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L’Europa in crisi e il mistero della competitività

Piano piano, ci stanno arrivando in tanti. A cosa ci riferiamo? Al fatto che l’Unione Europea, così come è stata costruita e istituzionalizzata, non funziona. O meglio: non realizza ciò che promette. Anzi, produce esattamente l’opposto.

Questo lavoro, tratto da Sbilanciamoci, giunge a conclusioni che condividiamo da anni pur partendo da basi profondamente diverse. La conclusione è che andrebbero semmai costruite “più Europe”, troncando quella silenziosa riscrittura della divisione internazionale del lavoro (qui chiamata “specializzazioni produttive”) secondo le filiere delle multinazionali più forti e gli interessi dei paesi in surplus. Per la precisione: “Un’intensificazione degli scambi fra i paesi in deficit sembra la sola politica capace di ottenere un riequilibrio intra-europeo persistente e sostenibile dei flussi commerciali senza dover ricorrere a una compressione della domanda”. Non volete chiamarla “un’Alba euromediterranea”? Va bene, non fa niente. L’importante è che ci siamo capiti…

Altro che “pericoli di ritorno al nazionalismo” evocati – quasi sempre in modo trivialmente strumentale – persino da “antagonisti estremi” e sedicenti “internazionalisti à la carte“… Qui la questione delle “molte velocità” che caratterizzano le asimmetrie continentali – ingigantite dai vincoli di bilancio, ma inscritte nel che cosa materialmente si produce in un paese e nell’intera area – sono individuate con chiarezza, a partire da un capitale multinazionale (soprattutto “tedesco”, anche se la nazionalità conta sempre meno) che può giocare simultaneamente su ben tre distinti “mercati del lavoro”. Quello del “centro propriamente detto” (ovvero le impese produttive la cui qualità costruttiva non soffre nessuna concorrenza, per ora) che si può permettere salari elevati e addirittura in aumento; quello di un “centro solo geografico”, in realtà fatto di produzioni e professionalità generiche, a basso salario e alto tasso di precarietà (“le vittime di Hartz” e Schroeder, nonché di Prodi e Sacconi); e quello dei paesi “dell’Europa periferica”, sostanzialmente dell’est, in cui vengono tuttora delocalizzate produzioni a basso valore aggiunto che più risentono, per questo, della “competitività di prezzo”.

Se vogliamo insomma individuare “i nostri” anche all’interno degli altri paesi, dobbiamo smetterla di ragionare per categorie astratte e chinarci un attimo di più ad osservare le faglie tettoniche che separano e sembrano allontanare, proporzionalmente al “successo competitivo” delle imprese di “appartenenza” (non dimenticate mai che nelle imprese più avanzate della Germania il sindacato ha dei rappresentanti nei consigli di amministrazione), figure sociali tutte ascrivibili – sociologicamente, ovvero come puro in sé – al proletariato industriale. Ma che, come altra volte nella storia reale dell’Europa novecentesca – hanno finito per contrapporsi allineandosi al “proprio capitalista”. Sulla base dell’interesse immediato, non della coscienza politico-sindacale.

L’importante è capire che “la nazione”, oggi, conta assai poco (ma non ancora nulla, là dove il surplus consente di mantenere tuttora livelli di welfare “nordeuropei”). Conta di più – e sarà un problema anche per il capitale, quello di costruire un “patriottismo aziendale” anziché nazionale; guardate quanta fatica fa Marchionne, nonostante i suoi spot “happy” – il grado di sviluppo tecnologico dell’impresa. Ovvero la sua capacità di tenersi al riparo dalla concorrenza globale. Quella che mangia la “produzione generica”, e quindi anche i lavoratori che sfrutta intensivamente ma senza grande guadagno. Sul pianeta, infatti, ci sarà sempre qualcuno più sfruttabile di te, in termini di prezzo. Magari nella tua stessa città.

