Venire in Italia non era nei miei piani. Negli anni Ottanta erano in pochissimi quelli che venivano qui, al massimo qualche cristiano cattolico. La maggior parte dei gambiani preferiva andare in Danimarca, in Finlandia, in Norvegia, oppure in Grecia a lavorare sulle navi mercantili.
Nell’86 ho scritto una lettera a un amico che stava proprio in Grecia e lui mi ha risposto: “Vieni, però ti consiglio di passare dall’Italia, perché da lì non hai bisogno del visto di ingresso”. Sono stato tre mesi a Tripoli e due in Tunisia. Poi ho preso una nave per l’Italia. In tre ore siamo arrivati a Pantelleria. Da Pantelleria mi sono spostato a Trapani, da Trapani a Palermo. A Palermo ho preso un treno per Roma. A Roma ho incontrato dei ragazzi gambiani, alcuni erano appena scappati dalla Grecia dopo una retata della polizia. All’epoca se ti prendevano per spaccio ti davano una ventina d’anni, non era come qua che ti davano sei mesi, un anno, al massimo due anni. No. Uno di loro mi ha detto: “Se vai a Napoli ti aiutano. Li ci sono molti ragazzi che lavorano nei campi di pomodoro”. A Castel Volturno non c’era ancora nessuno. Le prime persone che hanno preso una casa nella zona, a Cancello Arnone, siamo stati io e un altro mio paesano, poi sono venuti i tanzaniani, i nigeriani e i ghanesi. Adesso in quel posto c’è una stalla di bufali, ma in passato lì hanno abitato tantissimi africani.
Poi sono venuto a Giugliano, tra Parete e Giugliano, in via Sant’Antonio. Lì c’era un signore, Franco, che ci lasciava dormire in una casa di campagna con un una stanza grande sopra e un’altra giù. Nei giorni in cui non lavoravamo prendevamo l’M4, che va a Qualiano, o l’M5 da Giugliano a Napoli, e giravamo un po’ fino a sera. Dopo un po’ mi sono trasferito a Casal di Principe. La casa di Casale la pagavo, quella di Giugliano no. Ma a Casale avevo dei coetanei che erano stati con me sia in Niger che in Libia. E poi a Giugliano eravamo lontani dal centro, mentre a Casale abitavo proprio in mezzo alle persone, e c’era un bel bar davanti casa dove spesso andavamo a sederci. All’epoca non bevevo, ero uno studente del Corano, ero molto rigido con me stesso, pregavo sempre, compravo solo carne di pollo e se qualcuno mi offriva del cibo non lo prendevo per paura di mangiare carne di maiale.
Nell’estate dell’88, durante la stagione dei pomodori, abbiamo lavorato a Parete, a Giugliano e a Casal di Principe. D’inverno abbiamo lasciato la casa di Casale e abbiamo occupato il Centro Fernandes, un grande edificio abbandonato lungo la Domitiana. C’erano sud sahariani e noi dell’ovest Africa, più musulmani che cristiani. Quando siamo venuti qua, abbiamo iniziato a vendere la droga e guadagnare in modo facile, abbiamo iniziato noi stessi a consumare, forse per riempire quel buco che ognuno di noi aveva già prima di arrivare in Italia.
Allora non era come adesso. Una volta io e un amico abbiamo preso l’M1 fino a Mondragone, siamo entrati in un negozio, la signora vendeva un po’ di peperoni, un po’ di mozzarella e altro cibo, ho comprato pane con tonno e ci siamo seduti lì fuori per passare una giornata diversa. Sono venuti alcuni ragazzi e ci hanno abbuffati di palate perché non dovevamo sederci là. In quel periodo erano molti gli episodi di razzismo. Alla fermata del pullman di Pescopagano avevano sgambettato tutti gli africani che aspettavano l’autobus perché non dovevano essere lì. E se camminavi per strada qualcuno faceva cacca dentro un bicchiere di plastica e te la buttava addosso.
Quando eravamo là dietro invece ci sentivamo protetti: facevamo le canne o ci cucinavamo il crack. Eravamo proprio un gruppo, come una cellula, non quella terroristica, neanche tanto cattiva, non facevamo del male, non sapevamo neanche che significasse. C’era chi vendeva la droga, chi andava in campagna, chi faceva altro. Io compravo cinque grammi, li facevo in tanti pezzi e andavo a Roma, in via Magenta, in piazza della Repubblica, in piazza di Spagna e li vendevo.
