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Storia delle foibe

Foibe. Così iniziò la stagione di sangue

Le stragi istriane vanno inserite nel contesto storico della guerra fascista e nazista alle popolazioni slave. Contro ogni strumentalizzazione, ma anche contro ogni rimozione

«Si ammazza troppo poco», e «Non dente per dente, ma testa per dente», raccomandavano nel 1942 i generali italiani Marco Robotti e Mario Roatta. Furono 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di esecuzione italiani in Slovenia, «Provincia del Carnaro», Dalmazia, Bocche di Cattaro e Montenegro

Per una giusta comprensione del fenomeno delle foibe istriane – ma comprensione non significa affatto giustificazione di quei crimini – è assolutamente necessario inserire la questione nel contesto storico in cui si verificò e nel quadro più ampio del periodo tra la fine della prima e lo svolgimento della seconda guerra mondiale. Un periodo che fu particolarmente tragico per una larga parte della popolazione istriana venutasi a trovare inserita nel territorio di frontiera di un’Italia asservita al regime fascista e perciò negata a governare con giustizia territori plurietnici, plurilingui e multiculturali, spinta a realizzare un preciso programma di oppressione e snazionalizzazione dei sudditi cosiddetti allogeni e alloglotti. Ancor prima della firma del Trattato di Rapallo del 1920 che assegnò definitivamente l’Istria all’Italia, quando la regione era soggetta al regime di occupazione militare, la popolazione dell’Istria si trovò di fronte allo squadrismo in camicia nera, importato da Trieste, che si manifestò con particolare aggressività e ferocia. Gli stessi storici fascisti, tra i quali l’istriano G.A. Chiurco, vantandosi delle gesta degli squadristi e glorificandole nelle loro opere, hanno abbondantemente documentato i misfatti compiuti – dagli assassinii di antifascisti italiani quali Pietro Benussi a Dignano, Antonio Ive a Rovigno, Francesco Papo a Buie, Luigi Scalier a Pola ed altri – alla distruzione delle Camere del lavoro ed all’incendio delle Case del popolo, alle sanguinose spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola, ecc. Questi misfatti continuarono sotto altra forma dopo la creazione del regime: furono distrutti e/o aboliti tutti gli enti e sodalizi culturali, sociali e sportivi della popolazione slovena e croata; sparì ogni segno esteriore della presenza dei croati e sloveni, vennero abolite le loro scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo; con un decreto del 1927 furono forzosamente italianizzati i cognomi di famiglia; migliaia di persone finirono al confino. Nelle chiese le messe poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata e slovena dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, furono cacciate dai tribunali e dagli altri uffici, bandite dalla vita quotidiana. Alcune centinaia di democratici italiani, socialisti, comunisti e cattolici che lottarono per la difesa dei più elementari diritti delle minoranze subirono attentati, arresti, processi e lunghi anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato.

 La sostituzione delle popolazioni allogene

Mi è capitato per le mani un opuscolo del ministro dei Lavori Pubblici dell’era fascista Giuseppe Cobolli Gigli. Figlio del maestro elementare sloveno Nikolaus Combol, classe 1863, italianizzò spontaneamente il cognome nel 1928 anche perchè sin dal 1919 si era dato uno pseudonimo patriottico, Giulio Italico. Divenuto poi un gerarca, prese un secondo cognome, Gigli, dandosi un tocco di nobiltà. Questo signore, fu autore di opuscoletti altamente razzisti, fra i quali Il fascismo e gli allogeni, (da «Gerarchia», settembre 1927) in cui sosteneva la necessità della pulizia etnica, attraverso la sostituzione delle popolazioni «allogene» autoctone con coloni italiani provenienti da altre provincie del Regno. Tra l’altro volle tramandare ai posteri una canzoncina in voga fra gli squadristi di Pisino. Il paese sorge sul bordo di una voragine che – scrisse il Cobol-Cobolli – «la musa istriana ha chiamato Foiba, degno posto di sepoltura per chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese, le caratteristiche nazionali dell’Istria». Quindi chi, fra i croati, aveva la pretesa, per esempio, di parlare nella lingua materna, correva il pericolo di trovar sepoltura nella Foiba. La canzoncina di Sua Eccelenza (testo dialettale e traduzione italiana a fronte) diceva:

A Pola xe l’Arena/ la Foiba xe a Pisin:/ che i buta zo in quel fondo/ chi ga certo morbin.

(A Pola c’è l’Arena,/ a Pisino c’è la Foiba:/ in quell’abisso vien gettato/ chi ha certi pruriti).

Dal che si vede che il brevetto degli infoibamenti spetta ai fascisti e risale agli inizi degli anni Venti del XX secolo. Putroppo essi non rimasero allo stato di progetto e di canzoncine. Riportiamo qui, dal quotidiano triestino Il Piccolo del 5 novembre 2001, la testimonianza di Raffaello Camerini, ebreo, classe 1924.

