“Io vivo nell’epoca dopo Cristo, tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa“.
Chissà a che Cristo si riferiva Sergio Marchionne alla vigilia dell’accordo sullo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco. Forse a quei poveri Cristi dei suoi operai, a cui presto avrebbe inflitto la metrica Ergo/Uas, i 18 turni, il “salto della mensa” … o forse al contratto collettivo nazionale, crocefisso sui cancelli del Giambattista Vico.
Chiunque fosse l’agnello sacrificale, è con questa boutade da novello evangelista che nel giugno 2010 l’AD Fiat ratifica la sua assoluta indifferenza nei confronti della intera storia delle relazioni industriali in Italia. Una storia di cui l’accordo separato rappresenta un tassello di una pesante svolta involutiva, di un cambio di fase anche rispetto alle pessime logiche concertative1 che avevano contrassegnato, a fasi alterne, il connubio fra sindacati, governo e padroni nel ventennio precedente.
Nel 2010, infatti, non c’è più nulla da concertare: l’azienda ordina e il sindacato obbedisce, chi dissente è fuori. È questo, in sintesi, il senso della così detta “clausola di responsabilità”, un elemento inedito nella storia della contrattazione, introdotto per la prima volta dall’accordo separato di Pomigliano. Ovviamente la “responsabilità” in questione non è riferita alla Fiat, che non è tenuta a rispettare un bel nulla … e non potrebbe essere altrimenti visto che, in cambio della flessibilità totale, la Fiat agli operai del Vico nulla concede, se non la promessa di non chiudere baracca.
Si tratta invece di una clausola sanzionatoria per le organizzazioni sindacali – o anche singoli delegati – che dovessero “rendere inesigibili le condizioni concordate e i conseguenti diritti o l’esercizio dei poteri riconosciuti all’Azienda”. È un sostanziale divieto di lotta a cui Fim, Uil e Fismic acconsentono, impegnandosi ad astenersi da ogni forma di contestazione del nuovo regime di fabbrica. Ma non basta.
La Fiat non si accontenta infatti di un sindacato imbelle e rinunciatario. Esso deve anche ergersi attivamente a guardiano e censore degli operai non allineati, contrastando l’emergere di “comportamenti individuali e/o collettivi dei lavoratori idonei a violare le clausole ovvero a rendere inesigibili i diritti o l’esercizio dei poteri riconosciuti all’Azienda”. Qualora il sindacato non si dimostrasse efficace nello svolgimento dell’infame compito potrebbe subire tagli nei permessi e nei contributi sindacali. Come rabbonire gli operai riottosi è poi un problema suo: dissuasione bonaria? Delazione ai capi ?
Di fatto, la complicità da parte di Fim, Uilm e Fismic, in genere ottenuta dalla Fiat per puro amore, con l’accordo di Pomigliano diventa obbligatoria, una funzione formalizzata la cui contropartita consiste nel mantenimento dell’agibilità sindacale come graziosa concessione dall’alto.
Ma se il controllo sindacale non dovesse bastare? Se la gravosità dei nuovi carichi di lavoro, gli orari interminabili, o l’estendersi dell’arbitrio dei capi dovessero risultare talmente insopportabili da generare spontaneamente una reazione operaia ? Anche a questa eventualità l’accordo separato pone rimedio, con l’integrazione di tutte le sue clausole all’interno del contratto di lavoro individuale di ogni dipendente. Di conseguenza qualsiasi comportamento dei singoli operai anche vagamente ostruzionistico nei confronti, per es. di uno spostamento arbitrario di mansione o dell’ennesimo salto della mensa, diventa motivo di sanzione disciplinare fino al licenziamento.
In base all’accordo, gli operai di Pomigliano non solo dovranno lavorare senza respiro, senza riposo, socialità e nutrimento, ma anche (e soprattutto) senza difesa, visto che ogni forma di lotta potrà essere considerata “ostruzionistica”. Resteranno inermi di fronte al potere industriale: anche l’esercizio individuale e collettivo del diritto di sciopero (tutelato formalmente dalla Costituzione Repubblicana) diviene di fatto inesigibile.
Il diritto del lavoro viene leso così fin nella sua suprema fonte. Ma, come è noto, anche il diritto e la sua interpretazione sono il prodotto storico di rapporti di forza.
E la forza non manca ad una Fiat ormai affrancata dalla dimensione nazionale, capace di distribuire globalmente le produzioni, di concederle o negarle ai vari stabilimenti sparsi per il pianeta in maniera premiale o punitiva, ricattandoli tutti. Una forza che in Italia si ritrova inoltre spalleggiata da numerosi alleati, anche fra quelle organizzazioni politiche e sindacali che, in pura teoria, avrebbero dovuto porle un freno. Del resto, ogni passaggio da un “prima” a un dopo” Cristo necessita di Giuda.
Sul piano politico il plauso a Marchionne è bipartisan. Oltre che sullo scontato appoggio di Sacconi – in quegli anni alla testa del ministero del lavoro – e dell’intero governo Berlusconi quater, l’AD può contare su una nutrita tifoseria all’interno del PD, a partire dai sabaudi Fassino2 (“sta passando l’ ultimo treno per salvare Pomigliano e il sindacato deve rendersene conto… nessuno può sottrarsi alle proprie responsabilità”) e Chiamparino (“non capisco come il sindacato non possa cogliere l’occasione che viene offerta”). Seguono Franceschini, che invita il partito ad “accogliere la sfida del cambiamento che ha lanciato Marchionne” e Pietro Ichino (allora senatore PD) che plaude alla nuova Fiat di Pomigliano paragonandola in meglio alla Camorra3. Non c’è che dire, un bel confronto fra imprese leader dell’imprenditoria del sud !