Con i mondiali di calcio del ’90 è iniziata ad arrivare la massa dei nigeriani, tanti, sia ragazzi che ragazze. Allora noi che non avevamo la loro stessa ideologia legata solo ai soldi, abbiamo preso il permesso di soggiorno e siamo andati a lavorare al nord. Prima di andare a Verona ho preso il Roipnol e il Dividol per smettere di drogarmi. Mi ha aiutato una ragazza, si chiama Angela, non l’ho più vista, era un’assistente sociale bellissima, veniva a trovarci e ci portava a Napoli, alla Caritas, a mangiare, ci faceva fare la doccia, ci faceva cambiare i vestiti. Mi emoziona ricordarla, era bravissima (piange).
A Verona faceva freddo, sono arrivato a ottobre, nevicava e io ero in astinenza, col vomito, coi brividi, mentre questo mio amico lavorava. A lui non ho voluto dire la verità, ho fatto la doppia vita fino a quando non ho iniziato a riprendermi. È stato brutto, davvero brutto (piange).
Lavoravo alla Musatti, un’azienda di Montecchio che faceva pedane di legno, brande di ferro, quelle dei detenuti, e altri lavori di falegnameria. Però lì ti facevano firmare un contratto per un tipo di lavoro e poi te ne facevano fare un’altro. A me mi avevano messo a lavorare con le vernici, ma io ero debole, avevo appena smesso di fumare, ero nervoso, ansioso, e la vernice che usavamo mi dava molto fastidio, di notte quasi mi si bloccava il respiro. Dopo due mesi sono andato dai sindacalisti per denunciarli. Ero sempre un po’ ribelle dentro di me. Quando poi i sindacalisti mi hanno chiesto cosa avevo deciso di fare, mi è arrivata una lettera di licenziamento in cui dicevano che dovevano ridurre il personale e mi hanno cacciato via.
Ho trovato lavoro in una tintoria, c’erano tre turni, ogni settimana un turno diverso. Andavo lì anche il sabato e la domenica, a pulire tutte le macchine, a volte senza soldi, senza nessuno straordinario. Ho vissuto quasi due anni in un motel. E lì non c’era neanche un pentolino. Per mangiare del cibo caldo dovevo andare al ristorane e fuori Verona i ristoranti costavano molto. Se mi avessi visto avresti pensato che facevo ancora uso di droga. Ero secco, depresso, la vita era dura. Non ce la facevo economicamente, non ce la facevo fisicamente, non ce la facevo moralmente. Mi sentivo solo e sono tornato a drogarmi.
La prima volta l’ho presa un giorno che avevo il turno delle due. Sono andato a comprarla e l’ho sniffata. Visto che quel poco che avevo usato mi aveva fatto stare bene per una settimana, mi sono detto, stupidamente, adesso mi limito, invece di usarne tanta, ne prendo un poco alla volta. Alla fine la dose che prima consumavo in tre giorni mi durava solo due ore e dovevo andare a comprarne dell’altra se no mi veniva l’astinenza nervosa e non ero neanche in grado di lavorare.
Poi sono andato a casa in vacanza. Arrivato in Gambia, ho fatto una settimana di astinenza. Brutta. Sono rimasto tre mesi. Andavo a giocare a pallone, andavo in spiaggia, giravo da tutte le parti. Ero tranquillo, rispettato, nessuno mi rompeva le scatole, nessuno mi chiedeva il permesso di soggiorno, non avevo paura e di notte non avevo gli incubi. Ero tornato come all’infanzia. Era bello. Però dopo due mesi e mezzo è arrivata la malattia dell’Italia, non ce la facevo a rimanere là, volevo tornare, avevo nostalgia, era ancora più forte di quella che avevo avuto per il Gambia. Pensa che avevo preso un biglietto andata e ritorno di sei mesi, sono andato a cambiarlo e sono tornato subito.
Di nuovo a Verona, perché lì stavo bene, stavo in una situazione tranquilla, senza che nessuno mi vedesse. Verona non è come Napoli. Se vivi qui sei inserito in un contesto familiare, sei conosciuto, sei salutato per strada, vengono a visitarti a casa. Invece a Verona no, se muore qualcuno c’è l’indifferenza totale, ma non solo con noi, anzi con noi un po’ meno, perché lavoriamo per loro, mentre per i meridionali di più. Non è solo un detto è la verità.
