trasfigurazione e slittamento dei significati. Poi che in questi mondi, e in queste culture, avvengano anche fatti violenti fa parte delle dinamiche sociali. Tra l’altro spiegate in modo magistrale, a differenza dell’isterismo mainstream di Repubblica che vede l’Heysel dietro il primo coro di scherno, da un testo come Football Hooligans, Knowing the Score di Gary Armstrong (che ha collaborato anche con Richard Giulianotti, il più importante sociologo britannico sulle tifoserie, in un testo utilissimo sul calcio globale che è Entering the Field). Qui si capisce che comprendere il mondo del calcio, e le socialmente importanti sfumature di significato e comportamenti che produce, è questione di comprendere le differente presenti in un processo sociale. E qui si vede proprio la bancarotta del politicamente corretto, in questo caso come processo normativo applicato al calcio ma come spia di altri fallimenti politici. Nato per tutelare, facendole includere nei processi simbolici, le differenze il politicamente corretto si dispiega come processo di legittimazione di normative che escludono culture, come come quella calcistica, proprio rimanendo indifferente rispetto alle differenze, da tutelare, presenti nell’espressività culturale delle tifoserie e nei loro processi di mimesi.

In Italia, per motivi economico-finanziari e di resistenza dei poteri immobiliari sui territori, la ristrutturazione stadi non è andata avanti, ed ha impedito la piena presa del potere del tifoso MasterCard. Sulla cui centralità si gioca tutto il business del calcio Uefa, da finire di espandere in Italia che fa parte dei paesi “core” del guadagno calcistico nonostante la crisi. Tifoso che, in Italia, è rappresentato da un altro tipo di soggetto che pesa dal punto di vista dell’opinione ma meno da quello dell’economia degli stadi (a differenza dell’Europa continentale). Stiamo parlando del tifoso della upper class italiana, dello spettacolo come del management o della politica, per cui il tifo deve “depurarsi dall’odio”, quindi “permettere il ritorno delle famiglie e dei bambini allo stadio”. Non a caso il ministro Kyenge, che al momento rappresenta il politicamente corretto in questo paese (grazie anche allo sciagurato comportamento della Lega che l’ha legittimata, pur nella sua vuotezza politica, più di qualsiasi erede di Martin Luther King) all’inizio del campionato ha cominciato una campagna sul comportamento dei tifosi negli stadi. Questo “ti dirò come tifare”, versione italiana del normativismo politicamente corretto rappresenta, ben oltre il calcio, il tentativo di normalizzazione politica, di presa sulla società, da parte della upper class italiana. Una upper class che si vuole multirazziale, o comunque ufficialmente tollerantissima verso le differenze etniche e di genere, che viaggia regolarmente in Europa (magari a prendere le direttive Ue e della Bce), che la MasterCard ce l’ha in grande disponibilità e vuole rendere il paese simile al continente. Una upper class influente anche sui livelli nazionalpopolari tanto che non è infrequente trovare nei talk-show televisivi la Mussolini che parla a favore dei diritti di genere o degli omosessuali. Destra popolare style s’intende. Anche perché di fronte alla continua e impetuosa marea di proteste contro “la politica che ruba” (più di quanto ogni giustizialismo immagini, tra l’altro) alle upper class cosa rimane per disciplinare la popolazione? Il politicamente corretto, concretizzatosi nel simbolico del rispetto per tutti diritti concreti per nessuno, contro una popolazione magari vista come becera e razzista, con un alto tasso di analfabetismo di ritorno, impaurita e resa isterica dalla crisi permanente. Le società di calcio, ancora modellate su strutture del capitalismo paternalistico (dal quale l’Inter si sta affrancando come ha fatto la Roma), dopo aver capito i danni provocati dal recepimento italiano della direttiva Uefa sulla discriminazione territoriale hanno proposto una sorta di lista dei cori tradizionali da tutelare, un po’ come i prodotti doc, e da escludere dalle sanzioni. Non è facile oggi capire se queste misure, suggerite per tutelare l’aspetto televisivo del pubblico allo stadio più che lo stadio