1. L’obiettivo principale dei comunisti è da sempre il rovesciamento della società capitalistica. Questo traguardo è perseguito in stretta relazione con tutte le lotte che possono essere utilizzate per il raggiungimento degli obiettivi e degli interessi immediati della classe operaia e delle grandi masse popolari; ciò significa che i comunisti appoggiano ovunque ogni movimento rivoluzionario che si batte per cambiare le condizioni sociali e politiche esistenti e lottano per il socialismo, la lunga fase di transizione necessaria per superare il capitalismo e per arrivare al comunismo. Occorre, peraltro, rovesciare la concezione che da qualche decennio ha egemonizzato gran parte dell’opinione pubblica internazionale, frutto avvelenato della “fabbrica del falso”, secondo cui il comunismo sarebbe una forma di dittatura e di potere fondato sul terrore, equiparabile addirittura al nazismo. Al contrario, i comunisti vogliono costruire una società fondata sull’uguaglianza, nella quale sia bandito lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dove “il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”.
L’esistenza e l’organizzazione dei comunisti sono determinanti per le forze democratiche e di sinistra per difendere e ampliare le conquiste del mondo del lavoro e gli spazi di democrazia nel sistema borghese. Sulla base di questa finalità i comunisti stabiliscono la strategia e la tattica migliori per portare avanti i loro obiettivi. E’ evidente che la debolezza – o in alcuni casi la non esistenza – dei comunisti rende fragili le forze democratiche, al di là della loro forza elettorale, e le pone in condizione di subalternità, fino a farle diventare talvolta l’espressione degli stessi interessi della borghesia dominante in una determinata epoca.
2. Nell’attuale situazione mondiale i comunisti sono in difficoltà e vivono una realtà molto complessa e contraddittoria. La fine dell’Unione Sovietica, la scomparsa dei paesi del “socialismo realizzato” nell’Est europeo, i problemi del socialismo a Cuba, la fine ingloriosa di molti partiti comunisti in Occidente, rappresentano in maniera inequivocabile uno stato di crisi e impongono a tutti i comunisti un radicale ripensamento di tutta la storia del movimento comunista. In questo quadro, tuttavia, va sottolineata l’importanza e l’originalità dell’esperienza cinese, che in una fase così difficile e drammatica a livello mondiale, rimane all’interno di un processo di transizione socialista dagli esiti tuttora incerti. La sconfitta e la fine dell’Unione Sovietica dopo i tragici avvenimenti dell’estate del 1991 è un fatto di portata storica che coinvolge i comunisti in modo particolare, ma interessa il mondo intero dato che da quel momento la situazione internazionale si è modificata in peggio e il rischio di una terza guerra mondiale è sempre più grande. Da questo punto di vista è particolarmente importante e convincente la tesi di Hobsbawm, il quale sottolinea che l’esistenza dell’Unione Sovietica costringeva gli Stati Uniti e l’intero Occidente a dare il meglio di sé per impedire che grandi masse fossero egemonizzate dai partiti comunisti e di sinistra; per questo la fase vissuta dalle classi lavoratrici dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla crisi petrolifera degli anni Settanta, definita da Hobsbawm, l’“età dell’oro” del Novecento, segnata dall’affermazione del Welfare state, è stata la migliore della loro storia. L’equilibrio che il mondo ha vissuto, seppure basato “sul terrore”, sulla deterrenza delle armi atomiche, ha avuto aspetti indubbiamente positivi. Questa condizione è stata messa violentemente in discussione con un attacco ultraconservatore nel corso della prima presidenza Reagan (1980) e con l’azione nefasta della signora Thatcher, con cui si sono poste le premesse per l’odierno radicale attacco della borghesia finanziaria internazionale teso alla totale cancellazione del welfare e al ritorno alle condizioni esistenti prima della Seconda Guerra Mondiale.
