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“Per fortuna sono proteste senza progetto”. Parola di Aspen

Uno studio alquanto originale, commissionato da uno dei think tank che “orientano le leadership” del mondo capitalistico. Parliamo dell’Aspen Institute, finanziato ampiamente da fondazioni come la Carnegie Corporation, la Rockefeller Brothers Fund e la Ford Foundation, attraverso quote di iscrizione a seminari e donazioni individuali. Tra i suoi affiliati ci sono leader della politica, dell’economia e intellettuali. La sezione italiana è presiduta da Giulio Tremonti, ma raccoglie imprenditori ed esponenti del centro destra come del centrosinistra, senza star lì troppo a questionare. In fondo, uno degli scopi dell’Aspen è “la creazione di un terreno comune di comprensione approfondita in uno scenario non ideologizzato”.

Originale anche lo studioso incaricato di redigerlo: Ivan Krastev, bulgaro 50enne, presidente del “Centro di strategie liberali” di Sofia, un tipico esponente di quella “nuova classe dirigente” dell’Est europeo cresciuta a forza di commissioni internazionali, liberismo e “formazione liberale delle leadership”.

Perché è interessante una cosa prodotta da questo insieme? Perché fornisce lo sguardo dei “padoni del globo” nel trattare le rivolte degli ultimi anni e la diffusa sensazione globale che ci si trovi davanti alla fine di un certo assetto del mondo. Una fine che però non si riesce a vedere, a connotare, a disegnare. Per farlo – ne è consapevole anche l’autore – occorrerebbe una concezione del mondo, una visione d’insieme capace di superare l’attuale modello di vita e produzione. Ma proprio questa capacità di visione è stata cancellata dal panorama delle idee. L’unica “ideologia” che conquista cuore e menti, di fronte al feticcio meccanico del capitalismo disincantato attuale, resta tristemente la religione. Ma le rivolte nascono dalla crisi economica, dal peggioramento delle condizioni di vita, dalla confusa sensazione che “non ci sia futuro”, e tantomeno “miglioramento”, ma solo altri infiniti giorni come questo; l’ideologia arriva dopo, come “spiegazione” e promessa. Siamo arrivati, come mondo, ad un punto limite. E nessuno sa dove sia costruibile il passaggio epocale ad un altro modello di vita.

All’Aspen non interessa ovviamente “superare” il capitalismo. La posizione “ideologica” è dunque saldamente conservatrice. Ma questo non ha mai impedito ai padroni del mondo di guardare in faccia ai problemi reali per trovare anche ciò che serve alla conservazione. E bisogna dire che – depurato da qualche invenzione pro domo sua (ad esempio quando parla di Ucraina o del ruolo di George Soros) – lo sguardo di Krastev è capace di cogliere i momenti rilevanti comuni a fenomeni sociali manifestatisi in paesi molto diversi tra loro. La necessità che hanno anche i padroni del mondo è quella di capire precisamente le trasformazioni in atto, di capire lo “spirito del tempo”, per poter adottare le scelte più opportune.

Diciamo che questa è anche la differenza fondamentale tra i piani alti del capitalismo globale e la cosiddetta “sinistra antagonista” – o soltanto “radicale” – di casa nostra. I capitalisti indagano a fondo la realtà; i tanti e diversi “compagni di strada” che ci troviamo a fianco sbuffano contrariati a ogni accenno analitico o teorico che non sia di pronta beva. La parola “progetto” li spaventa come l’ignoto…

Facciamo un’analogia facile da capire, decisamente interclassista. Una multinazionale della distribuzione che voglia aprire nuovi esercizi in una metropoli si fa preparare degli studi sulle dinamiche dei consumi, sui flussi di traffico, sui costi immobiliari delle aree, sulla risposta dei consumatori alle campagne pubblicitarie, ecc. Su questa base programma oppure no l’investimento, “convince” gli assessori e i sindaci a concedere le aree, a infrastrutturarle (strade, fognature, ecc), disegna il nuovo esercizio con qualche variazione al format-base del marchio, procede alle assunzioni (precarie, ci mancherebbe), ecc. Apre sapendo che i flussi di vendita oscilleranno tra un certo minimo e un certo massimo, che dovrà scontare un periodo di “radicamento territoriale”, farsi conoscere, sradicare la concorrenza dei piccoli bottegai “storici” inchiodati a economie di scala ridicole, ecc, e in capo a dieci anni deciderà se andare avanti in quel posto o cambiare aria. Un business condotto su solide basi scientifiche, insomma.