Le vie della ricomposizione sono complicate, ma anche obbligate e faticose. Non passano infatti per una sola “pratica”…

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Come dimostra la Germania, lo sviluppo economico dei paesi dell’Eurozona dipende dalla specializzazione della produzione

Come scrive Mariana Mazzucato nel suo libro Lo Stato imprenditore, la cosiddetta ‘economia dell’offerta’ lanciata negli anni ’80, indirizzata a ridurre le tasse sui profitti per rilanciare gli investimenti, ha avuto scarsi effetti sugli investimenti stessi e quindi sulla crescita, ma effetti importanti sulla distribuzione del reddito. Si potrebbe facilmente estendere questa conclusione anche alle riforme del mercato del lavoro attuate in Italia negli ultimi 15-20 anni. Come ha documentato Maurizio Zenezini in un’analisi molto dettagliata della relazione fra queste riforme e la crescita (Economia e società regionale, 2, 2013), mentre l’Italia—attesta l’OCSE—ha sperimentato negli ultimi 15 anni la più forte deregolamentazione del mercato del lavoro della maggior parte dei paesi OCSE, l’economia ha smesso di crescere ancor prima del collasso del 2009 e le riforme recenti, “pur considerate imponenti dagli stessi responsabili della politica economica” sembrano incapaci di rivitalizzare l’economia, così che le previsioni di crescita sono state continuamente riviste al ribasso. Ad un’analisi retrospettiva, gli effetti di queste riforme sulla crescita appaiono nulli nel breve periodo e modesti, nel migliore dei casi, nel lungo periodo. Contemporaneamente, le retribuzioni contrattuali reali per l’intera economia italiana sono rimaste ferme fra il 1993 e il 2011. In quest’ultimo anno, valevano il 77% della media dei paesi OCSE, mentre erano pari all’85% della media dodici anni prima. Non c’è bisogno di ricordare qui i disastrosi dati sulla caduta, in Italia, dei livelli di occupazione e sulla crescente incidenza del lavoro precario.

È ormai diventato un luogo comune il riconoscimento, più o meno cauto, del danno che politiche sincronizzate di austerità fiscale hanno inflitto all’intera costruzione europea, e tutti convengono ormai nel proclamare solennemente che, “dopo il rigore, è giunto il momento della crescita”. Siamo tuttavia ben lontani da una sconfessione della filosofia economica basata su quella stessa ‘economia dell’offerta’ ricordata sopra, che ha sorretto la costruzione iniziale dell’Unione Monetaria Europea e giustificato successivamente un sovraccarico di disastrosi vincoli e prescrizioni. Continua a prevalere infatti l’idea che la sostenibilità dell’euro si fondi su un riaggiustamento dei salari e dei prezzi relativi, da ottenersi soprattutto attraverso riduzioni nei paesi in deficit— ma i più audaci si spingono a proporre aumenti dei prezzi e dei salari nei paesi in surplus— o mediante una combinazione di entrambi.

A ben vedere, questa diagnosi si basa su un giudizio di perdita di competitività basato sull’andamento di un unico indicatore (1), il rapporto fra il costo unitario del lavoro rispetto a quelli di un gruppo di paesi concorrenti, (definito CLUP relativo, o tasso di cambio reale in termini di costo unitario del lavoro). La crescita di questo rapporto indicherebbe perdita complessiva di competitività di prezzo del paese, e quindi fornirebbe le basi per giustificare misure generali di aggiustamento al ribasso dei salari (oltre che a prediche sulla necessità di aumentare la produttività). Tuttavia, diagnosi e terapia sono tutt’altro che scontate poiché questa interpretazione si basa su occhiali interpretativi fabbricati nel secolo scorso, in epoca precedente la globalizzazione. Essi non tengono conto né dell’enorme aumento della frammentazione internazionale della produzione, che ridimensiona, in modo diverso fra paesi e fra settori, l’incidenza sui prezzi del costo del lavoro interno, né del forte aumento della diversificazione nella qualità dei prodotti e quindi dell’importanza della concorrenza non di prezzo, che consente prezzi più elevati rispetto ai costi, in particolare per i prodotti non standard dei paesi più ricchi. Già nel 1998, il Bollettino mensile della Deutsche Bundesbank metteva in guardia da interpretazioni dell’andamento dei CLUP relativi che non tenessero conto della variazione dell’incidenza dei beni importati sulla formazione dei costi, e quindi dei prezzi. Con un ritardo culturale di circa sedici anni, si sta facendo strada lentamente anche nelle analisi della competitività dell’economia italiana la consapevolezza che l’importanza dell’indicatore CLUP relativo deve essere ridimensionata poiché per l’Italia indicatori di prezzo relativo dei prodotti non mostrano affatto il peggioramento riscontrato nei CLUP relativi (si veda Bayoumi et al. 2011, Accetturo, Bassanetti et al., 2013, Giordano e Zollino 2013, Tiffin, 2014). Si parla ormai apertamente, fra ricercatori appartenenti al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca d’Italia, di “mistero” degli indicatori di competitività dell’Italia, di “puzzle” della competitività italiana, ecc. Sarebbe tuttavia assai arduo trovare queste espressioni nelle dichiarazioni degli esponenti di queste istituzioni che rivestono un ruolo politico: una sorta di ambigua, dannosa doppia verità.

