Dal 2008, dopo la sconfitta dell’Arcobaleno, da più parti si è espressa l’esigenza di unire i comunisti e ricostruire un partito comunista adeguato alla fase attuale della lotta contro il capitalismo e per il socialismo. Tuttavia, i comunisti hanno continuato a dividersi e a perdere posizioni tra la classe lavoratrice e nella società. Le trasformazioni che sono avvenute negli ultimi decenni sono state interpretate troppo spesso non come aspetti della riorganizzazione del capitale, ma come incentivi a liquidare il patrimonio culturale del marxismo, la centralità del conflitto capitale-lavoro e il lascito dell’esperienza storica del comunismo. Anche chi proclamava di rifarsi agli ideali e ai metodi classici in realtà ha finito per riprodurre una sempre più stanca ritualità piuttosto che la capacità di interpretare i sentimenti profondi dei lavoratori e l’evoluzione della società, di cui il movimento comunista aveva dato prova nel passato. Le sconfitte subite, compreso il dissolvimento dell’Urss e lo scioglimento del Pci non sono state metabolizzate, la politica non si è ancora adattata alle nuove circostanze, viviamo nell’epoca della estensione mondiale del mercato e della crisi generale del modo di produzione capitalistico. La sovrapproduzione assoluta di capitale e la caduta del saggio di profitto, riapparse a partire dalla crisi del ’74-’75, si sono aggravate sempre di più nonostante i vari espedienti introdotti dalla borghesia, portando a crisi sempre più ampie e profonde. L’ultima crisi, iniziata nel 2008, è ancora lungi dalla sua fine e, per intensità, può essere paragonata solo alla Grande depressione di fine Ottocento o alla Grande crisi del ’29.
Gli imperialismi statunitense e europeo hanno dato avvio dalla fine degli anni Settanta alla controffensiva neoliberista per contrastare la caduta del saggio di profitto, liquidare l’Urss e reagire al ciclo ascendente delle lotte operaie e delle lotte di liberazione dei Paesi periferici. Questa controffensiva è stata condotta anzitutto con misure di contrasto alla caduta del saggio di profitto, mediante la riduzione del salario e del welfare e le privatizzazioni dei settori strategici. Contemporaneamente, tale offensiva ha investito anche il quadro politico-istituzionale in modo funzionale alla riorganizzazione dei rapporti di classe a favore del grande capitale. “Governabilità” è la parola chiave dell’offensiva politico-ideologica, che ha condotto anche il nostro Paese ad abbracciare il modello di sistema politico anglosassone, basato su leggi elettorali maggioritarie, dominio dell’esecutivo sul parlamento e bipolarismo. In Europa occidentale l’unificazione economica e in maniera particolare quella valutaria sono state le leve strategiche per portare a termine la ristrutturazione complessiva della società in senso neoliberista. Le normative e i trattati europei, l’architettura dell’euro hanno permesso al capitale di aggirare i vincoli dei parlamenti e la resistenza dei singoli movimenti operai nazionali. L’Europa unita non è diventata affatto un polo alternativo all’imperialismo Usa. Al contrario, l’integrazione militare ed economica tra le due sponde dell’Atlantico, malgrado le rivalità, si è rafforzata mentre l’imperialismo europeo ha rialzato la testa. Gli Stati europei, Italia e Germania comprese, hanno ripreso una politica di interventismo militare all’estero e sono stati in prima fila, insieme agli Usa, nell’ingerenza nei confronti di Stati esteri, dalla Libia all’Iraq e alla Siria, dall’Africa sub sahariana all’Ucraina, mentre continuano ad essere complici dello stato di Israele e della vergognosa oppressione del popolo palestinese. L’Europa di oggi è questa e non altro.
Alcuni nodi di fondo irrisolti.
