I disastri della politica economica basata sulla strategia del “Bottom Up”.
Crepe nella classe dirigente italiana, con Banca d’Italia in testa. Se ne è avuta occasione il 29 marzo scorso quando Visco ha accusato l’imprenditoria italiana di non investire, di essere specializzata in produzioni a basso valore aggiunto, di non innovare e, da qui, di creare una domanda di lavoro a bassa qualificazione, aggiungendo che rapporti di lavoro più stabili favoriscono l’aumento delle competenze dei lavoratori e da qui la produttività, quella che manca da tre lustri in questo paese. Proprio su quest’arco temporale il vice Direttore Generale di Banca d’Italia Signorini si è soffermato il 3 aprile scorso in un convegno ad Ancona sui distretti industriali, con una relazione che porta il titolo “Agglomerazione, innovazione e crescita: un quindicennio di ricerca”.
Bene, come stanno messi i distretti industriali? Ebbene, i sistemi locali di produzione basati sulle piccole imprese sono stati oggetto di uno tsunami che ne ha stravolto la fisionomia: il primo è il salto tecnologico degli ultimi vent’anni, il secondo è la “crescente integrazione internazionale e l’ingresso sui mercati mondiali dei paesi emergenti, a cominciare da Cina e India”. Risultato? “Molti dei vantaggi dei distretti perdevano rilevanza. La diminuzione dei costi di trasporto rendeva economicamente conveniente lo spostamento delle lavorazioni più standardizzate verso paesi a basso costo del lavoro”. Ovvero le delocalizzazioni. In pratica la scomparsa della subfornitura di secondo livello, che negli anni novanta colpì il Mezzogiorno e, a partire dalla crisi del 2007, il centro-nord Italia.
La concorrenza mondiale spinge poi diverse imprese distrettuali ad utilizzare nuovi segmenti e strumenti: “ricerca e sviluppo, progettazione e design, innovazione, commercializzazione”, tradizionalmente sfruttate solo da imprese con una dimensione adeguata al mercato mondiale e che provoca nei sistemi produttivi locali una polarizzazione tra imprese proiettate nell’arena mondiale e piccole imprese incapaci di attrezzarsi al nuovo contesto.
In più, i vantaggi di produttività che avevano caratterizzato i i distretti industriali italiani, dati da conoscenze tacite, diffusioni di saper fare, manualità diffusa, diminuiscono fortemente a partire dagli anni novanta fino a scomparire del tutto negli ultimi anni. Signorini accenna poi al fatto che al localismo produttivo ha fatto seguito il localismo finanziario e questo connubio ha impedito il formarsi di un mercato dei capitali alternativo al canale bancario, tale per cui la restrizione creditizia iniziata a partire dalla crisi del 2007 ha finito per colpire pesantemente imprese incapaci di raccogliere fondi fuori dal circuito bancario, sia come capitale circolante, sia come capitale di rischio.
Come stanno messe ora le piccole imprese dei distretti industriali? Ecco il quadro: “la posizione delle imprese italiane all’interno delle catene globali del valore non appare particolarmente favorevole: è elevato il numero di imprese intermedie e, tra di esse, quelle in posizione più subalterna. (Tali imprese) sembrano aver intrapreso con scarsa continuità strategie di accumulazione di capitale umano e di aumento della proiezione internazionale ed è scarsa la diffusione di segnali forti di ricomposizione strutturale dell’economia italiana. La piccola dimensione, la forte incidenza dei settori tradizionali, il basso peso relativo delle aree urbane sono confermati. A livello aggregato, la crescita dimensionale delle imprese non c’è stata”. Questo lungo richiamo serve a spiegare che le vere riforme strutturali devono essere compiute a livello imprenditoriale, ma siccome a distanza di 15 anni ciò non avviene è necessario creare una nuova politica industriale centralizzata che, in accordo con i centri di ricerca pubblici, facciano nascere imprese pubbliche nei settori di tecnologia avanzata, proprio quelli che mancano in questo paese. E’ finora venuta a mancare, anche se ci sono eccezioni, ma soprattutto da parte di operatori esteri, l’aumento dimensionale della scala di produzione, che è una primaria controtendenza alla caduta del saggio di profitto, in assenza della quale, qualsiasi nuova “regola” nel mercato del lavoro o qualsiasi riduzione salariale sarebbe insufficiente e alla fine deleteria per il sistema economico, sia in termini di produttività totale dei fattori produttivi (capitale umano e innovazione, secondo Visco) sia in termini di tenuta ulteriore della domanda interna.