«Nel luglio del 1940, ottenuta la licenza scientifica, dopo neanche un mese, sono stato chiamato al lavoro “coatto”, in quanto ebreo, e sono stato destinato alle cave di bauxite, la cui sede principale era a S. Domenica d’Albona. Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 – poi sono stato trasferito a Verteneglio – ha dell’incredibile. La crudeltà dei fascisti italiani contro chi parlava il croato, invece che l’italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome croato o sloveno, con altro italiano, era tale che di notte prendevano di forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove c’erano delle foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro. Quando queste cavità erano riempite, ho veduto diversi camion, di giorno e di sera, con del calcestruzzo prelevato da un deposito di materiali da costruzione sito alla base di Albona, che si dirigevano verso quei siti e dopo poco tempo ritornavano vuoti. Allora, io abitavo in una casa sita nella piazza di Santa Domenica d’Albona, adiacente alla chiesa, e attraverso le tapparelle della finestra della stanza ho veduto più volte, di notte, quelle scene che non dimenticherò finchè vivrò (…). Mi chiedo sempre, pur dopo 60 anni, come un uomo può avere tanta crudeltà nel proprio animo. Sono stati gli italiani, fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari. Logicamente, i partigiani di Tito, successivamente, si sono vendicati usando lo stesso sistema. E che dire dei fascisti italiani che il 26 luglio 1943 hanno fatto dirottare la corriera di linea – che da Trieste era diretta a Pisino e Pola – in un burrone con tutto il carico di passeggeri, con esito letale per tutti. (. . .) Ho lavorato fra Santa Domenica d’Albona, Cherso, Verteneglio sino all’agosto del `43 e mai ho veduto un litigio fra sloveni, croati e italiani (quelli non fascisti). L’accordo e l’amicizia era grande e l’aiuto, in quel difficile periodo, era reciproco. Un tanto per la verità, che io posso testimoniare».

60mila slavi in fuga dall’Istria

Per gli slavi il risultato del ventennio fascista e del triennio bellico 1940-43 fu la fuga dall’Istria di circa 60.000 persone. Purtroppo a rafforzare il nazionalismo anti-italiano fu ancora una volta il fascismo mussoliniano che nella seconda guerra mondiale portò l’Italia ad aggredire i popoli jugoslavi. Quell’aggressione tra il 6 aprile 1941 e l’inizio di settembre 1943 fu caratterizzata dalle brutali annessioni di larghe fette di Croazia e Slovenia e da una lunga serie di crimini di guerra. Per ordine dello stesso Mussolini e di alcuni generali si giunse alle scelte più draconiane dei comandi militari italiani. Ne derivarono «rapine, uccisioni, ogni sorta di violenza perpetrata a danno delle popolazioni».

Nelle regioni della Croazia annesse all’Italia dopo il 6 aprile `41 si ripetè quanto avvenuto in Istria dopo la Grande Guerra: si ricorse ad ogni mezzo per la snazionalizzazione e l’assimilazione, provocando inevitabilmente l’ostilità delle popolazioni. Nella toponomastica, per cominciare da questo aspetto non cruento dell’occupazione, fu recitata una vera e propria tragicommedia, avendo come regista il prefetto della Provincia del Carnaro e dei Territori Aggregati del Fiumano e della Kupa, Temistocle Testa. Con suo decreto dell’8 settembre 1941 fu ordinato di «adottare senza indugio i nomi italiani di tutti quei luoghi (comuni, frazioni, località) che erano da secoli italiani e che la ventennale dominazione jugoslava ha trasformato in denominazioni straniere». Così località del profondo territorio interno lungo il fiume Kupa e nel Gorski Kotar divennero: Belica= Riobianco, Bogovic = Bogovi, BruÜic = Brissi, Buzdohanj = Buso, Crni Lug = Bosconero, Cabar = Concanera, Glavani = Testani, Jelenje = Cervi, Kacjak = Serpaio, Koziji Vrh= Montecarpino, Medvedek = Orsano, Orehovica = Nocera Inferiore, Padovo = Padova, Pecine = Grottamare e via traducendo o inventando. Trinajstici, presso Castua, divenne Sassarino in onore della divisione «Sassari» che vi teneva un reparto.

Ma ben presto, dopo aver battezzato città, comuni, villaggi e frazioni, si passò a distruggere col fuoco quelli, fra di essi, che non tolleravano l’italianizzazione né l’occupazione. In data 30 maggio 1942 il Prefetto Testa, rese noto con pubblici manifesti di aver fatto eseguire l’internamento nei campi di concentramento in Italia di un numero indeterminato di famiglie di Jelenje dalle cui abitazioni si erano allontanati giovani maggiorenni senza informarne le autorità. Ma non si limitò alle deportazioni. Con un manifesto si rendeva noto: «Sono stase rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia». La rappresaglia continuò.

Il 4 giugno gli uomini del II Battaglione Squadristi di Fiume incendiarono le case dei villaggi: Bittigne di Sotto (Spodnje Bitinje), Bittigne di Sopra (Gornje Bitnje), Monte Chilovi (Kilovce), Rattecevo in Monte (Ratecevo). A Kilovce furono fucilate 24 persone.

Non c’è villaggio sul territorio di quelli che furono chiamati Territori Aggregati e/o Annessi a contatto con l’Istria e la regione del Quarnero, che non abbia avuto case bruciate o sia stato interamente raso al suolo; non ci fu una sola famiglia che non abbia avuto uno o più membri deportati oppure fucilati.