vero e proprio, terranno in forma stabilmente compromissoria. Sono però facilmente da comprendere due fenomeni. Il primo è legato a tentato processo di omogeneizzazione della upper class italiana, quella per cui il mantra “ce lo chiede l’Europa” ha una base materiale non solo ideologica, a quella europea tramite, in questo caso, le esigenze del tifoso MasterCard globale, dell’Uefa e grazie al pesante normativismo etico del politicamente corretto. Il secondo è il processo di smantellamento della microfisica dei comportamenti spontanei, che si ripete ciclicamente in questo paese, che ha la norma (qualsiasi essa sia) come pretesto. Nel calcio questo processo si è visto con le leggi Amato, votate sull’attenti dal centrosinistra nella primavera 2007, che prevedono una vera e propria intrusione nei comportamenti spontanei del tifo: comunicatività degli striscioni, un problema politico di comunicazione pubblica sfuggito alle autorità, persino sciarpe e bandiere regolato tutto per legge. Questa stretta sui cori, stavolta voluta dall’Uefa e recepita (finora) in Italia, si inserisce in questa direzione dell’intrusione nella microfisica dei comportamenti. I sogni dell’Uefa, che immaginano in Italia la preponderanza di un tifoso normativo, genere MasterCard, come quello del Borussia (che acquista abbonamento allo stadio, colmando lo stadio, e a Sky Deutschland) però, come si vede, incontrano dei problemi. E precisamente quelli che vedono la sostituzione della composizione sociale delle tifoserie allo stadio, come avvenuto in Inghilterra per le classi più alte in rapporto agli eredi della classe operaia, un processo molto più accidentato e difficile in questo nostro dannato paese. Che trova, come abbiamo visto, una interessata e spontanea saldatura tra tifoserie e presidenti di calcio. Infine, molto probabilmente, c’è da capire un fenomeno, quello della reazione al politicamente corretto che finora è stato patrimonio della stupidità e del delirio della destra. La prima questione, come si è visto, sta nell’incapacità cognitiva del politicamente corretto nel vedere le differenze, e i processi di mimesi, presenti nella popular culture. Finendo per reprimerle proprio quando, all’origine, si intendeva garantirle. Ma questo fa parte di un più generale processo di accecamento della cultura di centrosinistra nei confronti della società. La seconda, più legata ai processi di stratificazione sociale, è quella del politicamente corretto come ideologia, e prassi, delle upper class, globali e nazionali che tendono a farsi globali, nella costruzione di processi egemonici sul resto delle società. Il calcio, in questo senso è, come sempre, un grosso banco di prova per la tenuta di questa costruzione dell’egemonia ed un ottimo modello di analisi anche per altri terreni Il politicamente corretto è anche la cifra dell’attuale squilibrio tra forma e sostanza nelle retoriche ufficiali sui diritti. Tanto più si eleva la retorica della dignità, che si può riconoscere anche ad uno sfruttato senza cambiare di un millimetro la sua condizione materiale, tanto meno si erogano concretamente i diritti. Lo sanno proprio gli immigrati che vedono proposte di Nobel per Lampedusa, grida di vergogna per quanto accaduto nell’isola, funerali di stato ma diritti concreti erogati zero.

Sulla questione della discriminazione territoriale negli stadi, come al solito, non si gioca quindi solo una partita di pallone. Si parte sicuramente da misure legate al calcio ma si arriva a toccare, proprio per la portata universale di questo sport, nodi che ci fanno comprendere conflitti, mediazioni, regolazioni, scontri, processi di mimesi, rappresentazioni del vivere sociale dei primi decenni di questo secolo.

PS. L’apertura di Platini, presidente dell’UEFA, a misure meno restrittive nel sanzionamento della “discriminazione territoriale” va letta assieme alle dichiarazioni di esponenti della federazione italiana che parlano di “necessità di cambiamento nella cultura del calcio”. Si apre quindi una fase di adattamento alla recente normativa UEFA sul comportamento negli stadi. Vedremo gli esiti

per Senza Soste nique la police

10 ottobre 2013

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