Questo significativo documento pone fine al mito del piccolo è bello: in trent’anni i loro cantori hanno combinato disastri immani. Il Censis e il Cnel invitavano governi e parti sociali a politiche dell’offerta localistiche e territorializzate, facendo disperdere in migliaia di micro progetti fondi altrimenti destinati ad una diversa politica industriale. Dominava la “concertazione” tra sindacati confederali e Confindustria, felici di decidere a livello locale come sfruttare le risorse europee e gli incentivi a fondo perduto, i quali, a detta di Signorini, sono stati un fallimento totale. Solo per il periodo 2006-2011 sono stati erogati 26 miliardi di incentivi a fondo perduto con 1023 interventi (62 nazionali e 961 regionali). Ecco il quadro: “ gli studi realizzati da Banca d’Italia sugli effetti delle politiche di incentivazione mostrano che i risultati sono deludenti: sostituzione intertemporale di investimenti, spiazzamento da territori limitrofi a quelli agevolati, dimensione eccessivamente ridotta di taluni progetti e altri effetti analoghi hanno concorso a ridurre fortemente l’efficacia degli incentivi”. Stiamo parlando di 5 anni, se lo rapportiamo agli ultimi 22 anni, da quando è iniziata la concertazione, con il concorso di sindacati confederali e Confindustria, sono andati dispersi centinaia di miliardi di euro, lasciando nei territori marginali decine di migliaia di capannoni abbandonati dopo vere e proprie truffe. Era la strategia del Censis (De Rita ancora pontifica su quel giornale inutile che è il Corriere della Sera, simbolo del degrado della borghesia del nord) del “bottom up”, dello sviluppo locale mediante la leva delle “parti sociali” e degli accordi di lavoro territorializzati tendenti alla deflazione salariale, alla reintroduzione delle “gabbie salariali” nel Mezzogiorno e alla precarietà (Il pacchetto Treu è del ’97..), che si contrapponeva alla strategia di pianificazione industriale centralizzata degli anni cinquanta e sessanta tramite la leva dell’intervento pubblico e delle aziende pubbliche. Ai lettori la risposta in quale periodo questo Paese ha conosciuto la crescita…
A livello istituzionale la corrente economica dei distretti industriali ha trovato una sponda istituzionale nel regionalismo e nelle identità territoriali, che hanno fatto perdere la visione d’insieme dell’industria italiana, fino a provocarne una parziale scomparsa. Troppi sociologi hanno dominato la scena, mediocri economisti li hanno accompagnati per spiegare con parole e tesi astruse un fenomeno che rappresentava il degrado produttivo del Paese a seguito del decentramento produttivo e non certo un suo pregio economico. Su cosa si reggeva realmente il mito del “piccolo è bello”? Scarsi controlli fiscali, lavoro nero, bassi salari, svalutazione competitiva e laissez faire delle istituzioni. Mercato mondiale ed euro hanno spazzato via questo modello, rimangono solo quelle medie imprese che hanno fatto, tramite investimenti, il salto tecnologico e la crescita dimensionale. Per tutti gli altri è la moria.
Gli accademici italiani hanno fatto troppi danni: a Bologna si legge che la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 45%. Bologna è stata una delle capitali degli accademici specializzati nei distretti industriali, qui è stato partorito il federalismo con la riforma del Titolo V della Costituzione da funzionari dell’apparatnich del PDS. Bersani ancora nel 2013 parlava delle piccole imprese al Parlamento…. Per non parlare dei bacini occupazionali della Puglia, dove negli anni novanta si lodavano i “distretti industriali” di produzioni a basso valore aggiunto. Troppa miopia, troppi consulenti del nulla, magari diventati “dirigenti” arricchitisi nei dipartimenti del Tesoro e nelle migliaia di uffici regionali e locali, gente che non molla e che continua a fare disastri. Nel 2014 ci ritroviamo senza una politica industriale e se qualcuno parla di riforma strutturale è solo per diminuire i salari. Bella prospettiva, vai avanti tu che a me viene da ridere, visto che a 10-12 mila medie imprese presenti sul mercato mondiale si accompagnano circa 500 mila micro imprese manifatturiere senza alcuna prospettiva di sviluppo, con la deflazione che fa il resto del lavoro sporco.
