Contesto storico-politico
La delicata questione della pacificazione della Repubblica democratica del Congo (RDC) in generale, e delle sue regioni orientali in particolare, ha interessato e riguarda ancor oggi – soprattutto con la guerra in corso tra il governo di Kinshasa e il Movimento del 23 Marzo (M23), e l’intensificazione esponenziale delle atrocità contro le popolazioni – un gran numero di attori, che intervengono direttamente, o indirettamente, in questa crisi: lo Stato congolese, la classe politica locale e provinciale, il Consiglio di sicurezza delle Nazioini unite (CSNU), le organizzazioni regionali africane (EAC, CIRGL, SADC), le Ong, gli operatori della comunicazione e molteplici ricercatori ed analisti.
Dopo le due guerre congolesi (1996-97 e 1998 – 2002), un tentativo di soluzione della crisi fu avviato con la costosissima creazione della Missione delle Nazioni unite per la RDC (MONUC, che diventerà Missione per la stabilizzazione della RDC / MONUSCO, en 2010), stabilita dalle Risoluzioni 1258 del 6/8/1999 e 1279 del 30/11/99, divenute operative il 24/02/2000, con un organico in crescita fino a un personale di 23 000 membri nel 2012.
Per il suo impiego, sono stati spesi fino ad oggi più di 20 miliardi di dollari. Per stabilire un ordine di grandezza comparativo, il budget della MONUSCO del 2018 era equivalente al 20% di quello dello Stato congolese nello stesso periodo.
Ricordiamo che nel 1960, anno dell’Indipendenza del paese (30 giugno), l’ONU aveva creato l’Organizzazione delle Nazioni unite in Congo, diventata Operazione delle Nazioni unite in Congo (ONUC, 14 luglio 1960 – 30 giugno 1964), attiva durante la prima crisi congolese e il cui obiettivo era di sostenere il governo del Congo-Leopoldville (attuale RDC) a ristabilire l’ordine e la legge turbati dai moti politico-militari successivi all’Indipendenza, difendere l’Indipendenza stessa e l’integrità del territorio nazionale e mettere in piedi un ampio programma d’assistenza tecnica. L’ONUC contava all’incirca 20 000 membri, civili e militari.
Quando nel 2010, con la Risoluzione 1925, la MONUC diviene MONUSCO, l’idea propugnata era quella di passare alla fase della «stabilizzazione», dato che la RDC era tutto fuorché pacificata.
Ma il concetto stesso di «stabilizzazione» essendo estremamente ambiguo, si trattava per la Missione di gestire lo status quo in un paese perennemente in conflitto. E, in seguito a una riorganizzazione dottrinale in chiave contro-insurrezionale del Dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace (DPKO, secondo l’acronimo inglese), fu attribuito alla Missione un mandato più offensivo con la creazione, via la Risoluzione 2098 del 2013, di una Brigata d’intervento (Force intervention brigade / FIB, secondo l’acronimo inglese).
Per la prima volta nella storia del DPKO viene messa in piedi una forza offensiva e robusta, alla quale si attribuisce la facoltà di attaccare, prerogativa che, tra le altre cose, dissolve il principio di neutralità delle Operazioni di mantenimento della pace.
Malgrado l’immensità dei mezzi umani, finanziari e politici stabilita dalla Comunità internazionale, la RDC continua a vivere un conflitto armato che è già durato troppo. Questo conflitto ha implicato ed implica degli attori a livello nazionale (gruppi armati, per lo più di natura tribale, il più delle volte sostenuti dal governo) e gruppi armati stranieri provenienti dai paesi vicini, il tutto con una dinamica complessa di alleanze fluttuanti.
La conseguenza più drammatica di queste guerre è stata la morte di parecchie migliaia di persone e i milioni di rifugiati, profughi e sfollati interni.
Una delle cause tra le più profonde di questi conflitti va ricercata nel fallimento dello Stato che si manifesta anche in una paralisi quasi totale dell’Amministrazione e nella disfunzione e perversione dell’apparato istituzionale militare che dovrebbe garantire la sicurezza e la protezione delle popolazioni; a cui va aggiunta la legittimazione della corruzione, seguita dall’impunità a tutti i livelli delle istituzioni.
Per quello che riguarda l’impunità, si tratta dell’assenza, divenuta cronica nella RDC, del deferimento nei Tribunali, civili e militari, dei membri dei gruppi armati o degli elementi dell’esercito (FARDC) resisi colpevoli di atrocità contro le popolazioni inermi.
L’impunità tuttavia, non riguarda solo la violenza contro le persone fisiche, ma tutte le altre forme di criminalità, ed in particolare la criminalità economica, fonte di impoverimento di decine di milioni di Congolesi. Essa impedisce allo Stato di fornire i servizi economici essenziali e, in quanto tale, è una fonte di creazione della miseria e causa di mortalità ben superiore a quella dovuta alla violenza fisica (mortalità infantile, delle donne, o causata dalla malaria…).
