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Caso Bankitalia: il regalo alle banche è il meno

Il decreto relativo a Bankitalia è passato nella disinformazione generale. Cerchiamo prima di tutto di capire cosa prevede, partendo da un brevissimo excursus storico (ci scusi il lettore già informato, che può saltare a piè pari queste righe). La Banca d’Italia è una banca di diritto pubblico che, per tutto il periodo repubblicano, ha avuto un consiglio di amministrazione espressione delle banche del paese, ma questo aveva molti contrappesi: il consiglio aveva (ed ha ancora) poteri molto limitati, Bankitalia aveva un rapporto di dipendenza dal Ministero del Tesoro, le quote non erano commerciabili e le tre principali banche (Credit, Bancoroma e Comit) erano di proprietà dell’Iri. Di fatto, il potere reale dell’Istituto si concentrava nelle mani del Governatore nominato a vita dal Capo dello Stato (sino alla riforma del 2005, che ha definito la durata temporale dell’incarico) ed assistito dall’apparato tecnocratico della banca, mentre al consiglio di amministrazione, sia prima che dopo la riforma del 2005, restavano poteri abbastanza marginali.

A partire dal 1981 le cose sono iniziate a cambiare, mentre si facevano velocemente strada gli indirizzi monetaristi della scuola di Chicago, l’allora Ministro del Tesoro Andreatta, con un colpo di mano, avviò il “divorzio” fra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia che acquisiva una sua marcata autonomia definitivamente sancita nel 1992 quando il ministro Guido Carli stabilì che la decisione sul tasso di sconto diventava competenza esclusiva del Governatore.

Negli anni novanta, le tre banche Iri vennero privatizzate.  E questo iniziò a produrre una serie di effetti a catena.

La Banca d’Italia ha funzione di vigilanza sulla correttezza delle banche, per cui dovrebbe indagare sui comportamenti di suoi azionisti, il che era una contraddizione della normativa precedente, ma essa era meno stridente sinché le banche sono state pubbliche (e, come tali, assoggettate, almeno in teoria, ai controlli del Tesoro).

Il mutamento maggiore fu prodotto dal processo di concentrazione bancaria degli anni novanta e primi duemila, per cui, mentre prima l’azionariato era molto più frammentato, la fusione di molti istituti portò Intesa San Paolo a possedere il 30,3% ed Unicredit il 22,1% cui si aggiungono le Assicurazioni Generali con il 6,3%. Quindi, tre soggetti totalizzano il 58,7%, il che, per quanto limitati siano restati i poteri del consiglio di amministrazione, è cosa ben diversa dal passato.

Questo per quanto riguarda il passato. Veniamo al riassetto appena deciso:

a- viene autorizzato l’aumento di capitale della banca (rimasto a quota 300.000 milioni di lire, fissata con la legge del 1936 e poi trasformata in 156.000 euro) sino a a
7,5 miliardi di euro, utilizzando le riserve statutarie;

b- viene deliberata la riorganizzazione del pacchetto azionario, per cui nessuno potrà superare il tetto del 3%; le quote eccedenti saranno acquisite dalla stessa Banca d’Italia che le deterrebbe per un massimo di tre anni per poi ricollocarle sul mercato;

c- i sottoscrittori delle quote messe sul mercato potranno essere banche ed imprese assicurative con sede nella Ue, fondazioni bancarie, enti ed istituti di previdenza e assicurazione con sede in Italia e fondi pensione;

d- il Consiglio superiore della Banca d’Italia «valuterà la professionalità e la onorabilità dei soggetti entranti e delle relative compagini, con un diritto di veto».

L’italianità è salvaguardata dall’obbligo per i soci di mantenere per i soci la sede legale in Italia e nel caso questa condizione venga meno occorrerà vendere la propria quota di partecipazione.

Chi ci guadagna?

In primo luogo, le banche che ci ricavano una sostanziosa rivalutazione del proprio asset, il che, in vista degli adeguamenti richiesti da Basilea III non è affatto una cosa di scarso peso, ma per la quale la Bundesbank ha ripetutamente arricciato il naso (“S24” 6 dicembre 2013 p. 10) ed anche la Bce non si mostrata del tutto persuasa. Staremo a vedere gli sviluppi.

In effetti, la valutazione di Bankitalia a 156.000 Euro potrebbe apparire assolutamente sottostimata (c’è stato chi si spingeva a dire che il suo valore reale si aggirerebbe di 25 miliardi) ma questo, sin qui, non ha avuto alcuna importanza, perché le azioni non sono state commerciabili  e la fissazione del valore era puramente discrezionale. Per di più, la remunerazione delle azioni era limitata solo ai dividenti di alcune attività dell’istituto –che non comprendevano il signoraggio- per cui si trattava di pochi spiccioli.