Chi ha avuto ragione in questi decenni? Non certo i governanti, non certo i sindacati confederali, men che meno Confindustria, che si è guardata bene dal fare investimenti mentre non passava giorno a dare consigli, doveri e istruzioni alla “politica”. Gli unici che hanno ragione sono quelli appartenenti al proletariato, ma non si organizzano, oppure vanno appresso ad un pifferaio magico che parla ancora di piccole imprese. Insomma, non se ne esce: è un fatto di mentalità, coscienza e analisi. Mancando questo, al proletariato non resta altro che affidarsi a pifferai, che ne decreteranno la loro definitiva e tragica marginalità nei decenni futuri. Il piccolo è bello è morto, e lotta insieme a noi: il sanfedismo è duro da sconfiggere…
da Marx XXI
I DISASTRI DELLA POLITICA ECONOMICA BASATA SULLA STRATEGIA DEL “BOTTOM UP”
Crepe nella classe dirigente italiana, con Banca d’Italia in testa. Se ne è avuta occasione il 29 marzo scorso quando Visco ha accusato l’imprenditoria italiana di non investire, di essere specializzata in produzioni a basso valore aggiunto, di non innovare e, da qui, di creare una domanda di lavoro a bassa qualificazione, aggiungendo che rapporti di lavoro più stabili favoriscono l’aumento delle competenze dei lavoratori e da qui la produttività, quella che manca da tre lustri in questo paese. Proprio su quest’arco temporale il vice Direttore Generale di Banca d’Italia Signorini si è soffermato il 3 aprile scorso in un convegno ad Ancona sui distretti industriali, con una relazione che porta il titolo “Agglomerazione, innovazione e crescita: un quindicennio di ricerca”.
Bene, come stanno messi i distretti industriali? Ebbene, i sistemi locali di produzione basati sulle piccole imprese sono stati oggetto di uno tsunami che ne ha stravolto la fisionomia: il primo è il salto tecnologico degli ultimi vent’anni, il secondo è la “crescente integrazione internazionale e l’ingresso sui mercati mondiali dei paesi emergenti, a cominciare da Cina e India”. Risultato? “Molti dei vantaggi dei distretti perdevano rilevanza. La diminuzione dei costi di trasporto rendeva economicamente conveniente lo spostamento delle lavorazioni più standardizzate verso paesi a basso costo del lavoro”. Ovvero le delocalizzazioni. In pratica la scomparsa della subfornitura di secondo livello, che negli anni novanta colpì il Mezzogiorno e, a partire dalla crisi del 2007, il centro-nord Italia. La concorrenza mondiale spinge poi diverse imprese distrettuali ad utilizzare nuovi segmenti e strumenti: “ricerca e sviluppo, progettazione e design, innovazione, commercializzazione”, tradizionalmente sfruttate solo da imprese con una dimensione adeguata al mercato mondiale e che provoca nei sistemi produttivi locali una polarizzazione tra imprese proiettate nell’arena mondiale e piccole imprese incapaci di attrezzarsi al nuovo contesto. In più, i vantaggi di produttività che avevano caratterizzato i i distretti industriali italiani, dati da conoscenze tacite, diffusioni di saper fare, manualità diffusa, diminuiscono fortemente a partire dagli anni novanta fino a scomparire del tutto negli ultimi anni. Signorini accenna poi al fatto che al localismo produttivo ha fatto seguito il localismo finanziario e questo connubio ha impedito il formarsi di un mercato dei capitali alternativo al canale bancario, tale per cui la restrizione creditizia iniziata a partire dalla crisi del 2007 ha finito per colpire pesantemente imprese incapaci di raccogliere fondi fuori dal circuito bancario, sia come capitale circolante, sia come capitale di rischio.
Come stanno messe ora le piccole imprese dei distretti industriali? Ecco il quadro: “la posizione delle imprese italiane all’interno delle catene globali del valore non appare particolarmente favorevole: è elevato il numero di imprese intermedie e, tra di esse, quelle in posizione più subalterna. (Tali imprese) sembrano aver intrapreso con scarsa continuità strategie di accumulazione di capitale umano e di aumento della proiezione internazionale ed è scarsa la diffusione di segnali forti di ricomposizione strutturale dell’economia italiana. La piccola dimensione, la forte incidenza dei settori tradizionali, il basso peso relativo delle aree urbane sono confermati. A livello aggregato, la crescita dimensionale delle imprese non c’è stata”. Questo lungo richiamo serve a spiegare che le vere riforme strutturali devono essere compiute a livello imprenditoriale, ma siccome a distanza di 15 anni ciò non avviene è necessario creare una nuova politica industriale centralizzata che, in accordo con i centri di ricerca pubblici, facciano nascere imprese pubbliche nei settori di tecnologia avanzata, proprio quelli che mancano in questo paese. E’ finora venuta a mancare, anche se ci sono eccezioni, ma soprattutto da parte di operatori esteri, l’aumento dimensionale della scala di produzione, che è una primaria controtendenza alla caduta del saggio di profitto, in assenza della quale, qualsiasi nuova “regola” nel mercato del lavoro o qualsiasi riduzione salariale sarebbe insufficiente e alla fine deleteria per il sistema economico, sia in termini di produttività totale dei fattori produttivi (capitale umano e innovazione, secondo Visco) sia in termini di tenuta ulteriore della domanda interna.