Il sistema politico maggioritario e bipolare ha condotto ad un progressivo appiattimento bipartisan verso il centro delle due principali formazioni politiche di centro-destra e centro-sinistra. Sulle questioni fondamentali (lavoro, politica estera, Europa) le differenze tra il Pd e Fi-Pdl si sono andate facendo marginali, rispecchiando lo stesso processo in atto a livello europeo tra Ppe e Pse, sfociando nei governi unitari degli ultimi anni. I comunisti sono rimasti imbrigliati dal bipolarismo, non comprendendo appieno la natura di classe del Pdl e del Pd. Mentre Berlusconi e la Lega rappresentavano la piccola e media impresa e i settori più “tradizionali” del capitale, il partito uscito dalla Bolognina, pur mantenendo una egemonia su vasti settori del mondo del lavoro sindacalizzato (in primo luogo sulla Cgil), si è progressivamente posto come punto di riferimento organico dei settori più internazionalizzati della grande impresa e della finanza. In particolare, oggi il Pd si pone come interprete della linea economica e politica dei settori di vertice del capitale europeo e Usa. Non a caso, il Pd si è dimostrato il più coerente nella applicazione dei trattati europei e nell’appoggio al governo Monti e il più allineato con la Nato e gli Usa. L’elezione a segretario di Renzi rappresenta, in continuità con il passato del suo partito, solo il momento culminante di questa più che ventennale evoluzione. Uguale incertezza si è verificata nel sindacato, dove i comunisti organizzati nei principali partiti non sono riusciti ad avere un coordinamento di linea e a dare, quindi, il necessario supporto critico alla battaglia contro la subalternità al quadro politico della direzione confederale, né tantomeno a coordinarla con i settori più lucidi del sindacalismo di base tantomeno a definire una strategia complessiva d’insediamento tra i lavoratori del XXI secolo. In questo modo, la partecipazione dei comunisti ai governi del centro-sinistra, il modo subalterno e i tempi in cui è avvenuta, non è riuscita in alcun modo nemmeno a rallentare il rapido peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori ed ha contribuito, al contrario, a eroderne progressivamente il radicamento sociale.
La costruzione del Prc all’inizio degli anni ’90 doveva permettere la ricostruzione di una presenza comunista in Italia, impedendo la dispersione del patrimonio del Pci e della nuova sinistra. Quel percorso è incompiuto e bisogna comunque tutti farsene carico, superando divisioni in sedicesimo che riflettono ancora quelle storiche (degli anni ’60 e’70) che vengono affrontate senza strategia o nel migliore dei casi con le strategie dei tempi della guerra fredda.
L’esaurimento del ruolo del Pdci e il che fare
Dopo 16 anni, per il PdCI è il momento di bilanci definitivi. La scissione del Pdci dal Prc nel 1998, per responsabilità reciproca dei principali gruppi dirigenti di allora, nacque dalla difficoltà di trovare una sintesi avanzata e adeguata alle sfide dei cambiamenti della fase storica. Ma le conseguenze di tale esito sono state progressivamente sempre più negative per i comunisti su tutti i piani e sono causa importante delle difficoltà in cui ci dibattiamo. Insieme, infatti, i comunisti avrebbero potuto opporsi al tritacarne del bipolarismo e varcare le soglie della crisi economica con la forza e la credibilità necessaria. Negli ultimi anni, senza sottacere le evidenti resistenze del Prc all’unità, il Pdci ha continuato a limitare il suo orizzonte al centro-sinistra. Dopo aver favorito nel febbraio 2011 una ulteriore scissione dal Prc, si è ostinato a ricercare alle ultime elezioni politiche quell’accordo che il Pd palesemente non voleva concedere, partecipando anche alle primarie del 2012 sciogliendo la Federazione della Sinistra, nonostante il 12 maggio precedente una grande manifestazione militante a Roma indicasse la via autonoma ed unitaria da percorrere.
Poi nell’ultimo anno si è completamente persa la bussola politica. Anche alle elezioni europee le ragioni di esclusione del Pdci dalla lista per un’altra Europa sono tanto esterne quanto interne alle difficoltà del partito. Inizialmente il Pdci ha posto problemi di legittimità della candidatura Tsipras, contribuendo col proprio immobilismo accanto agli evidenti ritardi del Prc, a perdere ogni capacità di influenza nel determinare la natura della lista. Quindi è passato a legittimare le richieste di Sel sul profilo politico della lista, arrivando a sostenere la non definizione dell’appartenenza della lista al Gue che invece, come si vede in questi giorni, e’ il nodo politico su cui si sta avvitando il partito di Vendola e che riflette la questione del rapporto con il Pd. Infine, solo a seguito della pur grave esclusione dei propri candidati, il Pdci ha avanzato fortissime riserve contro di essa, senza nessuna razionalità politica. Per l’ennesima volta si sono seguiti dei percorsi irriconoscibili ai più, sono state cambiate direzioni più volte in pochi mesi, sono stati scossi e si sono persi gruppi di militanti, si sono scoraggiati gli altri, si è condannato il partito alla morte mentre si progettava una fantomatica associazione per il lavoro, poi fallita anch’essa.
