La lunga, “strategica”, intervista concessa da Mario Draghi a IlSole24Ore di sabato illustra una visione della costruzione dell’Unione Europea in clamoroso contrasto con la “disunione” evidente di fronte al problema concreto dei profughi.
Si potrebbe obiettare che si tratta di due cose molto diverse – la circolazione monetaria e la circolazione delle persone – e in qualche misura lo sono. Ma una unione sovranazionale è condannata a gestire secondo un piano per l’appunto unitario molte circolazioni diverse ma interconnesse, indivisibili se non al prezzo di mettere in discussione la coesione delle parti fondamentali dell’edificio.
Ogni interconnesione segue però un ordine. Dunque proviamo a fare ordine. Draghi, nell’intervista, non ha avanzato nuove ipotesi strategiche, ma riallineato con grande precisione i tasselli di una politica che non è solo monetaria (l’area di stretta competenza della Bce), ma investe – o deriva da – una prospettiva “federalista” in cui le residue barriere nazionali, sebbene ancora esistenti, non già travalicate definitivamente nella logica complessiva del progetto.
Esemplare, da questo punto di vista, il legame che illustra tra politica monetaria e le ben note “riforme strutturali”:
Si completano a vicenda: per fare le riforme strutturali bisogna pagare un prezzo ora per avere un beneficio domani; i tassi tassi di interesse sostanzialmente attenuano il prezzo che bisogna pagare oggi.
Mercato del lavoro, pareggio di bilancio, riforma del sistema giudiziario, riduzione della sfera e della spesa pubblica, ecc, sono tutte “riforme” concepite per demolire il modello sociale europeo sostituendolo con un altro – di stampo pesantemente ordoliberista – che conferisce all’impresa e alla finanza multinazionale la priorità assoluta. La politica monetaria della Bce, in questa lunghissima fase di crisi, rappresenta dunque il lubrificante indispensabile per far sì che la torsione autoritaria sulle singole formazioni sociali non produca reazioni ingovernabili; ovvero conflitti sociali che richiederebbero quegli strumenti di mediazione (welfare, in senso lato) il cui accantonamento è invece il primo obiettivo delle “riforme”.
Il progetto – in astratto – appare davvero ben congegnato. Purtroppo, per Draghi e l’establishment dell’Unione, risulta relativamente facile disegnare entro un cerchio di decisori molto ristretto le “regole” di funzionamento finanziario e/o monetario. I singoli stati, specie quelli in difficoltà, restano con troppo pochi strumenti in mano per poter resistere – non diciamo “opporsi” – alla pressione dei mercati e della Troika. Facile dunque schiantarli e obbligarli ad adottare “riforme” che hanno pesanti ripercussioni sociali, ma “attenuate” dalle politiche monetarie “espansive” elaborate dalla Bce. Misure che dovrebbero diventare a breve di dimensioni anche maggiori, alla ricerca della mitica inflazione ottimale e del sostegno alla crescita economica.
Del resto non ci sono al momento, sul mercato politico, visioni strategiche alternative che abbiano anche le gambe sociali (dimensioni numeriche) per far marciare in un’altra direzione l’intera baracca unitaria o pezzi consistenti di essa.
Tutto sarebbe insomma sotto controllo se le destabilizzazioni prodotte, intenzionalmente o meno, all’esterno dell’Unione non si riversassero invece all’interno sotto forma di barconi strapieni e lunghe colonne di esseri umani in fuga dalla guerra e dalla fame. O meglio, se la complessità sociale fosse sottoponibile alle stesse regole dinamiche della moneta o della finanza multinazionale.
Le migrazioni “bibliche” di questi anni investono formazioni sociali stressate da una crisi lunghissima e dalle politiche di austerità. E in ogni caso qualsiasi processo di integrazione richiede tempi di metabolizzazione lunghi almeno una generazione. Lo abbiamo visto, qui in Italia, con le migrazioni interne degli anni ’50 e ’60, in cui “i meridionali” che si vedevano inizialmente rifiutare persino l’ingresso in alcuni locali si sono a mano a mano identificati come “nordici” (anche con esempi molto sgradevoli forniti da alcuni Esposito o Merola).
E i sistemi politici nazionali – formalmente ancora depositari di frammenti residui di “sovranità” – recepiscono le tensioni trasformandole in occasioni di autolegittimazione a governare nonostante abbiano ormai perso le “leve di comando” sul terreno economico, monetario, fiscale. Sistemi che, insomma, non possono più raccogliere un certo ventaglio di richieste sociali (filtrate attraverso i “corpi intermedi”, come partiti e sindacati) e trasformarle in decisioni politico-legislative “di coesione”.
Il “populismo di destra”, particolarmente evidente in forme estreme nell’Est europeo e in certe aree delle regioni più ricche, è la risposta di sistemi economicamente impotenti contro cui si scarica però una domanda sociale impastata di paure, a loro volta ingigantite dalla generale insicurezza sul futuro (è il lato buio di precarietà e flessibilità universali). È la risposta che prova a mantenere un sistema di sfruttamento che non riesce più a promettere “più benessere per tutti”, scaricandone però i costi, e le tensioni, contro gli ultimi della fila.
Non stiamo qui facendo del volgare moralismo. E’ lo spazio della “politica” a essersi ridotto a ben poche cose (diritti civili, gestione o rifiuto dell’accoglienza, ecc). Il nazionalismo razzista è l’unica risposta che possa provare a tenere insieme capitalismo e “coesione territoriale”; ossia le diseguaglianze individuali crescenti sul piano economico, patrimoniale, reddituale, e un’”identità” collettiva. Ovviamente infame.
I governi nazionali che si tengono in piedi con simili puntelli, però, determinano tensioni al limite della rottura nell’edificio comunitario. Ed è su questo terreno scivoloso che anche le leadership più potenti – la Merkel, ovvero la Germania – stentano a trovare e imporre soluzioni efficaci, adattandosi a mettere una serie di cerotti su piaghe ormai purulente.
Quel che è stato relativamente facile sul piano finanziario-monetario, insomma, si rivela qui quasi impossibile. I tempi istantanei della finanza sono incompatibili con l’evoluzione della specie. Una “legge fisica” che naturalmente non vale soltanto per l’Europa, ma che qui si mostra sotto questa forma.
Questo è il quadro in cui siamo obbligati a muoverci. Ed è chiaro che non basta praticare o predicare conflitto sociale, o peggio ancora illudersi che basti escogitare qualcosa “qui e ora” per restare a galla e rovesciare di segno (un giorno, forse…) la tendenza.
L’indicazione della “rottura dell’Unione Europea” si accompagna alla costruzione di un blocco sociale esplicitamente anticapitalista, di dimensioni sovranazionali, costituente una “nuova fondazione del politico” che si lascia alle spalle ogni illusione di “ri-costruire” strumenti di organizzazione e rappresentanza ormai spappolati. L’ottimo intervento di Guido Lutrario dà già molte indicazioni di lavoro e riflessione.
Lo si può chiamare “populismo di sinistra”? Certo sarà etichettato anche in questo modo, ma non è più tempo di farsi paralizzare dalle paure o dalla terminologia.
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