Centomila nei campi di concetramento

Ha scritto lo storiografo Carlo Spartaco Capogreco: «In Jugoslavia il soldato italiano, oltre che quello del combattente ha svolto anche il ruolo dell’aguzzino, non di rado facendo ricorso a metodi tipicamente nazisti quali l’incendio dei villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le deportazioni in massa dei civili e il loro internamento nei campi di concentramento». In particolare evidenzia che il numero dei condannati e confinati «slavi» della Venezia Giulia e dell’Istria fu particolarmente elevato, sicchè dal giugno 1940 al settembre 1943 la maggioranza degli «ospiti» dei campi di concentramento italiani era costituita da civili sloveni e croati. Il numero totale dei civili internati dall’Italia fascista superò di diverse volte quello complessivamente raggiunto dai detenuti e confinati politici antifascisti in tutti i 17 anni durante i quali rimasero in vigore le «leggi eccezionali»; più di 800 italiani, fra alti gerarchi civili e comandanti militari, furono denunciati per crimini di guerra commessi durante la seconda guerra mondiale alla War Crimes Commission dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. I campi di concentramento nei quali furono rinchiusi più di centomila civili croati, sloveni, montenegrini ed erzegovesi erano disseminati dall’Albania all’Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall’isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. Non si contano, poi, i campi «di transito e internamento» che funzionavano lungo tutta la costa dalmata, sulle isole di Ugliano (Ugljan) e Melada (Molat). Quest’ ultimo fu definito da monsignor Girolamo Mileta, vescovo di Sebenico, «un sepolcro di viventi». In quei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel solo lager di Arbe ne morirono 2.600 circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie. Il 15 dicembre 1942 l’Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell’XI Corpo d’Armata il rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati «presentavano nell’assoluta totalità i segni più gravi dell’inanizione da fame». Sotto quel rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: «Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo». Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell’XI Corpo in cui si parlava di «briganti comunisti passati per le armi» e «sospetti di favoreggiamento» arrestati. In una nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose: «Chiarire bene il trattamento dei sospetti (. . .). Cosa dicono le norme 4c e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!». Il generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia e Croazia nel marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da testa per dente».

Furono circa 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla «Provincia del Carnaro», dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali dell’esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti. Potremmo citare altri documenti, centinaia, che ci mostrano il volto feroce dell’Italia monarchica e fascista in Istria e nei territori jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale. Gli stupri, i saccheggi e gli incendi di villaggi si ripetevano in ogni azione di rastrellamento. Mi limiterò, per l’Istria ad alcuni episodi che precedettero di pochi mesi i fatti del settembre 1943.

Il 6 giugno 1942 furono deportate nei campi di internamento in Italia 34 famiglie per un totale di 131 persone di Castua, Marcegli, Rubessi, San Matteo e Spincici; i loro beni, compreso il bestiame, furono confiscati o abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case incendiate, dodici persone vennero fucilate.

I deportati in Italia, i villaggi rasi al suolo

Ancora più terribile fu la sorte toccata agli abitanti della zona di Grobnico, a nord di Fiume. Per ordine del prefetto Temistocle Testa, reparti di camicie nere e di truppe regolari, irruppero nel villaggio di Podhum all’alba del 13 luglio. Rastrellata l’intera popolazione, questa fu condotta in una cava di pietra presso il campo di aviazione di Grobnico, mentre il villaggio veniva prima saccheggiato e poi incendiato. Oltre mille capi di bestiame grosso e 1300 di bestiame minuto furono portati via, 889 persone rispettivamente 185 famiglie finirono nei campi di internamento italiani: più di cento maschi furono fucilati nella cava: il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13 anni appena.

Con un telegramma spedito a Roma il 13 luglio, Testa informò: «Ierisera tutto l’abitato di Pothum nessuna casa esclusa est raso al suolo et conniventi et partecipi bande ribelli nel numero 108 sono stati passati per le armi et con cinismo si sono presentati davanti ai reparti militari dell’armata operanti nella zona, reparti che solo ultimi dieci giorni avevano avuto sedici soldati uccisi dai ribelli di Pothum stop Il resto della popolazione e le donne e bambini sono stati internati stop».

Nel solo Comune di Castua subirono spedizioni punitive diciassette villaggi; furono passate per le armi 59 persone, altre 2311 furono deportate e precisamente 842 uomini, 904 donne e 565 bambini; furono incendiate 503 case e 237 stalle. Sempre nella zona di Fiume, il 3 maggio 1943, reparti di Camicie Nere e di fanteria rastrellarono il villaggio di Kukuljani e alcune sue frazioni, portarono via tutto il bestiame, saccheggiarono le case, deportarono la popolazione e quindi appiccarono il fuoco alle abitazioni, alle stalle e agli altri edifici “covi di ribelli”. Nei campi di internamento finirono 273 abitanti di Kukuljani e 200 di Zoretici

Queste sanguinose persecuzioni indiscriminate contro la popolazione civile slava furono denunciate anche da eminenti personalità politiche italiane di Trieste, tra cui i firmatari di un Promemoria presentato il 2 settembre 1943 da un “Fronte nazionale antifascista” al Prefetto Giuseppe Cocuzza. Era passato un mese e mezzo dalla caduta del regime fascista. Nel documento, si fa una denuncia drammaticamente circostanziata delle vessazioni, arresti, devastazioni ed esecuzioni sommarie «operate con grande discrezionalità da bande di squadristi che avevano goduto per troppo tempo della mano libera e della compiacenza di certe autorità». Nell’iniziativa era evidente, oltretutto, un «diffuso senso di paura per una vendetta» che avrebbe potuto abbattersi indiscriminatamente sugli Italiani dell’Istria come reazione «alla tracotanza del Regime e dei suoi uomini più violenti che in Istria e nella Venezia Giulia avevano usato strumenti e atteggiamenti fortemente coercitivi nei riguardi delle popolazioni slave

(1-continua)

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LA STAGIONE DI SANGUE

Istria 1943. La rivolta e le foibe

Dopo l’8 settembre, italiani e slavi si sollevarono spontaneamente. Tra caos, vendette e battaglie contro i tedeschi avanzanti, molti furono uccisi. Colpevoli e no