Nel ’98 il PdCI da quando è sorto sostanzialmente è stato la costola sinistra del centro-sinistra. Si è così ritrovato superato dal processo storico, in particolare dalla fine del centro-sinistra classico e del contesto che ne aveva favorito la nascita. Infatti con il tentativo fallito del 2006-2008 si chiude la fase del centro-sinistra classico e si apre una nuova fase dove lo spazio nel nuovo centrosinistra è residuale e porta i comunisti e la sinistra di classe a diventare, dentro il nuovo quadro, una costola del PD, nato nell’ottobre del 2007. Incapace di adattarsi al nuovo contesto di crisi economica e politica, l’azione del Pdci è stata spinta da mere logiche di sopravvivenza. Il progressivo dissolvimento del Pdci in termini organizzativi e militanti a livello centrale e territoriale è la conseguenza della mancanza di un vero profilo politico. Il congresso del 2013 poteva essere l’ultima occasione per cercare di darsi un profilo più definito e portare avanti il ricongiungimento con il Prc. All’interno del partito l’esigenza di un vero rinnovamento ha dimostrato di essere consistente. Tuttavia, il gruppo dirigente, uscito dal congresso in sostanziale continuità con il passato, non ha colto il segnale. L’ambiguo successivo tentativo di mescolare una politica ai limiti dell’opportunismo, di ricerca di alleanze all’interno dello schematismo del centro-sinistra, con una ultima sterzata identitaria e settaria sganciata dai reali rapporti politici, ha immobilizzato il partito lasciando il Pdci in balia dell’iniziativa altrui, condannandolo alla irrilevanza sulla scena politica italiana. Una irrilevanza che, infine, ha trovato inequivocabile conferma nella incapacità a partecipare, per la prima volta, alla competizione elettorale.
L’esaurimento del Pdci pone il problema del che fare a molti comunisti, sia iscritti sia fuoriusciti dal partito nel corso degli ultimi anni. Ma il problema va oltre i militanti o gli ex militanti del Pdci. Oggi, in Italia la frammentazione dei comunisti ha raggiunto limiti senza precedenti, a causa della proliferazione di partitini e gruppi organizzati a livello locale o poco più. Noi non intendiamo aggiungere frammentazione a frammentazione. Riteniamo, invece, che la ricomposizione dei comunisti debba essere condotta contemporaneamente alla costruzione di un fronte di sinistra che raccolga le forze politiche, associative e sociali non comuniste ma disponibili a lottare contro il capitalismo e il neoliberismo e migliorare i rapporti di forza delle classi subalterne. Un percorso che deve fare i conti con la realtà. Le elezioni europee fotografano bene il quadro e con esso bisogna fare i conti.
Il dato saliente del risultato elettorale in Italia è l’astensionismo, un dato – è bene sottolineare -riferibile in primo luogo ai settori popolari, se non organicamente proletari. Il dato dell’astensionismo rende i risultati delle singole forze politiche estremamente sovradimensionato percentualmente rispetto al dato assoluto. E questo da una parte distorce e dall’altro da un risultato che cambia in maniera significativa la geografia politica del Paese. Grillo catalizza, solo parzialmente, il malessere. Il Pd, che supera anche la percezione che ci sia qualche erede diretto della Bolognina nel suo gruppo dirigente principale, diventa il partito della “stabilizzazione” del quadro politico, rendendo accessorio, ad oggi, parte del centro-destra. In questo contesto la lista Tsipras raccoglie un risultato percentuale dignitoso, superando lo scoglio del quorum. Lo spazio per i comunisti e per un fronte della sinistra c’è, purché si collochino in alternativa al quadro di consolidamento che attorno al Pd si va definendo.
I comunisti e la sinistra oggi, l’autonomia di classe e l’attualità del socialismo
Il capitale non è riuscito a definire alcun nuovo ordine mondiale. La realtà è contrassegnata dal caos diffuso e dalla tendenza alla guerra. Nei Paesi periferici si assiste allo sfaldamento degli Stati e al proliferare delle guerre per procura dell’imperialismo occidentale. Nei paesi sviluppati il patto sociale, stabilitosi nel dopoguerra tra classe salariata e capitale, è ormai saltato, producendo di nuovo disoccupazione di massa e la progressiva indisponibilità dei Servizi pubblici universalistici, appartenenti alla fase storica precedente. La crisi economica diventa quindi crisi sociale, politica, ambientale e morale, in una parola crisi del modo di produzione. La diffusa insoddisfazione porta alla crisi del bipolarismo, come prova l’emergere di terze forze in tutta Europa, che spesso sono egemonizzate da movimenti di estrema destra o piccolo borghesi come il Movimento cinque stelle. Eppure, proprio la crisi generale del capitale conferma le tesi di Marx e rende di nuovo storicamente attuale per il XXI secolo il socialismo, restituendo e ampliando lo spazio politico per un partito comunista e alle forze di progresso. Bisogna rifuggire sia dal liquidatorio superamento della forma partito in una sinistra indistinta, sia all’opposto dall’autocelebrazione settaria di sentirsi unica vera rappresentanza comunista. E’ necessario sintonizzare il lavoro di rilancio con quanto avviene nel contesto europeo a partire dalla valorizzazione del Gue, che va preservato come spazio unitario nell’ottica di una rinnovata dialettica tra i comunisti e il resto della sinistra a livello continentale, ma che sappia guardare fortemente oltre la sola Europa, a partire dal chiaro ed inequivocabile sostegno a tutti i movimenti politici che lottano realmente per il superamento del capitalismo, come ad esempio nell’esperienza dell’ultimo decennio in America latina e osservando con grande attenzione le dinamiche geopolitiche che la crisi ha aperto in cui assume un ruolo centrale la dialettica tra Paesi BRICS e l’imperialismo Euro Atlantico. Possiamo, però, sfruttare tale spazio soltanto se recuperiamo la politica come tattica inserita in un percorso strategico di trasformazione dei rapporti di produzione. Ma per farlo dobbiamo recuperare e praticare l’autonomia di classe. Solo sulla base di una tale autonomia è possibile elaborare un nuovo impianto strategico, lavorare in modo coordinato nel sindacato e costruire le alleanze e il fronte necessari a ricostruire le premesse per tornare a vincere.