3. Ripensare, quindi, la storia dell’URSS, dalla rivoluzione d’ottobre al 1991, è essenziale sia per capire come siamo arrivati all’attuale situazione internazionale, sia per operare una riflessione sulle cause che hanno portato alla sconfitta del movimento comunista alla fine del Novecento. Al fine di tale ripensamento riteniamo fondamentale la riflessione critica sull’esperienza sovietica formulata dai comunisti cinesi negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso; in particolare, crediamo sia da ritenersi interessante la riflessione maoista sulle contraddizioni irrisolte del sistema sovietico (Mao tse tung: “I dieci grandi rapporti”, “Note su Stalin”): rapporto città-campagna, industria pesante-industria leggera, partito-masse, struttura-sovrastruttura, distinzione tra le contraddizioni in seno al popolo e quelle fra il popolo e i suoi nemici, funzione dell’ideologia e nuove generazioni. Una riflessione critica che tuttavia non negava, ma al contrario assumeva come un patrimonio essenziale del movimento operaio e comunista internazionale la prima esperienza rivoluzionaria di costruzione di un una società socialista che aveva segnato la storia dell’Urss da Lenin fino al secondo dopoguerra. Perché se è vero che bisogna prendere atto della sconfitta storica, è anche vero che le nostre critiche, a partire dagli anni Sessanta, sono sempre state critiche “di sinistra” all’URSS: esse miravano infatti a mettere in evidenza ciò che non funzionava nella transizione socialista e non certo a cancellare l’intera esperienza, proprio in una fase che vedeva alcuni componenti della stessa “nuova sinistra” procedere ad una sostanziale liquidazione di quella esperienza, salvo poi scoprire che le posizioni dalle quali muovevano erano, nel migliore dei casi, liberali!
Del resto, la stessa tragica rottura tra Unione Sovietica e Cina all’inizio degli anni ’60 segnalava le difficoltà e le contraddizioni del movimento comunista internazionale in una fase della storia mondiale che pure poneva di nuovo all’ordine del giorno il tema della lotta per il socialismo in Europa e nel mondo intero. Si pensi alla dura critica dei comunisti cinesi al Partito comunista italiano, formulata in due importanti opuscoli: ”Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi” e “Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi”. Due scritti nei quali, sia pure in termini sintetici e in qualche parte con una impostazione dottrinaria, i comunisti cinesi coglievano alcuni limiti e contraddizioni della strategia e della tattica del PCI, ponendo con forza il tema della transizione al socialismo, contestando ai comunisti italiani di porre il tema degli obiettivi intermedi in termini che offuscavano il fine strategico della rottura rivoluzionaria.
In realtà la crisi del PCI risaliva alla metà degli anni Cinquanta quando, a seguito della fine del “centrismo” e del maturare della svolta del “centro-sinistra”, non fu più possibile per i comunisti il perseguimento della vecchia strategia “frontista”. A tale svolta, il PCI giunse peraltro impreparato e anche fortemente indebolito sul piano politico e ideologico dalla liquidazione togliattiana, “gestita” però da Amendola, di Secchia e della “sinistra” interna del Partito. Una liquidazione che segnava il venir meno del nucleo dirigente rappresentato da Togliatti, Longo, Secchia, intorno al quale era stato costruito il partito nel corso degli anni ’40 e ’50, durante la lotta armata contro i tedeschi, e poi nella lunga fase della lotta per la Repubblica e per la costruzione di una democrazia di nuovo tipo, “progressiva”. Di qui le difficoltà e le contraddizioni anche gravi che avrebbero scandito la sua azione politica negli anni successivi alla svolta del “centro-sinistra”, nonostante il rilancio sul piano politico e non solo teorico del tema della transizione al socialismo nello stesso VIII Congresso del ’56 e il tentativo di Luigi Longo, durante il periodo della sua segreteria, di legare il partito alle domande di cambiamento e di trasformazione rivoluzionaria della società che venivano dall’impetuoso movimento delle nuove generazioni degli anni ’60, non solo in Italia ma in tutto il mondo.
La sostanziale involuzione ideologica e non solo politica del PCI a partire dagli anni ’60, ovvero il graduale imporsi all’interno dei suoi gruppi dirigenti di una concezione sostanzialmente riformistica e parlamentaristica dell’azione politica e del rapporto con le masse, quello che Lenin definisce “cretinismo parlamentare”, sarebbe stata anche figlia della condizione di isolamento e di sostanziale impasse maturata proprio dopo la scelta del PSI di rompere l’unità della sinistra italiana e del movimento operaio e la conseguente crisi della strategia della “via italiana al socialismo”. La stessa “nuova sinistra” non è stata esente dai vizi del parlamentarismo, nonostante le sue astratte professioni di fede rivoluzionaria. Di qui l’incapacità-impossibilità di sbloccare il “caso italiano” (fallimento del “compromesso storico”, governo dell’astensione, uccisione di Moro, sconfitta alla FIAT, morte di Berlinguer).