Questo significativo documento pone fine al mito del piccolo è bello: in trent’anni i loro cantori hanno combinato disastri immani. Il Censis e il Cnel invitavano governi e parti sociali a politiche dell’offerta localistiche e territorializzate, facendo disperdere in migliaia di micro progetti fondi altrimenti destinati ad una diversa politica industriale. Dominava la “concertazione” tra sindacati confederali e Confindustria, felici di decidere a livello locale come sfruttare le risorse europee e gli incentivi a fondo perduto, i quali, a detta di Signorini, sono stati un fallimento totale. Solo per il periodo 2006-2011 sono stati erogati 26 miliardi di incentivi a fondo perduto con 1023 interventi (62 nazionali e 961 regionali). Ecco il quadro: “ gli studi realizzati da Banca d’Italia sugli effetti delle politiche di incentivazione mostrano che i risultati sono deludenti: sostituzione intertemporale di investimenti, spiazzamento da territori limitrofi a quelli agevolati, dimensione eccessivamente ridotta di taluni progetti e altri effetti analoghi hanno concorso a ridurre fortemente l’efficacia degli incentivi”. Stiamo parlando di 5 anni, se lo rapportiamo agli ultimi 22 anni, da quando è iniziata la concertazione, con il concorso di sindacati confederali e Confindustria, sono andati dispersi centinaia di miliardi di euro, lasciando nei territori marginali decine di migliaia di capannoni abbandonati dopo vere e proprie truffe. Era la strategia del Censis (De Rita ancora pontifica su quel giornale inutile che è il Corriere della Sera, simbolo del degrado della borghesia del nord) del “bottom up”, dello sviluppo locale mediante la leva delle “parti sociali” e degli accordi di lavoro territorializzati tendenti alla deflazione salariale, alla reintroduzione delle “gabbie salariali” nel Mezzogiorno e alla precarietà (Il pacchetto Treu è del ’97..), che si contrapponeva alla strategia di pianificazione industriale centralizzata degli anni cinquanta e sessanta tramite la leva dell’intervento pubblico e delle aziende pubbliche. Ai lettori la risposta in quale periodo questo Paese ha conosciuto la crescita…A livello istituzionale la corrente economica dei distretti industriali ha trovato una sponda istituzionale nel regionalismo e nelle identità territoriali, che hanno fatto perdere la visione d’insieme dell’industria italiana, fino a provocarne una parziale scomparsa. Troppi sociologi hanno dominato la scena, mediocri economisti li hanno accompagnati per spiegare con parole e tesi astruse un fenomeno che rappresentava il degrado produttivo del Paese a seguito del decentramento produttivo e non certo un suo pregio economico. Su cosa si reggeva realmente il mito del “piccolo è bello”? Scarsi controlli fiscali, lavoro nero, bassi salari, svalutazione competitiva e laissez faire delle istituzioni. Mercato mondiale ed euro hanno spazzato via questo modello, rimangono solo quelle medie imprese che hanno fatto, tramite investimenti, il salto tecnologico e la crescita dimensionale. Per tutti gli altri è la moria.
Gli accademici italiani hanno fatto troppi danni: a Bologna si legge che la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 45%. Bologna è stata una delle capitali degli accademici specializzati nei distretti industriali, qui è stato partorito il federalismo con la riforma del Titolo V della Costituzione da funzionari dell’apparatnich del PDS. Bersani ancora nel 2013 parlava delle piccole imprese al Parlamento…. Per non parlare dei bacini occupazionali della Puglia, dove negli anni novanta si lodavano i “distretti industriali” di produzioni a basso valore aggiunto. Troppa miopia, troppi consulenti del nulla, magari diventati “dirigenti” arricchitisi nei dipartimenti del Tesoro e nelle migliaia di uffici regionali e locali, gente che non molla e che continua a fare disastri. Nel 2014 ci ritroviamo senza una politica industriale e se qualcuno parla di riforma strutturale è solo per diminuire i salari. Bella prospettiva, vai avanti tu che a me viene da ridere, visto che a 10-12 mila medie imprese presenti sul mercato mondiale si accompagnano circa 500 mila micro imprese manifatturiere senza alcuna prospettiva di sviluppo, con la deflazione che fa il resto del lavoro sporco.
Chi ha avuto ragione in questi decenni? Non certo i governanti, non certo i sindacati confederali, men che meno Confindustria, che si è guardata bene dal fare investimenti mentre non passava giorno a dare consigli, doveri e istruzioni alla “politica”. Gli unici che hanno ragione sono quelli appartenenti al proletariato, ma non si organizzano, oppure vanno appresso ad un pifferaio magico che parla ancora di piccole imprese. Insomma, non se ne esce: è un fatto di mentalità, coscienza e analisi. Mancando questo, al proletariato non resta altro che affidarsi a pifferai, che ne decreteranno la loro definitiva e tragica marginalità nei decenni futuri. Il piccolo è bello è morto, e lotta insieme a noi: il sanfedismo è duro da sconfiggere…
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