Ora, con la rivalutazione, stanti le norme vigenti, la remunerazione annua per le banche sale alla rispettabile cifra di 400 milioni di euro, che non è una cifra da capogiro, ma sono pur sempre soldi. Non tanti, però, da rendere particolarmente appetibile questo investimento finanziario, stanti anche i limiti persistenti ai poteri degli azionisti. E, infatti, il punto più delicato riguarda la ristrutturazione del pacchetto azionario. Stanti così le cose, Unicredit, Intesa e Generali devono mettere sul tavolo circa il 49% delle azioni possedute, vale a dire quasi la maggioranza assoluta. Sin qui le azioni non erano commerciabili, ma con il decreto lo diventano, il che pone, prima di tutto il problema di quel che faranno i tre gruppi principali: a chi le cederanno?

La soluzione prevista dal decreto è che le incameri, per ora, la stessa Bankitalia, che entro tre anni le ricollocherà. Però non è affatto chiaro se la cedibilità delle azioni possedute debba necessariamente passare per la banca o l’offerta possa rivolgersi direttamente al mercato. E non è un particolare da poco, perché questo avrà un riflesso tanto sul prezzo di compravendita quanto sugli assetti futuri della Banca.

Sul piano del prezzo, nel caso di acquisto da parte della Banca, non c’è dubbio che il pacchetto dovrebbe essere acquistato a prezzo pieno, per cui si tratterebbe di un più che cospicuo regalo a Unicredit, Comit e Generali. Poi, bisogna vedere quando Bankitalia dovesse ricollocare sul mercato le azioni a che prezzo questo avverrà. E c’è un precedente non incoraggiante, quello della Northern Rock, nazionalizzata dal governo inglese nell’autunno del 2008 e poi rivenduta, nel novembre di tre anni dopo (gli accordi internazionali non consentivano di protrarre ulteriormente il “parcheggio” presso il Ministero del Tesoro di Sua Maestà) ma con una perdita di circa 400 milioni di sterline-.

Agli eventuali investitori interessati, non resterà che aspettare la scadenza, quando Bankitalia dovrà cedere comunque le azioni, per comperare al prezzo più vantaggioso. Ed in questo gioco c’è solo da sbizzarirsi a pensare a chi vi si potrà inserire, al coperto di opportune architetture finanziarie: uno degli attuali possessori eccedentari, banche straniere collegate, fondi sovrani o forse il soggetto più liquido di tutti in questa fase: la borghesia mafiosa. Certo, il Consiglio superiore di palazzo Koch può sempre esercitare il suo diritto di veto, ma non è detto che abbia sentore dell’eventuale operazione nel tempo necessario. Ed, ovviamente, se qualcuno ha interesse alla cosa, il progetto sarà stato studiato opportunamente da tempo e resterà solo da metterlo in atto.

Ma, e siamo all’ultimo e più penoso capitolo della vicenda, non è scritto da nessuna parte (anche perché la Costituzione non parla affatto della Banca centrale e non pone limiti di sorta) che gli attuali limiti sull’ “italianità”, limiti ai poteri degli azionisti, l’uso della riserva aurea ecc. non possano essere superati da una nuova normativa. Anzi, è abbastanza logico attendersi qualche altro appassionante sviluppo della storia. E questo ci porta alla questione molto delicata della riserva aurea: quella italiana è la quarta del Mondo, dopo Usa, Germania e Fmi ed ammonta a 2.400 tonnellate. Questione della quale si parla poco e si sa pochissimo (la riserva c’è ancora? Depositata dove? Data in garanzia ed in che percentuale?), ogni tanto qualcuno come Alberto Quadrio Curzio (“S24” 5 settembre 2013) fa proposte sul come investirla, ma il discorso cade nel vuoto. E dire che siamo in un momento in cui, a causa dell’iper offerta di liquidità di questi anni, l’oro è oggetto di forti ondate speculative che lo fanno ballare dal massimo di 1.920 dollari l’oncia a 1.325 in poco più di due anni. Ed a soffrirne sono soprattutto le banche centrali (“Affari e Finanza” “Repubblica” 11 novembre 2013 p.53), ma bisogna considerare che, nello stesso tempo, per effetto del Tapering della Fed, è previsto un sensibile recupero nel prossimo biennio.

Dunque, non sarebbe male se il Ministro Saccomanni (tanto apprezzato dal Presidente Napolitano) riferisse in Parlamento sulla situazione della riserva aurea e su come si intenda garantirne il possesso dello Stato Italiano.

Anche perché, qui il problema più importante è un altro: per caso non è che si stiano ponendo le premesse per impedire il ritorno alla sovranità monetaria nazionale anche in caso di collasso dell’Eurozona? Qualcuno sta lavorando per il Re di Prussia?

Cari amici del Pd, mi sento di dirvelo di cuore: siete dei veri delinquenti. Peggiori di Berlusconi.

da http://www.aldogiannuli.it

 

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