Se è giusto, quindi, parlare dell’importanza della storia e della funzione del PCI, per non rischiare che questa discussione risulti vuota esercitazione e pura petizione di principio, dobbiamo anche dire quali forti limiti hanno contraddistinto la storia di questo partito. Infatti, se è vero che esso oltre ad avere tanti militanti che volevano mantenere l’identità comunista, vi erano anche forti gruppi che lavoravano per portarlo sul fronte opposto. E proprio “la componente di destra” alla fine ha conquistato l’egemonia nel partito innestando nel suo corpo molte delle posizioni che erano state portate avanti dal craxismo, tipica espressione della parte maggioritaria del socialismo italiano: anticomunista e punta di lancia di alcune svolte reazionarie e conservatrici del nostro Paese. Ed è così che dal PCI revisionista, passando attraverso il PdS e i DS dopo la tragica segreteria di Occhetto, siamo arrivati a Veltroni e Renzi, il quale è contemporaneamente – secondo la peggiore tradizione politica – segretario di partito e presidente del Consiglio dei ministri: detiene un potere enorme, come quello che hanno avuto nel recente passato Craxi e Berlusconi. (La categoria di “cesarismo regressivo” elaborata da Gramsci ci pare, quindi, molto utile per capire il ruolo odierno del PD nell’ambito del sistema borghese e le forme di dominio autoritario e personale che caratterizzano non soltanto la dialettica politica al suo interno, ma anche i suoi rapporti con le istituzioni e con i settori dominanti del grande capitale monopolistico). Non per caso, oggi il PD è la principale espressione del potere del capitalismo finanziario del nostro Paese e non avrebbe senso parlare del “glorioso PCI” senza indicare nel PD la forza politica che bisogna sconfiggere per salvare la democrazia e le conquiste sociali delle masse popolari.
4. L’azione del governo è tesa a cancellare definitivamente “l’anomalia italiana”: è un attacco gigantesco allo stato sociale e alle istituzioni democratiche svolto in continuità con la strategia di Craxi e di Berlusconi. Renzi si muove nel solco della “grande riforma” craxiana e “della discesa in campo” dell’uomo di Arcore; ma, a differenza dei suoi “illustri” predecessori, il suo tentativo ha maggiori probabilità di riuscita per il diverso momento storico-sociale che l’Italia sta attraversando. Alle corte: per la debolezza del movimento dei lavoratori, dei partiti, dei movimenti di lotta e delle istituzioni. La “guerra” di Renzi è totale ed è combattuta utilizzando sapidamente alcune idee-forza, strumenti funzionali all’affermazione di una Weltanschauung organicamente borghese, così come suggerito a Renzi soprattutto da Galli della Loggia dalle colonne del “Corriere della Sera”. L’attuale presidente del consiglio si è impadronito del tema dirompente dei giovani, dunque del “cambiamento”, delle riforme; in particolare, l’uso del termine riforma è diventato un vero e proprio cavallo di Troia di quanti, volendo portare avanti politiche conservatrici, se non addirittura reazionarie, ripetono ossessivamente la parola riforma che storicamente è sempre stata sinonimo di cambiamento.
Ci hanno rubato, quindi, anche le parole e Renzi dimostra di aver imparato molto bene la lezione; una delle cose più urgenti da fare è quella di reimpostare seriamente il rapporto tra pensiero e realtà, tra parole e cose. Ma l’azione politica di Renzi non è certo a favore dei giovani: in questo momento le nuove generazioni stanno vivendo una situazione drammatica fatta di disoccupazione, sottoccupazione, precarietà, crisi di valori, mancanza di prospettive. E nonostante il consenso che lo accompagna in questa fase, si può già vedere che la politica governativa non aggredisce la crisi perché siamo in presenza di soluzioni deboli e prive di sbocchi. Non si può, infatti, pensare di superare la crisi organica del capitalismo dell’inizio del XXI secolo scaricandone i costi sulle classi popolari. E’ probabile che se si dovesse continuare su questa linea l’unico sbocco possibile sarebbe quello della guerra, che sarebbe devastante per l’intera umanità. Ma è tutta la politica sociale del governo Renzi caratterizzata a destra: il famoso “Sblocca Italia”, l’attacco all’articolo 18, la “Buona scuola” e via dicendo. Renzi ha in sostanza ripreso, aggiornato e rilanciato i programmi reaganiani-tactheriani-craxiani-berlusconiani degli anni precedenti, li ha riverniciati con l’ideologia del giovanilismo e li sta imponendo ad un Paese squassato e attonito, che in questa fase non è capace di reagire. Del resto, anche sul piano istituzionale l’azione del governo si connota come “di destra”: il tentativo di eliminare il Senato della Repubblica è emblematico; l’adozione del sistema elettorale maggioritario, tipico delle forme censitarie di rappresentaza dell’Ottocento, adottato nel 1923 dal nascente fascismo (legge Acerbo) e riproposto violentemente dalla DC di De Gasperi (peraltro entrato nel Pantheon del PD) e Scelba, contro i quali le sinistre, e il PCI in particolare, si batterono e vinsero nel 1953 – la lotta contro “la legge truffa” – proprio perché l’adozione sotto qualsiasi forma del sistema maggioritario è antidemocratica e rappresenta un colpo gravissimo al suffragio universale. A questo proposito, diciamo chiaramente che non abbiamo mai condiviso e non condividiamo la linea di coloro che nel PRC e nel PdCI concordano con lo sbarramento al 4%, perché riteniamo che qualunque forma di sbarramento rappresenta la negazione del suffragio universale e l’affermazione di una oligarchia, che impedisce con forza alla società italiana nella sua interezza di prendere parte alla vita del Paese.