L’8 settembre 1943, alla notizia della capitolazione italiana, in Istria ci fu una generale e pressoché spontanea rivolta che coinvolse in ugual misura le popolazioni italiane nei centri costieri e quelle croate e slovene nell’interno. Nell’uno e nell’altro caso gli insorti mostrarono simpatia e solidarietà con le truppe in grigioverde che altrettanto spontaneamente avevano mostrato la propria gioia per la «fine della guerra»; la rivolta si diresse contro i carabinieri, la polizia e soprattutto i gerarchi fascisti. In quell’ondata insurrezionale cedettero le armi circa 8.000 soldati italiani. A comprova della partecipazione degli italiani all’insurrezione stanno i fatti del 9 settembre a Pola dove, quel giorno, ci fu una strage. Le autorità italiane, cui i lavoratori di varie fabbriche avevano chiesto le armi per battersi contro i tedeschi fortificatisi a Scoglio Olivi (un piccolo reparto preesistente all’armistizio) fecero aprire il fuoco sulla folla affluita ai Giardini; furono uccisi tre operai – Cicognani, Zachtila e Zuppini – e feriti un gran numero di altri. Le forze armate italiane presenti nella piazzaforte di Pola sarebbero state sufficienti per aver ragione non solo delle poche centinaia di tedeschi presenti in città da fine di luglio, ma anche di unità ben maggiori, se i comandi del XXIII Corpo d’Armata e dell’Ammiragliato avessero rispettato le clausole dell’armistizio e lo stesso proclama di Badoglio. Invece ci si affrettò a trattare con i tedeschi, cui furono poi ceduti i pieni poteri civili e militari. Il 12 settembre fu consegnata a un loro reparto di soli 300 uomini l’intera piazzaforte. Circa 15.000 uomini in uniforme e 400 detenuti – politici e comuni – che si trovavano nel carcere cittadino finirono nelle mani del nemico. Migliaia di ufficiali e marinai italiani, avendo rifiutato l’offerta di servire l’invasore, furono deportati in Germania ai lavori forzati. Solo una minoranza di militari, con in testa le Camicie nere, passò al servizio dei tedeschi.

La minaccia tedesca

La svolta in Istria si ebbe il 13 settembre. Quel giorno si capì definitivamente che su tutto incombeva la minaccia tedesca. Nella penisola stava scendendo un’intera divisione germanica. Così, in piena autonomia, gli improvvisati capi del movimento insurrezionale di Parenzo, Rovigno ed Albona, tutti italiani, decisero di opporsi con le armi all’avanzata dei tedeschi – decisione presa anche sull’onda di una terribile notizia giunta da Pola. Quel 13 settembre nel capoluogo istriano, con l’aiuto dei loro carcerieri, i detenuti politici e comuni rinchiusi nel carcere di via dei Martiri riuscirono ad evadere. Inseguiti da pattuglie tedesche aiutate da manipoli di fascisti, furono in gran parte abbattuti in strada; altri venticinque, catturati, finirono impiccati agli alberi di via Medolino o fucilati in località Montegrande, alla periferia della città. Fu questo il primo grande eccidio di civili nella serie di massacri compiuti dall’esercito tedesco in Istria nel settembre-ottobre del `43.

Questi avvenimenti sanguinosi versarono benzina sul fuoco dell’insurrezione popolare istriana – nel corso della quale, contrariamente a quanto vorrebbero far credere i simpatizzanti per quei fascisti che consegnarono migliaia di connazionali ai tedeschi, non fu torto un capello ai soldati italiani. Il patriota istriano Diego de Castro ha scritto che furono proprio sloveni e croati delle regioni interne dell’Istria ad aiutare i soldati italiani sbandati a salvarsi dopo l’8 settembre. Il vescovo di Trieste dell’epoca, mons. Antonio Santin, testimoniò il 18 settembre sul settimanale della Diocesi Vita Nuova (e poi in «Trieste 1943-1945», Udine 1963): «Migliaia e migliaia di questi carissimi fratelli (i militari italiani, ndr) furono vestiti, nutriti, accolti, difesi; essi trovarono l’amore e il calore di una famiglia che si estendeva a tutte le case e a tutti i casolari». A loro volta in «Fratelli nel sangue» (Fiume, 1964) Aldo Bressan e Luciano Giuricin, citano testimoni diretti di quei fatti, scrivendo: «La popolazione (…) porse ogni aiuto possibile alle migliaia e migliaia di soldati italiani demoralizzati (…) che cercavano di raggiungere l’opposta sponda dell’Adriatico».

A Pisino nella notte fra il 12 e 13 settembre una formazione partigiana locale bloccò alla stazione ferroviaria un treno carico di marinai italiani che i tedeschi stavano deportando in Germania: il lungo convoglio, con a bordo tremila e più ragazzi, venne circondato, i marinai furono liberati (altri due treni erano stati fermati già prima di arrivare a Pisino) e poterono avviarsi con mezzi di fortuna, aiutati dalla popolazione, in direzione di Trieste e dell’Italia. Una cinquantina di essi si unirono alle formazioni antifasciste istriane.

Guido Rumici scrive: «In tutta la regione si assistette alla fuga precipitosa di decine di migliaia di soldati e di marinai che in tutta fretta abbandonarono caserme e installazioni militari, sbarazzandosi di armi, divise e munizioni e cercando di intraprendere, singolarmente o a gruppi, la strada del ritorno verso le proprie famiglie». «Nel loro peregrinare, spesso a piedi, per boschi e campagne, ricevettero appoggio e solidarietà dalla popolazione locale che si prodigò spesso rischiando anche in prima persona, per portar loro soccorso e sostegno, ospitandoli, nascondendoli, sfamandoli e aiutandoli a raggiungere la meta». Con ciò non si vuole negare che ci furono anche sporadici episodi di «caccia al fascista», ai capi locali del regime.