Si deve dedurre da queste osservazioni che sarebbe sufficiente una significativa espansione della domanda interna tedesca per far ripartire l’economia dei paesi periferici? Per quanto auspicabile, una soluzione di questo genere (peraltro improbabile dal punto di vista politico) a nostro parere non andrebbe alla radice della crisi e quindi alla lunga non sarebbe risolutiva. In uno scritto pubblicato nel 2013 (2), siamo partiti dall’idea che i persistenti disavanzi di parte corrente dei paesi della periferia europea (Spagna, Portogallo, Italia, Grecia) non possono essere spiegati dagli indicatori standard di competitività di prezzo: essi vanno esaminati alla luce dei cambiamenti del modello economico del paese-centro, la Germania. Il sistema industriale tedesco ha prima promosso e poi abilmente utilizzato l’allargamento a Est dell’Unione europea riorganizzandosi attorno a due direttrici: riforme del mercato del lavoro all’interno e decentramento di fasi della produzione (offshoring) a Est. L’integrazione di un mercato del lavoro interno duale (diviso fra lavoratori specializzati delle industrie esportatrici e lavoratori generici, soprattutto dei servizi, questi ultimi maggiormente penalizzati dalle riforme Hartz), con un terzo mercato del lavoro, esterno, creato dalle operazioni di offshoring, ha contribuito a fornire beni intermedi a bassi salari e prezzi. In Germania, una crescita notevole della diseguaglianza salariale e della quota di lavoratori a bassi salari è stata accompagnata da una compressione della domanda interna per consumi e investimenti. Queste modificazioni hanno comportato, fra l’altro, una riduzione degli effetti propulsivi esercitati dalla domanda tedesca sul reddito dei paesi della periferia sud. In questi ultimi, le scelte scarsamente innovative dei governi e la bassa crescita dell’area euro non hanno aiutato a diversificare la struttura produttiva e quindi gli sbocchi commerciali, al contrario di quanto è successo invece ai paesi dell’Est. Più che ai costi unitari, lo sviluppo economico di un paese è dunque associato a un processo di specializzazione e diversificazione, capace di allargare e integrare la sua base produttiva. Ma l’esperienza di questo decennio ha mostrato che il meccanismo di mercato, unito ai vincoli di Maastricht, tende ad accentuare, piuttosto che a ridurre l’asimmetria dei saldi all’interno dell’Eurozona.

Un’intensificazione degli scambi fra i paesi in deficit sembra la sola politica capace di ottenere un riequilibrio intra-europeo persistente e sostenibile dei flussi commerciali senza dover ricorrere a una compressione della domanda. Allo scopo di specializzare e diversificare la base produttiva in questa direzione, sono necessarie politiche industriali e di commercializzazione a supporto della sostituzione delle importazioni, dell’upgrading e dell’espansione delle esportazioni, nonché per la ricerca di aree di complementarietà con le strutture produttive dei paesi dell’Europa meridionale —e anche con paesi non appartenenti all’UE, come quelli del Mediterraneo— capaci di assicurare un aumento del grado di multilateralità degli scambi commerciali.

 

(1) Anche l’altro indicatore cruciale dell’’economia dell’offerta’, la ‘produttività totale dei fattori’, essendo costruito come media ponderata delle quote del reddito distribuito, è una forma arbitraria e non trasparente di contabilità della distribuzione del reddito, e quindi non è utilizzabile per descrivere fenomeni appartenenti alla sfera della produzione (tecnologia, organizzazione, relazioni sociali). Della sfera della produzione e dell’innovazione (che, a differenza della cosiddetta ‘economia dell’offerta’ includono elementi di domanda e di offerta) si occupano, invece, le politiche industriali.

(2) A. Simonazzi, A. Ginzburg, G. Nocella, Economic relations between Germany and Southern Europe, Cambridge Journal of Economics, May 2013.

da www.sbilanciamoci.info

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