Il weekend prendevo la macchina e andavo a Milano a fumare, a vendere, a divertirmi un po’. Consumavo e smerciavo per recuperare i soldi che avevo speso e per acquistarne dell’altra. Andavo in tanti posti, giravo. Un giorno sono stato arrestato. Ero con un ragazzo di Lecce alla Stazione Centrale a Milano, stavamo parlando, lui aveva il metadone e un po’ di droga, è venuta la polizia, ci ha perquisito e ha pensato che la droga gliela avessi data io, ho detto di no, ma poiché lui non ha aperto bocca la polizia si è buttata su di me, io ho reagito e ho dato un pugno. Loro mi hanno portato in caserma, mi hanno riempito di botte e mi hanno rilasciato a piede libero.
Da quel giorno ogni volta che venivo controllato dalle forze dell’ordine mi picchiavano o mi portavano in caserma a forza perché risultava che avevo fatto resistenza a un pubblico ufficiale. Un’altra volta a Corso Buenos Aires, mentre camminavo due poliziotti in borghese mi hanno arrestato dicendo che una persona gli aveva segnalato che io gli avevo venduto 0,2 mg di droga, che non è niente, per venticinquemila lire. “No, non sono stato io”. Ho tirato fuori la dose che avevo con me e gliel’ho fatta vedere. In quel periodo stavo anche lasciando il lavoro di Verona, avevo inviato la lettera di licenziamento e aspettavo di prendere i soldi della liquidazione per bruciarli di nuovo con la droga. Non sapevo più quello che facevo, ero diventato al cento per cento un tossicodipendente.
Ho fatto venticinque giorni a San Vittore. Quando sono uscito, sono venuto a Napoli. Ho lasciato le valigie in stazione, sono entrato nel pullman e sono andato diretto a Castel Volturno. Sono passato prima al Centro Fernandes, ma la signora Marisa mi ha detto che non c’era posto, ho parlato anche con il direttore, gli ho fatto vedere il mio curriculum, all’epoca portavo con me tutte le buste paga e i contratti di lavoro. Ma anche lui mi ha detto di no. Allora ho chiesto se sapevano dov’erano alcuni miei amici.
Sfortunatamente lì ho trovati in pineta, drogati di nuovo. All’epoca in pineta ci si sedeva attorno a un tavolo e ognuno metteva i suoi pezzi di crack in vendita. Quello che accadeva lì non era paragonabile a quello che succedeva a Milano o Verona. A Milano eravamo dei signori drogati a confronto. Tu capivi che uno era drogato perché era magro, ossuto, ma non lo capivi dai vestiti o dai soldi che aveva in tasca. Perché i soldi li avevamo e avevamo anche dei bei vestiti. e dormivamo in appartamenti mentre in pineta si dormiva per terra! Quella notte, il 3 agosto del 2001, ho dormito in pineta. La mattina dopo, verso le dieci, mi sono messo a sedere sotto un pino perché non volevo fumare, anche se mi tirava a bestia, avevo voglia, voglia, voglia, e il mio cuore batteva forte, forte. D’altronde non sapevo dove andare. Sono anche uscito, ho girato un po’ ma era come stare in una giungla, ero completamente spaesato.
Dopo Ferragosto sono andato in Caritas. Marisa mi ha detto che non c’era posto. Prima pensavo fosse molto cattiva, però ho capito che quando lavori lì sei costretto a dire molte volte di no. Il 26 agosto è stata l’ultima volta che ho dormito in pineta. Il giorno dopo sono tornato in Caritas con la borsa. Ho detto a Marisa: “Non me ne vado da qua”. Lei ha chiamato il dottor Gianni, sono andato da lui, mi sono seduto e mi sono messo a piangere. “Cercatemi un posto in comunità, in pineta non ci torno più, voglio dormire qua e voglio smettere di drogarmi, se non mi aiutate e mi succede qualcosa siete voi i responsabili”. Poi è venuta Marisa mi ha portato un asciugamano nuovo e mi ha detto: “Vai a farti la doccia, appena hai finito ti mostro la stanza”. Prima di andare a letto mi hanno chiesto se volevo prendere il metadone, ho detto di sì. Hanno chiamato al Sert, ma quel giorno era chiuso.