Per non parlare della mancanza delle infrastrutture stradali e ferroviarie, che isolano regioni e territori gli uni dagli altri e sono la vera cause della balcanizzazione del paese. Così, il carattere predatore dello Stato si manifesta nel paradosso che l’Ovest della RDC, regione considerata pacificata, soffre talora più dell’Est in termini di povertà, malnutrizione, mortalità infantile.
La debolezza dello Stato, aldilà del deficit d’Amministrazione che lo caratterizza, si constata nel fatto che l’élite al potere, o quella che tenta di conquistarlo, opera la tribalizzazione della vita politica.
In effetti, la stessa decentralizzazione si traduce nella RDC, nel dominio di una tribù specifica, quella maggioritaria, alla testa delle diverse Province, dato che le primarie delle elezioni locali sono organizzate, non all’interno di un partito, ma in seno alla tribù maggioritaria. Ecco perché, oltre al fallimento dello Stato caratterizzato dalla corruzione, il tribalismo costituisce l’altra causa profonda delle guerre e della miseria delle popolazioni.
Come ha chiaramente affermato Papa Francesco a Nairobi, davanti a una platea di giovani, “Il tribalismo distrugge, è come avere una mano nascosta dietro la schiena ed essere pronti a scagliare una pietra contro qualcun altro” (Papa Francesco: Incontro con i giovani a Nairobi, 27 novembre 2015).
Il tribalismo non esprime soltanto come la preferenza per il proprio gruppo da parte di quelli che ne fanno parte e ne condividono l’identità linguistica, storica e regionale. Il tribalismo si manifesta soprattutto nell’odio di colui che è diverso. Quest’odio nei confronti di alcune minoranze -o considerate tali- è diventato un fondo di commercio politico, lo strumento di una politica demagogica e populista che dovrebbe riunire tutti quelli che si riconoscono in una pretesa razza bantù, per distinguersi da un’immaginaria razza nilotica, portatrice disordine e di mire espansioniste.
Oggi purtroppo, tale sentimento identitario volto all’esasperazione, all’appello al crimine e al crimine stesso, individuale o di massa, è considerato come la forma più avanzata di patriottismo!
In questa deriva estremamente pericolosa, in cui si riconoscono messaggi ed eventi che hanno caratterizzato il genocidio dei Tutsi nel 1994 in Ruanda, si sviluppa la discriminazione dell’Altro, del Diverso, e si legittima la violenza cieca contro tutti quelli che sono presentati come membri della razza – la Nilotica – la cui intenzione sarebbe quella di procedere alla balcanizzazione della RDC al fine di creare un Impero Hima in Africa Centrale.
Il tutto, secondo una teoria che ricorda Il Protocollo dei Saggi di Sion che precedette dei pogrom che nessuno avrebbe mai potuto immaginare nella storia dell’umanità.
Gli uomini politici, come certi leader religiosi e tradizionali, hanno diffuso questa perniciosa visione. Nello stesso tempo, i réseaux sociali sono diventati delle autostrade in cui l’odio si distilla agevolmente.
Ora, quello che è grave è che questa visione è diventata corrente dominante nella RDC e qualsiasi uomo di buona volontà può verificarlo. E secondo questa visione, le persone non sono giudicate per i loro atti, ma per quello che sono. Il delitto di morfologia, di assomigliare alla razza invisa, è un crimine, seguito sempre più spesso dalla pena di morte eseguita da gruppi di estremisti iper eccitati e manipolati. Uccisioni e massacri sono sempre più frequenti in tutto il paese, in particolare in alcune città delle regioni orientali, come Butembo. Per giustificare questi atti di genocidio, la vittima è trasformata in carnefice, accusata di tutti i mali.
Strategie e piste di soluzione. Fare del popolo l’artigiano del proprio destino
Rispetto al fallimento delle soluzioni adottate dalla suddetta Comunità internazionale, è il caso di domandarsi se non ci si dovrebbe concentrare sulla capacità popolare di creare le condizioni della pace. Si tratterebbe di fare in modo che il popolo sia l’artigiano del suo destino.
Come affermava San Paolo VI: “La pace non si riduce all’assenza della guerra, in quanto frutto di un equilibrio delle forze che resta precario. La pace si costruisce giorno dopo giorno nella ricerca dell’ordine voluto da Dio che comporta una maggiore giustizia tra gli uomini” (Populorum Progressio – Lettera enciclica sullo sviluppo dei popoli, 1967).
E’ per questo che, senza una lotta permanente e a fondo contro il tribalismo, non ci sarà la pace.