5. La ripresa dell’azione dei comunisti in Italia passa, dunque, da una riflessione profonda, ma, al tempo stesso, da un rinnovamento “senza se e senza ma” dei gruppi dirigenti, che devono farsi da parte per consentire una discussione vera e produttiva e un effettivo ricambio, non di facciata. Bisogna avere il coraggio di criticare apertamente il cossuttismo e il bertinottismo, indicandoli come i fattori principali della crisi che ha segnato la storia dei comunisti in Italia a partire dagli anni ‘90. Infatti, anche se Cossutta ha avuto il merito di aver fondato assieme a tante compagne e a tanti compagni Rifondazione comunista, introducendo il tema della “rottura” nella concezione e nella pratica del PCI, la sua direzione del partito ha riproposto tutti i vecchi mali del parlamentarismo, del personalismo, del dirigismo, dell’opportunismo e del settarismo, che sin dalle origini hanno minato le basi della Rifondazione. Non per caso, quando Cossutta fu sconfitto da Bertinotti fondò il PdCI, che sciaguratamente assicurò, assieme a Cossiga, la maggioranza al governo D’Alema per muovere guerra alla Federazione Jugoslava.
E peraltro l’errore più grave da imputare a Cossutta, per quanto concerne la vita e l’esistenza di Rifondazione, fu quello di aver “iscritto” Bertinotti segretario del del PRC, con buona pace della democrazia interna. Dopo i primi exploit, Bertinotti ha avuto il deliberato proposito di chiudere Rifondazione – obiettivo esplicitamente dichiarato in più occasioni, anche quelle congressuali! -, traguardo che l’ex presidente della Camera ha perseguito con costanza e coerenza e che può dirsi quasi raggiunto. Negli anni della sua segreteria Bertinotti ha raccolto tutto il ciarpame politico-ideologico-culturale circolante contro i comunisti e le società socialiste in Italia e nel mondo e lo ha scagliato contro il suo stesso partito, che gli serviva però per garantirgli le comparsate televisive, le serate romane e la carriera istituzionale. E guarda caso ora è ricomparso per annunciare che il comunismo è morto e che il pensiero da abbracciare (grande novità teorica per cui Locke, come direbbe Abatantuono, si ribalta nella tomba) è quello liberale!
Si tratta, dunque, a nostro avviso di procedere indicando queste priorità:
a) Affrontare il tema della situazione internazionale a partire dalla lotta contro l’imperialismo nel Medio Oriente, in America latina e nell’intero Sud del mondo, la difesa della pace e la questione dell’Europa. In particolare, occorre denunciare i pericoli di guerra, che sarebbe terrificante vista la proliferazione degli armamenti atomici. Sul fronte russo-ucraino i pericoli di guerra derivano dalle scelte dell’attuale governo dell’Ucraina, che spinto dall’Occidente e da tutti i nazi-fascisti che lì si sono raccolti, sta adottando una politica avventurista e guerrafondaia. Inoltre, è necessario aprire un dibattito sull’Unione Europea: l’unità, la politica istituzionale, quella economico-sociale e culturale; ma soprattutto occorre comprendere il ruolo dell’Europa nei confronti dei paesi del Sud del mondo come nel rapporto con la Russia e la Cina, due grandi potenze mondiali che nell’attuale contesto internazionale svolgono una oggettiva funzione di contrappeso rispetto alle forze dell’imperialismo e alle sue tendenze guerrafondaie.