Sul piano sindacale, l’accordo di Pomigliano è preceduto da mesi e mesi di un intenso lavorio di Cisl e Uil che ne costruiscono nel dettaglio le premesse giuridiche. Se osservate complessivamente, le scelte di queste organizzazioni – operate su più tavoli e con diversi interlocutori – sembrano seguire un progetto coerente, lucido e lineare, finalizzato alla distruzione del CCNL ed alla ratifica del monopolio della rappresentanza da parte dei “sindacati complici”.
Va in questo senso l’accordo dell’aprile 2009 con Confindustria e Governo sulla possibilità di derogare ai CCNL tramite i contratti aziendali4, così come la successiva disdetta da parte di Fim e Uilm del contratto collettivo dei metalmeccanici e l’apertura con Federmeccanica di una nuova trattativa separata, finalizzata ad emendarlo in peggio.
Per tutto il 2009 Cisl, Uil e le loro federazioni del settore metalmeccanico preparano la strada su cui Marchionne potrà correre senza inciampare nei paletti del contratto collettivo nazionale. Ma non solo: la sequela degli accordi separati sembra anticipare quella che sarà, da lì a poco, l’espulsione del sindacato di Landini dalla rappresentanza del Giambattista Vico e dell’intero Gruppo Fiat.
A Pomigliano la Fiom nega la firma, dimostrando che la sottomissione sindacale non è unanime, e questo a Marchionne non può bastare: il suo progetto per il Giambattista Vico richiede infatti l’obbedienza assoluta. Gli occorre dunque una delegittimazione dei dissenzienti che vada a colpirli nella loro qualità di rappresentanti dei lavoratori, meglio se impartita direttamente dal popolo dei rappresentati. A questo fine nuovamente si prestano Fim e Uilm, con l’indizione di un referendum sull’accordo che, nelle loro intenzioni, dovrebbe mettere nell’angolo il loro principale competitor sul mercato della rappresentanza e validare la loro politica sindacale con un’investitura dal basso.
Il referendum viene fissato per il 22/23 giugno 2010, pochi giorni dopo la firma dell’accordo, per rendere più difficile qualsiasi reazione. Il quesito rivolto agli operai suona più o meno così: preferite tornarvene a casa per la chiusura della fabbrica o lavorare come schiavi ? Uno stupro dello strumento democratico.
Fim e Uilm confidano sul fatto che al Vico, piuttosto che la fame, sceglieranno le catene, e in effetti si prevede un plebiscito a favore dell’accordo, anche grazie al pessimo clima che si è creato tutt’intorno. Oltre ai già citati amici di Marchionne di governo e opposizione, preme per il si quasi tutta l’informazione, le istituzioni di Pomigliano, la stessa CGIL della Campania invita esplicitamente ad andare a votare a favore, mentre dalla segreteria CGIL Epifani non sconfessa il referendum perché “è importante che i lavoratori siano coinvolti”.
Anche la Fiom, in realtà, teme di venir travolta dal risultato. Per questo non si espone fino in fondo per il no, chiamandosi fuori dalla battaglia referendaria sulla base dell’illegittimità della consultazione. Una posizione molto politically correct, perché nemmeno il consenso dei lavoratori può mettere in dubbio diritti indisponibili, costituzionalmente tutelati, quali il diritto di sciopero o quello alla dignità e alla salute. Ma una posizione decisamente poco pratica, perché di fatto lascia campo libero all’azienda e ai suoi accoliti.
Per fortuna non tutti si ritirano sull’Aventino. Nei giorni che precedono il referendum lo Slai Cobas e l’intero sindacalismo di base si giocano il tutto per tutto, assieme a delegati e iscritti Fiom del Vico, che sanno bene, se vince il si, quale futuro li attende.
Il futuro così descritto da Anna, un’operaia del reparto confino di Nola, in una lettera al figlio piccolo: “Cucciolo mio, le sole cose che raddoppieranno saranno gli utili nei conti FIAT e il carico di lavoro di noi poveri operai… e per me raddoppieranno le possibilità di ammalarmi per colpa di turni massacranti e postazioni di lavoro sempre più pesanti… Sarò assente da casa per tutti i giorni della settimana e in quelle poche ore che sarò presente sarò così stanca e così stressata che non avrò nemmeno la forza di abbracciarti”.
Dietro i cancelli lo Slai organizza il controllo delle operazioni di voto, fuori accorrono al presidio anche l’Usb, i Cobas, la Cub, le delegazioni provenienti da Mirafiori, Termoli, Cassino, dal movimento, dai circoli del PRC e perfino dal popolo viola. Tutti consapevoli che l’impatto dell’accordo non rimarrà confinato dietro le porte del Giambattista Vico, ma si ripercuoterà su tutto il gruppo Fiat, fino a configurarsi come un attacco alla classe nel suo insieme. La posta in gioco è alta. Per Pomigliano comincia il giorno più lungo. (Continua)
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