Un aspirante commerciante a conduzione familiare, al contrario, guarda quanti soldi ha da investire e disegna la sua avventura sulla base di alcune sue convinzioni personali maturate nel tempo, scegliendo molto “a naso” la zona, il negozio, il ventaglio di merci da vendere… e spera che il gioco riesca. Scienza zero

Questo commerciante di “aspirazioni soggettive” somiglia molto alla sinistra italiana attuale.

 

Bene. Il bulgaro Krastev analizza i movimenti di rivolta come da un osservatorio satellitare, disinteressandosi dei dettagli che confondono le idee invece di chiarirle. Procede in modo incosapevolmente hegelo-marxista:

“Le proteste differivano, ma gli slogan erano incredibilmente simili: ai quattro angoli del globo i manifestanti si scagliavano contro la corruzione delle élite, le crescenti diseguaglianze economiche, la mancanza di solidarietà e di giustizia sociale e il disprezzo per la dignità umana. ”

Questo il fenomeno da studiare. Con qualche apprensione, viste le convinzioni dell’autore e gli interessi del committente. Ma la prima constatazione è già miele per le orecchie del capitale.

“i manifestanti, a differenza dei loro padri rivoluzionari, non mirano a un rovesciamento violento dell’ordine costituito”.

Respiro di sollievo. Ci si può sistemare meglio sulla poltrona e andare avanti nella ricognizione dei “segni caratteristici” della protesta contemporanea. La seconda constatazione è ancora più rassicurante: questa nuova generazione di manifestanti non ci pensa proprio a “cambiare il sistema”. Non possiede le conoscenze di base, le categorie, la cultura per poter pensare che questo “sistema” sia rovesciabile; non è insomma in grado di immaginare un altro – ma realistico – modo di vivere. Soprattutto, è ai margini del pensiero politico, non dentro.

“Si tratta di una rivoluzione senza ideologia e senza scopi definiti: in mancanza di alternative politiche, si risolve in uno scoppio di indignazione morale”.

Una febbre passeggera – anche se se ne può morire o marcire in galera – che non spaventa affatto il potere. Esiste certamente un problema di gestione della protesta, e non mancano gli esempi anche opposti. Ma la qualifica di “democrazia” attiene ormai più alle modalità di spegnimento delle proteste (“vaselina” o manganellate) che non alla natura dei sistemi politici. Krastev pare profondamente consapevole del fatto che la gestione del mondo è cosa troppo complessa per lasciarla decidere a opinioni labili, poco consapevoli, altamente disinformate. Insomma, a libere elezioni. Ed è perfettamente a suo agio nell’affontare in modo ironico il mantra dei “social network” come mezzo d’elezione delle nuove proteste planetarie:

“I nuovi movimenti si concepiscono come reti, nella convinzione che queste possano avere la meglio sulla gerarchia. L’onnipotente rete è l’arma organizzativa d’elezione, allo stesso modo in cui il piccolo ma disciplinato partito rivoluzionario era l’arma d’elezione dei comunisti”.

Le differenze ci sono, eccome. E qui scatta l’ironia crudele di chi è seduto in una lussuosa suite nel cielo del capitale nei confronti delle formiche formicolanti sulla superficie o nelle viscere della terra. Uno che sa benissimo che “la rete” ha dei gestori, dei proprietari, dei sorveglianti. Insomma: che è proprietà privata in mano al capitale, non uno strumento neutroa disposizione di chiunque.

“I governi hanno appreso in fretta a esercitare il controllo e la manipolazione nell’universo digitale. “Caro utente, sei stato schedato come partecipante a una massiccia turbativa dell’ordine pubblico”: questo il messaggio che i manifestanti ucraini si sono ritrovati sul cellulare a metà gennaio, nel momento esatto in cui la legislazione antidimostrazioni veniva approvata dal parlamento. La stessa tecnologia che aveva portato la gente in strada l’ammoniva di tornarsene a casa”.