Documenti partigiani del settembre-ottobre 1943 forniscono un quadro abbastanza realistico di quella che fu l’insurrezione istriana del settembre. Leggiamo: «La presa del potere e del materiale (bellico) si è svolta per lo più in maniera improvvisata da parte di Comandi di posto arbitrariamente autodefinitisi tali e costituiti in tutta fretta in singole località. La popolazione è insorta spontaneamente, ha preso in mano le armi, ma non si può parlare in alcun modo di reparti militarmente organizzati e di una dirigenza militare».

Sull’onda dell’insurrezione generale e del vuoto di potere, alcuni esponenti croati giunti in Istria da oltre confine, fra cui Ivan Motika, oriundo di Gimino, laureato in giurisprudenza ed ex ufficiale dell’esercito regio jugoslavo, improvvisarono una specie di tribunale del popolo e costituirono una polizia politica segreta o Centro di Informazione, che diedero inizio a processi sommari contro i «nemici del popolo», fascisti o presunti tali. Luciano Giuricin scrive in proposito che il Motika «ebbe sicuramente un ruolo non secondario negli arresti, nelle carcerazioni e negli interrogatori dei prigionieri, come pure negli eccidi delle foibe avvenuti principalmente durante la caotica ritirata delle forze partigiane incalzate dall’offensiva tedesca di ottobre, che portò all’occupazione dell’intera Istria».

I tribunali del popolo

I cosiddetti tribunali del popolo funzionarono nelle peggiori condizioni possibili, alla mercè di «giudici» che talvolta erano persone che avevano avuto a che fare con la legge come pregiudicati e criminali comuni: contrabbandieri, ladri e peggio che ora si servivano di quei «tribunali» per sfogare bassi istinti di vendetta. In un rapporto dell’ottobre `43 firmato da Zvonko Babic, inviato in Istria dal Comitato centrale del Pc croato, si legge: «Nel periodo in cui abbiamo esercitato il potere in Istria (…) la lotta contro i nemici del popolo è stata condotta in maniera disuguale».

In molte località gli istriani si sono rifiutati di attuare le esecuzioni, al punto che certi Comandi di posto riferivano nei loro rapporti di aver liquidato i condannati a morte nonostante la cosa non fosse vera. Si è manifestata pure l’ignoranza, la mancata conoscenza dei veri nemici del popolo e l’assenza di informazioni sui loro crimini, circostanza questa che adesso, con ritardo, si ritorce contro di noi». Il rapporto continua: «Il territorio più radicalmente ripulito (dai `nemici del popolo’, ndr) è quello di Gimino, paese natale di Motika, e quello del Parentino. Un altro errore: nessuno ha mai pensato a costituire campi di concentramento, sicché i nemici del popolo sono stati puniti unicamente con la morte. Fra gli arrestati c’era pure un prete, che dietro intervento del vescovo di Pola e Parenzo è stato rimesso in libertà».

Fra coloro che vennero catturati dagli insorti, consegnati ai tribunali del popolo e da questi condannati a morte e infoibati, vi furono una ventina di zelanti fascisti locali che avevano fatto da guida a due colonne tedesche che tra l’11 e il 13 settembre, muovendo da Pola e da Trieste avevano tentato di raggiungere Fiume, scontrandosi ripetutamente con reparti di insorti. In quegli scontri caddero più di cento patrioti istriani, in maggioranza italiani di Parenzo, Rovigno e Albona, ma anche diversi soldati italiani unitisi agli insorti.

In concomitanza con l’insurrezione, ma soprattutto dopo gli scontri del 13 settembre, cominciarono gli arresti di gerarchi fascisti, di podestà e di altri funzionari ma anche di semplici iscritti al fascio, sia per iniziativa di singoli che per ordine dei vari Cpl. In questa operazione furono impegnati sia italiani che croati.

A Rovigno, cittadina abitata quasi esclusivamente da italiani, gli arresti dei «nemici del popolo» cominciarono alla fine della seconda settimana di settembre. Il mattino del 16, eseguendo un piano tracciato dal Comitato rivoluzionario che in giornata assunse i pieni poteri, entrarono in città cento e più partigiani italiani e croati che, insieme ai dirigenti antifascisti locali disarmarono le superstiti formazioni militari italiane di stanza sul posto. L’indomani, con l’aiuto di comunisti locali, arrestarono un centinaio di persone indicate come «i più incalliti fascisti macchiatisi di crimini», colpevoli di avere «per decenni terrorizzato la popolazione della città». A giudicarli furono dei comunisti italiani, loro concittadini, che alla fine, il 17 settembre, trattennero 14 fascisti (tutti italiani, ex squadristi e confidenti dell’Ovra) che spedirono a Pisino, a disposizione del Tribunale militare.

Non solo comunisti

Più o meno le cose andarono così anche nelle altre località dell’Istria. Non in tutte, però, gli uomini incaricati di dare la caccia al fascista erano comunisti o antifascisti. «Tra questi partigiani dell’ ultima ora c’erano – in non pochi casi – quelli che avevano indossato la camicia nera solo qualche settimana indietro o la divisa di carabiniere sino all’8 settembre, personaggi che, armi alla mano, si erano autoproclamati capi partigiani». E prevalse la violenza.