D’altronde, Papa Francesco, sempre a Nairobi nel 2015, aveva predetto: “Se voi non dialogate, ci saranno sempre tribalismo e divisioni, come un germe malsano che si sviluppa nella società. Sconfiggere il tribalismo è un lavoro di tutti i giorni, un lavoro dell’ascolto dell’Altro e dell’apertura dei cuori e delle mani, darsi la mano, gli uni con gli altri”.
Le tribù sono chiamate a fondersi per formare la nazione e questo processo di nazionalizzazione dei popoli sarebbe dovuto essere prioritario dopo le Indipendenze africane. Esso ha ben funzionato in un paese come la Tanzania di Julius Nyerere, ma non è mai stato cominciato nella RDC.
Noi dobbiamo elaborare un insieme di teorie al fine di sussumere, senza negarle in toto, le identità tribali nell’identità nazionale.
Chi potrebbe farlo?
L’istanza che potrebbe rendere il popolo protagonista della propria sicurezza e della pace dovrebbe avere come suo requisito principale l’identificazione del tribalismo come causa principale della violenza e della guerra. Per essere costruttori di pace, è necessario il dialogo tra quelli che si fanno la guerra e tra quelli che si fronteggiano in una situazione d’inimicizia, e questo dialogo deve essere basato sulla riconciliazione, sulla giustizia e sul perdono.
Se la ricostruzione dello Stato sarà un processo lungo e laborioso, si potrebbero cominciare per riunire gli uomini di buona volontà, religiosi e non, in una serie di Commissioni Giustizia e Pace da organizzare nelle diverse diocesi. E svilupparle nello spirito nato con la Populorum Progressio di Santo Paolo VI, che coincide con gli insegnamenti del Santo Padre.
* da Il Faro di Roma
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Gianni Sartori
IN AFRICA LITIO & C. RIMESCOLANO LE CARTE.
E MAGARI DOMANI ANCHE QUELLE GEOGRAFICHE…
Gianni Sartori
Facile previsione quella di dover assistere, oltre al deflagrare di conflitti, a nuove insorgenze indipendentiste o magari più modestamente a richieste di autonomia in quei territori africani dove si va ad estrarre, lavorare, commercializzare…il prezioso litio (e gli altri minerali indispensabili per l’elettrico).
Quindi eventuali situazioni di autonomia amministrativa preesistenti potrebbero, possono tornare utili, provvidenziali.
Vedi il caso del distretto autonomo di Abidjan, con relativo porto, in Costa d’Avorio. Magari grazie alla preveggenza di qualche compagnia straniera che da tempo aveva allungato le mani su questo strategico terminale minerario. Anche se il minerale in questione (per la cronaca: il prezzo del litio nell’ultimo anno è aumentato circa del 500%) proviene da un paese limitrofo, il Mali.
Infatti l’avvio dei preliminari delle attività estrattive nei giacimenti dell’azienda australiana Leo Lithium limited (in Mali) ha determinato un’accelerazione dei lavori nel “porto autonomo” di Abidjan. Dal 2018 a disposizione della società belga Sea Invest che ha in programma di ampliarne ulteriormente le capacità di stoccaggio (passando da 200mila tonnellate a 300mila) e di esportazione (sempre in previsione, annualmente oltre tre milioni di tonnellate di minerali).
Per i lavori di ampliamento e modernizzazione, si prevedono tempi brevi, al massimo una decina di mesi.
AUTONOMIA SI’, MA AL SERVIZIO DI CHI?
Va detto che la particolare condizione di Abidjan solleva qualche perplessità sull’eventuale abuso del concetto di “autonomia”.
L’ex capitale e maggior città ivoriana costituisce un distretto autonomo dei 14 in cui è suddiviso il Paese.
O meglio: una “regione urbana autonoma” (come l’altra, Yamoussoukro, la nuova capitale amministrativa).
Tutto questo potrebbe essere risultato un buon punto di partenza per l’ampliamento e la gestione (leggi controllo) delle infrastrutture necessarie per concentrarvi i minerali da esportare.
In Mali il progetto Goulamina (un giacimento di litio nel sud del paese, a circa 150 chilometri da Bamako) si avvia a diventare (si prevede nel giro di un paio di anni) forse la prima, comunque una delle maggiori miniere in attività del continente africano. L’area interessata si estende per quasi trentamila ettari (nel permesso di Torakoro) ed il progetto è sviluppato – come già detto – da Leo lithium limited, in collaborazione con la Ganfeng lithium (cinese).
Salvo imprevisti (come l’utilizzo di manodopera immigrata, specializzata o meno) l’impianto minerario dovrebbe assumere circa 6-7cento persone del luogo.
Un migliaio quelle assunte temporaneamente per i lavori di costruzione (durata prevista: due anni), mentre una novantina di milioni di euro (poco più di un terzo dei 240 complessivi) dovrebbero finire nelle tasche di imprenditori maliani (fornitori di calcestruzzo, attrezzature, installazioni…).
Gianni Sartori