Sull’Ucraina di Yanukovich naturalmente c’è licenza di infierire, ma gli attivisti di Occupy Wall Street – per esempio – sono stati trattati con forse più irritante sufficienza dall’establishment Usa: il pacchetto dei profili Facebook dei “sensibilizzati al movimento” è stato valutato 25 milioni di dollari. E qualche multinazionale delle vendite online o della pubblicità mirata – oltre che le agenzie di intelligence degli Stati Uniti – se l’è certamente comprato.

Negli Stati Uniti o in Spagna, gli esecutivi hanno prontamente riconosciuto la legittimità delle preoccupazioni espresse dai manifestanti e hanno dato mostra di ascoltare la piazza. Le proteste non hanno inciso sulle politiche dei governi; piuttosto, hanno cambiato il modo in cui questi comunicano ciò che fanno.

È abbastanza chiaro? Un governo furbo non spiana le proteste popolari a manganellate, ma le “rintontonisce de bucie”. O, come si dice adesso, “cambia la comunicazione”.

Il confronto continuo tra il lontano passato iperpolitico (“comunista”, si ripete spesso) e l’impoliticità esplicita delle “nuove proteste” (proprio la tanto bistrattata ”antipolitica”) mira a benedire il quasi-conflitto presente come molto più “potabile” della guerra rivoluzionaria novecentesca. E dire che i giudizi sono talmente tranchant che – se fossimo tra i partecipanti ad un movimento così – potremmo sentirci molto offesi.

“Oggi, il sistema non interessa quasi più a nessuno. La rivoluzione attuale non è fatta di lettori; gli odierni studenti radicali si preoccupano solo di come essi stessi vivono il sistema, non della sua natura e dei meccanismi che lo governano. Non pensando in termini di gruppi sociali, questi ragazzi hanno un’esperienza comune, ma mancano di un’identità collettiva”.

E il passaggio dall’”esperienza” all’”identità” è un’operazione che richiede l’intervento di una cultura politica (una volta ce n’erano molte, oggi sontanto una: quella di chi comanda). Insomma, a “esprimere la soggettività” son buoni tutti, non c’è bisogno di sapere come funziona la macchina che ti stritola, quali sono gli interessi sociali che ti muovono dal profondo anche come individuo. Era qui il segreto del successo del ToniNegri-pensiero, e il teorico dell’Aspen non si fa sfuggire l’occasione per indicare come punto di collasso quello che “soggettivamente” è ancora oggi vissuto, in qualche frangia di movimento, come punto di forza. È la contraddizione per come viene vista dal nemico, che in effetti l’ha presente chiarissima.

Riflettendo sulla logica politica delle proteste di São Paulo dell’estate scorsa, il ricercatore brasiliano Pablo Ortellado ha osservato che in tutto il Brasile i manifestanti protestavano sulla scorta di due messaggi simultanei e tra loro contraddittori: “Il governo non ci rappresenta” e “Vogliamo servizi pubblici migliori”. Era una protesta di consumatori radicali, più che di rivoluzionari utopici.

Filosoficamente il problema è semplice: chi vive completamente dentro un sistema lo sente come “stato naturale”, non ne studia i meccanismi e quindi – quando la condizione di vita diventa intollerabile – è portato a ritenere che ci sia una “ingiustizia” (dei ladri, una “casta”, ecc) che fa funzionare in modo distorto o inefficace un meccanismo altrimenti “buono”. Pensiero pre-politico, appunto; moralismo naif.

“I manifestanti sono individui esasperati. Amano stare insieme e combattere insieme, ma non hanno un progetto collettivo. Diffidando delle istituzioni, non sono interessati a prendere il potere; sono una miscela tra un desiderio genuino di comunità e un incoercibile individualismo”.

Si possono combattere le istituzioni dominanti avendo in testa altre istituzioni per sostituirle (e allora c’è un progetto politico, che va esplicitato), oppure sognare una mondo “senza istituzioni”, che naturalmente non ci potrà mai essere (se vuoi un “servizio pubblico”, ci dovrà sempre essere un “soggetto” responsabile di disegnarlo e gestirlo; un’istituzione, insomma).