Nel dimetterci da tutti gli incarichi ricoperti nel PdCI, vogliamo rendere pubblica questa nostra riflessione all’iniziativa convocata il giorno 14 giugno alle ore 17 presso i Magazzini Popolari Casal Bertone, via Baldassare Orero 61.
Primi firmatari: Daniele Andreozzi (Comitato Federale PdCI Roma), Angelo Angioli (Commissione Garanzia PdCI Roma), Antonio Baldo (Comitato Federale Pdci Roma – Direttivo Nazionale Filcams), Norberto Barbieri (Direttivo Fiom Cgil COL), Paolo Battista (già segretario PdCI Salerno), Barbara Borzi (segreteria PdCI Roma – Direttivo Fiom Lazio), Sandra Bruno (segreteria PdCI Roma), Sergio Cardinali (Comitato Federale PdCI Roma), Roberto Catracchia (Commissione Nazionale di Garanzia e segreteria regionale PdCI Lazio), Gabriella Cedra (Comitato Federale PdCI Roma), Sandra Cerusico (già direzione nazionale PdCI), Annamaria Costanzo (Comitato Centrale PdCI), Eleonora D’Antoni (Comitato Federale PdCI Roma), Dante De Angelis (ferroviere, RLS Ferrovie), Fabio De Mattia (coordinatore reg. Lazio Nidil Cgil), Fabrizio De Sanctis (Direzione Nazionale PdCI e segretario federazione Roma), Cristina Di Gaetano (precaria della scuola), Gaspare Di Stefano (Segretario Pdci Enna), Annamaria Fasoli (Comitato Centrale Fiom), Fulvio (segreteria PdCI Roma), Michela Granatiero (RSA SLC CGIL Postecom Poste italiane), David Insaidi (Comitato Federale PdCI Roma), Lina Lamonica (coordinatrice nazionale DAP Minister. FP CGIL), Leone Lazzara (Comitato Centrale PdCI e segreteria regionale PdCI Lazio), Giulia Loche (Esecutivo Naz. FGCI e Comitato Centrale PdCI), Riccardo Lorenzi (Comitato Federale PdCI Roma), Gianni Lucidi (Comitato Federale PdCI Roma), Gloria Malaspina (Comitato Centrale PdCI – Resp. contratt. sociale e territ. INCA Nazionale), Adriano Manna (Comitato Federale PdCI Roma), Rodolfo Meacci (segreteria Pdci Sez. Ardeatina), Domenico Moro (Direzione nazionale PdCI – segreteria regionale PdCI Lazio), Pietropaolo Moroncelli (segreteria PdCI Roma), Fabio Nobile (Direzione Nazionale PdCI), Adriano Ottaviani (Comitato Federale PdCI Roma), Stefano Palermo (Comitato Federale PdCI Roma), Marco Piccinelli (Comitato Federale PdCI Roma), Alessio Puddinu (Delegato FILT CGIL Groundcare), Marco Rosati (Presidente Comitato Federale PdCI Roma), Antonino Ruffa (Comitato Federale PdCI Roma), Mario Ruggiano (Comitato Federale PdCI Roma), Giorgio Rossetti (segreteria RSA Fisac CGIL Mps Roma), Giorgio Salerno (invitato permanente CF Roma), Beatrice Taraborelli (Comitato Federale PdCI Roma), Stefano Valentini (segreteria PdCI Roma), Daniela Vignato (Dir. Naz. Nidil Cgil), Tommaso Tomanelli (già portavoce Federazione PdCI di Bergamo), Edvid Vorano (Filcams-Cgil, Camera del Lavoro Roma Centro)
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Daniele
Conclusione: ECHISSENEFREGA! E’ da troppo tempo che questi micro partitini fanno cazzate ed intossicano con le loro cazzate chi VERAMENTE è comunista, E’ ORA CHE SE NE VADANO VIA UNA VOLTA PER TUTTE!