Per quanto riguarda i militanti del Pci, essi poterono orientarsi seguendo le direttive di un manifesto diffuso dopo il 25 luglio 1943 in tutta la Regione Giulia a firma dei comitati regionali dei partiti d’azione, comunista, liberale e socialista, nonché dei movimenti cristiano sociale e di unità proletaria. In esso si chiedeva l’armistizio immediato, la cacciata dei tedeschi e «la punizione dei responsabili di vent’anni di crimini, di ruberie e del tradimento della nazione». All’atto pratico, come rivelano i risultati di vari incontri avuti con i massimi esponenti degli insorti croati dagli esponenti istriani del Pci Pino Budicin, Aldo Rismondo, Aldo Negri, Alfredo Stiglich ed altri, fu difficile conciliare i criteri per la punizione dei fascisti; e nei fatti fu l’anarchia.

I primi e più massicci arresti avvennero nelle zone di Rovigno e di Albona, dove il comando del movimento insurrezionale e partigiano fu assunto da comunisti affiliati al Pc italiano, a Parenzo e dintorni, a Gimino e nel Pisinese. Tuttavia, mentre nelle prime due località ci furono dei filtri e si cercò di evitare ingiustizie per quanto possibile (tanto è vero che ad Albona diverse persone arrestate come fasciste furono liberate per intervento di Aldo Negri, ma poi nuovamente arrestate da personaggi estranei al locale Comando partigiano) nel Parentino, nel Pisinese e in quel di Gimino invece gli arresti oltre ad essere massicci furono pure indiscriminati. La maggioranza degli arrestati era formata da gerarchi fascisti locali che si erano meritati l’odio delle popolazioni, ma nel mucchio capitarono anche persone che oltre alla tessera del Pnf non avevano colpe da espiare – o con i quali i delatori avevano vecchi conti personali da regolare. La caccia al fascista cominciò verso la metà del mese. Ma appena il 24 settembre, di fronte a fenomeni di esecuzioni sommarie ed arbitrarie, segnalati dalle varie località dell’Istria al Comando partigiano costituitosi nel frattempo a Pisino, fu costituito un «Tribunale militare mobile» che avrebbe dovuto arginare o eliminare le illegalità. I processi si celebrarono a Pisino, ad Albona e Pinguente, località nelle quali esistevano i centri di raccolta (prigioni) degli arrestati. Nella maggior parte i prigionieri furono inviati a Pisino e rinchiusi nel castello dei Montecuccoli, da dove o venivano rispediti a casa, se ritenuti innocenti, oppure condannati a morte e condotti sui luoghi di esecuzione, per lo più foibe carsiche o cave di bauxite. Quando arriveranno i tedeschi, troveranno a Pisino ancora un centinaio di prigionieri in attesa di processo. A Pinguente furono assolte e liberate dagli stessi partigiani oltre 100 persone.

Ma quanti furono gli infoibati in Istria?

 (2-continua. La prima parte è stata pubblicata il 4 febbraio)

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LA STAGIONE DI SANGUE

Istria 1943: quanti morirono?

Dopo l’8 settembre le vittime dei partigiani jugoslavi furono tante: ma la vendetta nazifascista, oggi dimenticata, fu poi spaventosa. E spesso compiuta da chi oggi parla del «genocidio»

Numeri e morale. Dai bilanci tracciati dagli stessi fascisti, nel `43, gli «infoibati» con giustizia sommaria furono alcune centinaia (e non tutti erano italiani). I civili massacrati per vendetta dopo il ritorno dei nazifascisti furono molte migliaia. Falsificare queste cifre per riattizzare dopo 60 anni odî etnici è immorale. Italiani, sloveni e croati dovrebbero piuttosto riconoscere le reciproche colpe. E scusarsi

Nella relazione di un diplomatico dello «Stato indipendente croato» (quello degli ustascia) che seguì le truppe tedesche in Istria dopo il 4 ottobre `43, si legge: «I partigiani hanno ucciso circa 200 prigionieri fascisti, gettandone i corpi nelle foibe». A loro volta i tedeschi, dopo una dettagliata esplorazione di 52 tra foibe e cave di bauxite istriane, cominciata il 16 ottobre 1943 a Vines (Albona) e conclusasi nel gennaio 1945 con l’impiego dei vigili del fuoco di Pola, pubblicarono un elenco nominativo di 232 vittime. La stampa fascista repubblichina dell’epoca, riferendo un rapporto del Federale dei Fasci dell’Istria Luigi Bilucaglia, scrisse di 349 vittime degli «slavocomunisti», cifra successivamente portata a 419, comprendendo in essa anche persone date per scomparse. Lo storico triestino Galliano Fogar indica la cifra massima di 570 persone uccise, «in maggioranza italiani ma anche slavi», aggiungendo: «Fu una giustizia sommaria, sembra contro le direttive impartite, innescata dalle sofferenze e persecuzioni patite», «ma anche da vendette per rancori e contrasti paesani e dall’intervento, in quel confuso clima insurrezionale, di elementi criminali».

Cifre inventate

La pubblicistica neo e postfascista di oggi parla invece indiscriminatamente di vittime civili innocenti, massacrate solo perché italiani, inventando cifre che per la sola Istria vanno dai mille ai duemila morti. Un altro storico triestino, Roberto Spazzali, nel voluminoso libro «Foibe, dibattito ancora aperto» edito dalla Lega Nazionale di Trieste, ha onestamente riconosciuto che molti «storici» hanno puntato sul sensazionalismo, sull’effetto del numero che dovrebbe affermare il concetto dell’olocausto, ovvero del «martirio olocaustico» degli italiani in Istria. Sono state così proposte «versioni, cifre e giudizi mai verificati da dati oggettivi» nell’intento di produrre «una moltiplicazione emotiva ed anche politica» delle vittime, presentando un quadro «macroscopicamente lontano dalla realtà».