Il termine giusto sarebbe in effetti un altro: questi manifestanti si comportano come “consumatori” che pretendono di avere una buona merce in cambio dei loro soldi e dei loro sacrifici. Ma il “consumatore” è solo per definizione, sperso tra gli scaffali del supermercato. Solo e smemorato, visto che nella maggior parte dei casi è anche – o è stato o sarà – un “produttore”. Il quale, invece, è condannato alla “cooperazione” sul lavoro. E nella lotta, collettiva per “durature ragioni oggettive”, non per indignazioni morali transitorie.

L’arretramento politico, scientifico, progettuale testimoniato dai “nuovi movimenti” è tale che l’analista Aspen affonda il coltello nella piaga, con autentica gioia:

le proteste del xxi secolo somigliano, per alcuni versi, a quelle medioevali. A quel tempo le persone non scendevano in piazza con l’ambizione di rovesciare il re o di sostituirlo con un altro a loro più gradito; manifestavano per obbligare il sovrano a fare qualcosa in loro favore, o per impedirgli di far loro del male.

L’ombra del Pope Gapon si affaccia per un attimo sulla scena… Sapete, quel monaco che nel 1905 guidò una folla di disperati sotto il Palazzo d’Inverno per chiedere allo Zar di impietosirsi, di non ascoltare più i “cattivi consiglieri”. Gente disperata, senza cognizione del “sistema”, aggrappata a un immaginario (esisteva anche allora, non vi stupite; lo spacciavano durante le messe…) che consentiva di “darsi una spiegazione” di come funzionava il mondo. Falsa, naturalmente, ma “persuasiva”…

Stadio pre-politico, agitazioni medievali, assenza di progetto. Ovvero di una visione della società e della sua necessaria – e solo in questa misura anche possibile – evoluzione. Quindi rivendicazioni spot, non parti organiche di un dispositivo conflittuale per il potere.

non chiedete ai dimostranti cosa vogliono: essi sanno solo ciò che non vogliono. La loro etica del rigetto può essere radicale e totale, come il rifiuto in blocco del capitalismo globale che ha connotato il movimento Occupy Wall Street; oppure modesta e localistica, come le proteste contro la nuova stazione ferroviaria di Stoccarda. Ma il principio è lo stesso: abdicazione a qualsiasi scelta e attivismo politico confinato unicamente al rifiuto. Le proteste possono riuscire o fallire, ma ciò che ne definisce il profilo politico è un generalizzato “no”. Per essere gridato, questo “no” non ha più bisogno di leader o istituzioni: bastano telefonini e social network.

Sembra che stia parlando del movimento di Grillo, ma le stesse considerazioni si potrebbero adattare a quasi tutte le “nuove forme” di partecipazione/rifiuto della sfera pubblica. Il “puro negativo” – il “no sistematico” – è la manifestazione dell’opposizione impotente, priva di visione globale alternativa, ripiegata sul proprio ombelico. Il potere ne ride apertamente, sapendo benissimo come aggirarla e manipolarla (e anche quando mandarti un sms per dirti “falla finita!”).

Tanto più che questo “rifiuto senza alternative” viene davvero a fagiolo, proprio nel periodo in cui la “democrazia liberale” viene silenziosamente messa in cantina dai “liberisti economici”.

l’ascesa della politica antagonista è un esito naturale della svolta oligarchica prodottasi nella politica democratica.

Nella nuova era democratica la politica elettorale non domina più la scena: le elezioni perdono il loro legame con il futuro… Oggi le elezioni sono un giudizio sul passato, non una scommessa sul lungo termine. L’elettore odierno svolge essenzialmente lo stesso ruolo del leggendario Pavel Pichugin, il popolare buttafuori dei più esclusivi night club russi che ha il potere supremo di stabilire chi far entrare e chi no; ma non ha alcuna voce in capitolo sul tipo di musica suonata nel club.