b) In Italia bisogna battersi per la difesa dello stato sociale, individuando nel governo Renzi e nel blocco economico-sociale-ideologico che lo sostiene l’avversario principale. Occorre creare lo schieramento più ampio possibile, ponendo chiare discriminanti di classe.
c) Dedicare grande attenzione alla battaglia culturale, riprendendo l’insegnamento di Gramsci, rimettendo al centro l’impegno dei comunisti per la scuola e per l’università, le più grandi istituzioni culturali del nostro Paese, affinché possano essere, così come afferma la Costituzione, di massa e di qualità.
d) Riaprire il dibattito sulla “questione meridionale”, sullo sviluppo in Italia, sul rapporto uomo-ambiente e uomo-natura.
e) Quale forma organizzativa i comunisti devono darsi in Italia per far sì che il mondo il lavoro possa difendersi dagli attacchi e rilanciare la prospettiva del socialismo nei prossimi anni.
Salvatore Distefano , Nino De Cristofaro, Salvatore Tiné , Alessandro Piccolo, Simonetta Timpanaro, Luciano Nigro, Federico Martino , Salvatore Fedele, Riccardo Cavallo, Giuseppe Tiné, Mattia Gambilonghi, Luigi Pellegrino
I firmatari di questo documento ritengono importante che i comunisti si rimettano a discutere e a riflettere dopo le sconfitte subite in Italia e nel mondo, soprattutto negli ultimi 25 anni. Per questo intendono sottoporre a tutti coloro che sono interessati le loro posizioni senza infingimenti e inutili tatticismi; sono convinti, infatti, che la crisi nella quale si dibatte il movimento comunista sia così profonda che sarebbe deleterio perdere altro tempo dietro progetti che ripropongono analisi e metodologie di intervento politico già sperimentate negativamente. Si tratta, ad avviso dei firmatari, di una fase necessaria e propedeutica per qualsiasi rilancio di forme organizzate, che abbiano l’ambizione di cambiare in maniera rivoluzionaria il nostro Paese.
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marco
bhe condivido lo spirito del documento.
Sin dall’invito a revisionare il revisionismo.
Realisticamente non si può pensare di riunire in un’unica struttura partitica la galassia di organizzazioni nate dal collasso del PCI (senza contare quelle che esistevano da prima come il PMLI) o dalla destrutturazione del PRC messa in opera in piena cattiva fede dal Neoliberale (per sua stessa ammissione) Bertinotti.
Credo che il primo step su cui concentrarsi sia una forma confederativa (e non federativa) delle varie realtà comuniste.
Un luogo di incontro in cui coordinare in maniera permanente momenti di lotta, organo di informazione, elaborazione teorica.
Una sorta di concilio ecumenico in cui dare le linee generali di un percorso condiviso, garantendo al tempo la piena autonomia delle struttura aderenti.
Ai compagni più entusiasti dell’unità questo potrà sembrare limitato, limitante e limitativo.
Eppure con il pessimismo della ragione sono sicuro che raggiungere questo scopo sarebbe un risultato così importante da creare i presupposti per lavorare in seguito con l’ottimismo della volontà.
Guardia Rossa 9491
Sinceramente faccio fatica a leggere e intervenire su un documento così lungo e articolato. Perciò mi concentro su due punti essenziali. 1° “I firmatari di questo documento ritengono importante che i comunisti si rimettano a discutere e a riflettere dopo le sconfitte subite in Italia e nel mondo, soprattutto negli ultimi 25 anni.” Commento: non abbiamo mai smesso di discutere e riflettere sulle sconfitte ma finora nessuna organizzazione comunista in Italia (e quante ce ne sono!) è riuscita ad esprimere una linea di ricomposizione di classe e di prospettiva socialista (nel senso marxiano del termine). 2° scrivono i firmatari: “In questo quadro, tuttavia, va sottolineata l’importanza e l’originalità dell’esperienza cinese, che in una fase così difficile e drammatica a livello mondiale, rimane all’interno di un processo di transizione socialista dagli esiti tuttora incerti.” Ma davvero credete che, dopo la sconfitta della linea rossa nel PCC nel 1976 ad opera di Deng Xiaoping e soci, la Cina rimanga all’interno di un processo di transizione socialista? Saluti rossi