La falsificazione delle cifre è un immorale gioco di sciacallaggio politico; basterebbe il sacrificio anche di pochi innocenti per indurci a denunciare il crimine commesso. E gli innocenti, tra gli infoibati istriani, ci furono. Furono parecchie le vittime di vendette personali, compiute da criminali comuni – come il malfamato Matteo Stemberga di Albona, che sterminò perfino alcuni suoi parenti. Alcuni individui, che avevano indossato la camicia nera o la divisa di carabiniere fino a qualche mese prima, per riscattarsi del proprio passato, si trasfomarono dalla sera al mattino in «partigiani», zelanti cacciatori di teste.

Non tutte le vittime, però, furono «civili innocenti». Ricordiamo che furono le stesse autorità fasciste istriane, civili e militari dell’epoca a indicare molti degli infoibati come «militi della Mvsn» o appartenenti a organizzazioni sociali del Partito fascista. In un documento della Prefettura repubblicana di Pola si parla esplicitamente di «nostri disgraziati squadristi». L’etichetta di fascisti, squadristi ecc. venne data alla maggior parte delle vittime anche dai giornali repubblichini dell’epoca, in occasione della riesumazione delle salme e dei funerali. Il Corriere Istriano di Pola e Il Piccolo di Trieste mettevano in risalto nei loro necrologi, accanto a nomi e cognomi, le cariche di podestà, segretario del Fascio ed altro, insieme a gradi e titoli vari. Oggi, accanto a quei nomi, figurano solo professioni e mestieri, da ingegnere ad agricoltore, con l’aggiunta stereotipa di «vittime della barbarie comunista slava». Viene ripetuta una terminologia usata dai fascisti al servizio dei nazisti dall’ottobre 1943 alla fine di aprile 1945, quando furono pubblicati opuscoli e libelli che incitavano alla distruzione di quei «barbari», degli «aguzzini rossi», delle «bestiali orde di Stalin». Le parole furono accompagnate dai fatti, come presto diremo.

Un’altra tesi degli «storici» neo e postfascisti è quella del genocidio degli italiani.

Non solo italiani

È fuori dubbio invece che non tutti gli infoibati erano italiani, così come non pochi fascisti locali erano «italianissimi croati» con cognomi slavi italianizzati. Fra questi ci furono fascisti colpevoli solo di esser stati esattori delle imposte, guardie comunali e forestali, segretari comunali, o possidenti terrieri: ma ci furono anche agenti e confidenti dell’Ovra.

I fascisti superstiti si vendicarono largamente denunciando ai tedeschi non centinaia ma migliaia di cosiddetti «slavocomunisti» e loro familiari. Chi oggi, invoca giustizia per le vittime della cosiddetta «barbarie slavocomunista», mescolando insieme innocenti e criminali, dimentica che già sessanta anni or sono, proprio in nome degli infoibati, fascisti e nazisti eseguirono una colossale vendetta mettendo l’Istria intera a ferro e fuoco, al punto da suscitare lo sgomento e l’aperta denuncia delle autorità ecclesiastiche, con alla testa l’arcivescovo di Trieste e Capodistria, mons. Santin. Il 4 marzo 1944 sul giornale Vita Nuova, organo di quella diocesi, furono denunciate le «truculenti espressioni della barbarie umana» e «le arbitrarie violenze contro uomini e cose» quotidianamente commesse dai nazifascisti con incendi di paesi, deportazioni, esecuzioni sommarie.

Sarebbe lungo riportare tutti gli eccidi compiuti dai fascisti istriani dopo l’arrivo dei tedeschi – e dagli stessi tedeschi, che nei fascisti locali trovarono ottime spie e guide per le loro sanguinose spedizioni. Basti citare il bollettino germanico che già il 7 ottobre `43 faceva un primo bilancio dell’occupazione della penisola e della repressione, informando: «Sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi. Altri 4.900 sono stati catturati, fra questi gruppi di ufficiali e soldati badogliani», dunque italiani. Otto di essi, marinai, vennero fucilati nei pressi di Gimino; i loro corpi, lasciati insepolti, furono tumulati dai contadini, molto più tardi, in una cava di bauxite (e conteggiati fra gli infoibati). Il 23 ottobre il bollettino tedesco parlava di 13.000 banditi uccisi o fatti prigionieri. Erano tutti civili, come poi le centinaia e migliaia che sarebbero stati massacrati nei mesi seguenti in tutta la regione. Sempre, a indicare i villaggi da rastrellare e le persone da uccidere furono i fascisti italiani, zelanti servitori dei nazisti.

Collaborazionisti in prima linea

Oggi quei collaboratori che aiutarono i nazisti a mettere l’Istria a ferro e fuoco, sono in prima linea nel denunciare i «crimini dei comunisti slavi dell’Istria» e nel coprire, tacere o trasformare in pagine di patriottismo italico il loro coinvolgimento nelle stragi compiute dopo la pagina nera delle foibe. Uno di questi, in veste di storico, fecondo compilatore di libelli, è Luigi Papo da Montona, ex comandante della Milizia repubblichina del 2° reggimento «Istria» sotto il comando delle Ss, che effettuò feroci e ripetuti rastrellamenti nella penisola, come si ricava dagli encomi rivoltigli dal foglio Corriere Istriano di Pola, nel novembre 1943, per aver fondato il fascio e la «Squadra d’azione» di Montona e per le successive operazioni contro i «banditi» partigiani. Ne fu richiesta l’estradizione dalle autorità jugoslave per crimini di guerra, ma a suo favore si adoperò l’on. Scelba, allora ministro dell’interno, facendo archiviare la richiesta.