Ci sarebbe materia per far riflettere a lungo gli “elettoralisti sempre” nostrani, quelli che vivono le scadenze elettorali come l’unica dimensione – e sbocco – dell’attività politica. Non perché partecipare alle elezioni sia sempre sbagliato o una “dimostrazione di complicità” (veniamo da una cultura politica per cui si può benissimo fare le elezioni a febbraio e fare la Rivoluzione in ottobre…); ma se l’urna e le relative percentuali rappresentano l’alfa e l’omega della tua esistenza, sei davvero contento di farti schiaffeggiare da Pichugin!

Oltretutto, ti vieni a trovare nella scomodissima posizione di chi è fottuto dal potere e schifato dal “popolo”. Lo sa bene il teorico dell’Aspen:

Per molti aspetti, le odierne proteste di massa sono atti in cerca di concetti, pratica senza teoria. Sono l’espressione più plateale della convinzione diffusa che le élite non governino nell’interesse del popolo e che l’elettorato ha perso il controllo sugli eletti.

Masse senza progetto e “cambiatori del mondo” senza masse; impotenti per mancanza di idee o di “risorse umane”. Che potrebbe volere di più, il potere? Una sola cosa: la certezza che quell’incomposto fermentare di proteste che sta attraversando il pianeta non abbia alcuna possibilità di trasformarsi in pericolo per la propria esistenza. E la trova rispolverando addirittura – ma in senso opposto – la constatazione marxiana su come funziona la “levatrice della Storia”:

In Ucraina, ad esempio, è stato il tentativo del governo di reprimere con la violenza le manifestazioni a portare alla ribalta formazioni reazionarie come Pravyj Sektor o le Forze di autodifesa di Majdan. Il successo della lotta armata è la tomba della rivoluzione senza leader: la lotta, al pari del voto, fa sciogliere queste nuove proteste come neve al sole.

Non vi fate deviare dal fatto che l’esempio scelto è l’Ucraina – la cui evoluzione Krastev vede con molto favore – e concentratevi sulla sequenza di affermazioni fin qui fatte: proteste impolitiche, strumenti organizzativi affidati alla Rete, assenza di identità collettiva e progetto politico, legami reciproci labili… Una contestazione con queste caratteristiche non ha possibilità di mettere in crisi il potere. Basta un cerino di violenza – controllato da una mente politica (posizionata nel satellite iperuranio della finanza globale, per cui conto Krastev scrive) – per “far sciogliere come neve al sole” piazze anche più di grandi di Tahrir. Al di là delle buone intenzioni o dell’estrazione sociale di chi le riempie.

Gira che ti rigira, il punto essenziale resta quello del progetto, della visione globale, della critica scientifica e non (solo) morale del capitalismo. L’unica cosa di cui abbia timore questo potere è il sempre possibile riaffacciarsi del “comunismo”, il diavolo di San Pietroburgo, il soffio liberatore degli ani ’60 e ’70, dal Vietnam al ’68, dal ’77 a L’Avana.

Krastev alla fine diventa esplicito:

“O si guarda qualcosa che non si vede, o si giura di aver visto qualcosa non c’è”. Il metodo del detective Fell funziona bene per svelare il mistero dell’ondata di proteste. Queste non hanno segnato il ritorno della rivoluzione: le proteste, come le elezioni, servono piuttosto a tenere il più lontano possibile la rivoluzione e le sue promesse di un futuro radicalmente diverso. Il “laureato senza futuro” non è il nuovo proletario: le rivoluzioni necessitano di un’ideologia e l’attuale ondata di proteste non è riuscita a offrire una visione alternativa del futuro. Niente ideologia, niente rivoluzione.

Confonde “ideologia” e “visione del mondo”, ma in questo caso lo perdoniamo volentieri. Il sollievo che dimostra alla fine della sua disamina delle proteste degli ultimi cinque anni è tutto e interamente politico:

il termine di paragone più calzante per questa esplosione di energia politica cui stiamo assistendo sono le rivoluzioni del 1848. Oggi come allora, siamo a un punto di svolta. Ma il mondo non riesce a svoltare.

Saremo capaci di riaccendere il cervello e misurarci con questa scala di problemi? O ci acconteremo di fiancheggiare speranzosi una protesta obbligata ma senza futuro?

 

L’analisi completa di Ivan Krastev:

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