A metà novembre ho fatto le valigie e sono andato in comunità. Verso la metà di dicembre, ho smesso di prendere il metadone e ho iniziato una eco-terapia molto bella. Ci alzavamo alle sei, ci lavavamo e poi alle sette stavamo in gruppo, prima pregavamo e poi ognuno di noi prendeva un impegno, per esempio “io oggi mi impegno a fumare solo due sigarette”. Io prendevo tutti gli impegni possibili, non perché ero super o altro, ma perché nessuno mi aveva spinto ad andare in comunità, l’avevo deciso io.
Ho fatto tutto il percorso: ventiquattro mesi. Dopodiché ho fatto anche un anno di volontariato, per mia volontà. Avevano promesso di assumermi, di aiutarmi nel permesso di soggiorno, ma quando ho visto che non c’era un reale interesse ho lasciato. Sono tornato a Castel Volturno e ho chiesto ospitalità a Giallo. Lui, dopo che io ero entrato in comunità, aveva preso esempio da me ed era entrato nel progetto. Anche se aveva fatto solo l’inizio dell’accoglienza, poi appena avevano finito di dargli il metadone aveva smesso ed era tornato in pineta. Lì era stato arrestato ed era andato in carcere, poi è uscito fuori come innocente e ha avuto un risarcimento di settantamila euro. Con la sua ragazza ha affittato una casa, ha comprato un furgone e ha iniziato a vendere fiori.
Allora quando sono uscito dalla comunità sono andato da lui. Lo aiutavo a vendere e in cambio lui mi ospitava e la moglie mi lavava i vestiti. Poi però gli ho detto: “Se continuiamo a lavorare insieme io vorrei che a fine settimana tu mi dessi tot soldi. Se tu non puoi allora io ti pago l’affitto della stanza e faccio i fatti miei”, Lui mi ha detto: “Sì, va bene”, però dentro di sé era molto arrabbiato. Io quando l’avevo ospitato a Verona gli avevo dato il mio permesso di soggiorno e il mio passaporto per viaggiare a nome mio, gli avevo pagato l’albergo per un mese. Non ha saputo ricambiare la mia ospitalità, non fa niente.
Ho lasciato e sono andato ad affittare una casa a Bagnara, una frazione di Castel Volturno. La mattina giravo con i Medici Senza Frontiere. Loro mi stavano aiutando curandomi l’epatite C che avevo scoperto di avere in comunità, e io li ricambiavo aiutandoli in strada. Per un po’ ho fatto il volontariato sia con i Medici Senza Frontiere, che con Jerry Masslo. E il venerdì se non lavoravo, andavo al servizio di guardia medica dell’Asl di Castel Volturno. Assistere gli altri mi faceva sentire bene.
Quando lavoravo allo sportello di Medici Senza Frontiere o all’ambulatorio della Jerry Masslo molte donne mi dicevano: “Mio marito non c’è, oppure quello che mi ha messo incinta se n’è andato in Germania, in Spagna, in Portogallo, sono da sola. Se potessi lasciare a qualcuno il mio bimbo andrei a lavorare. Sai chi può guardare la mia bimba? Non voglio che la prendano gli assistenti sociali”. Ascoltando queste donne è cresciuto dentro di me l’idea che potevo farlo io. Anche perché io stesso avevo l’esigenza di mettermi qualcosa in tasca. Mi davano duecento euro a bimbo. Io li assistevo in tutto, li portavo dal dottor Gianni per le medicine o nel caso in cui avevano i documenti dal loro pediatra. Poi ho dovuto lasciare. Una ragazza che mi doveva dare dei soldi non me li ha dati e invece è andata a denunciarmi dai carabinieri. Sono venuti e mi hanno detto: “Emanuele (così mi chiamano gli italiani) noi lo sappiamo che quello che stai facendo è una cosa bellissima, ma non sei in regola, ti consigliamo di lasciar stare”. E ho dovuto chiudere. Ma ancora oggi aiuto mamme e bambini(jefferson seth annan).
Dal n. 60 (settembre/ottobre) di Napoli Monitor
(disegno di sam3)
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