La tesi ricorrente degli storici di matrice fascista è che l’esodo delle popolazioni istriana, fiumana e dalmata – avvenuto nel decennio 1945-1954 e in seguito, sia diretta conseguenza delle foibe. Sul quotidiano Il Piccolo di Trieste (16 febbraio 2003) si poteva leggere una lettera alla redazione di tale Alesandro Perini, esule da Capodistria. In essa scrisse: «Non si deve dimenticare mai (…) che il fascismo di Mussolini, che ha dichiarato guerra a mezzo mondo, paesi balcanici compresi, ritrovandosi alla fine del conflitto senza l’Istria, senza mezzo Isontino e con un debito economico e morale incalcolabile (…) è l’unico responsabile dell’Esodo. Esatto. Con la precisazione che l’Italia di Mussolini non dichiarò guerra ai paesi balcanici, Grecia e Jugoslavia, ma li aggredì e li invase senza dichiarazione di guerra, occupandoli, seminando in quelle terre stragi e distruzioni immani, coprendo l’Italia di vergogna. Ciononostante, nessuno dei numerosi statisti italiani che si sono avvicendati al vertice del governo e dello stato dopo la caduta del fascismo – nessuno, ripeto – ha ritenuto finora necessario chiedere scusa e perdono alle vittime di quell’aggressione e di quella occupazione, ai figli e nipoti di centinaia di migliaia di massacrati. Si dimenticano pure i circa 5.000 uomini e donne, vecchi e bambini istriani trucidati dai tedeschi e dai militi del fascio repubblicano che terrorizzarono quella penisola, portando inoltre alla deportazione di altri 15 mila istriani nel periodo fra ottobre `43 e fine di aprile 1945.Chi è accecato dall’odio antislavo dimentica perfino l’aiuto che le popolazioni croate e slovene dell’Istria fornirono in tutti i modi alle migliaia di soldati italiani sbandati che, arrivando dalla Balcania, cercavano di raggiungere attraverso l’Istria e Trieste le loro case lontane.

Decenni di confusione

Questo vuole essere un contributo alla chiarificazione, contro la confusione seminata per decenni da chi ha cercato di strumentalizzare le foibe da una parte, e contro la rimozione di una memoria dolorosa dall’altra. Come direbbero gli storici triestini Raoul Pupo e Roberto Spazzali, bisogna che cessi una volta per sempre la messa in circolazione di «criteri di lettura di quella stagione di sangue tutti interni ai risentimenti, alle accuse e alle ripulse, come se mezzo secolo fosse passato invano».

Da parte slovena e croata non si può continuare a negare i crimini compiuti contro gli italiani e gli stessi slavi dell’Istria da singoli esponenti della rivolta istriana del settembre; non si può negare la tragedia delle foibe, frutto anche di revanscismo; ma da parte italiana non si deve negare la sanguinosa storia scritta in quelle terre dal fascismo italiano prima e dal collaborazionismo fascista al servizio dei tedeschi dopo l’8 settembre 1943. La nostra memoria deve portare sì la dolorosa tragedia delle foibe, vista nella sua esatta cornice storica; ma anche gli orrori del fascismo devono essere parte di questa memoria. Guai a coltivare la visione manichea – oggi predominante negli scritti degli «storici» revisionisti – secondo cui gli italiani furono tutti e sempre buoni, con rare eccezioni, mentre gli slavi sono stati tutti e sempre cattivi, con rare eccezioni; non è vero che i fascisti combatterono in Istria, prima e dopo l’8 settembre, per una causa patriottica e giusta, mentre i partigiani sarebbero stati degli scellerati usurpatori.

Tesi assurde

Una volta per tutte – infine – va sottolineata l’assurdità delle tesi del «genocidio» che gli slavi in Istria avrebbero compiuto sugli italiani. Il tragico destino dei disgraziati che trovarono atroce morte nelle foibe non può essere usato dopo 60 anni per istigare passioni ed odio interetnico, per spezzare legami di amicizia che abbiamo saputo far rivivere nonostante l’odio che i vetero e neofascisti continuano a seminare. Nessuno di noi, oggi, può e vuole negare l’esistenza di vittime della jacquerie rivoluzionaria istriana della seconda metà di settembre 1943, né si può negare che nello stesso Partito comunista croato l’internazionalismo proletario fu inquinato da nazionalismi deleteri che si manifestarono soprattutto in Istria con l’invio nella penisola, quali emissari del Movimento di liberazione croato di ex fuoriusciti comunisti e nazionalisti (narodnjaci); non si può però neppure dimenticare che fra quelle vittime c’erano coloro che prima erano stati carnefici.

 

Occorre perciò reciproco perdono, lo sforzo di operare in futuro per la reciproca riconciliazione. Il buon nome dell’Italia non si difende esaltando i fascisti e ignorando i crimini del fascismo, così come per un futuro di pace va permesso che i figli delle vittime innocenti delle foibe possano deporre un fiore sui luoghi del sacrificio dei loro padri. Per quel che può valere, propongo che i presidenti di Slovenia e Croazia depongano corone ai margini delle foibe di Basovizza presso Trieste e di Vines in Istria, e che il presidente italiano si rechi sul luogo dell’eccidio di Pothum presso Fiume o nel cimitero di Kampor sull’isola di Arbe per onorare le vittime innocenti della barbarie fascista italiana. Si onorino i figli martiri dei tre popoli confinanti che dai loro sepolcri invocano un avvenire di convivenza, di collaborazione e di pace. La pace può scaturire unicamente, come direbbe il poeta fiumano Alessandro Damiani, dalla condanna di «atti / a misura delle bestialità umana, / cui ideologie e fedi offrono / sempre miserrima copertura».

*(serie di articoli comparsi sul Manifesto nel febbraio 2005)

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