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Elementi di critica comunista alle narrazioni tossiche ricorrenti a proposito dell’inchiesta su Mafia/Capitale

Nel pasticciaccio dell’inchiesta romana su Mafia/Tangenti/Politica il livello di complessità che si va squadernando è, di gran lunga, superiore a quello che, ordinariamente, si è palesato in tante altre inchieste similari in giro per l’Italia.

Questa volta non si tratta, unicamente, dell’enorme mole di denaro circolante, del coinvolgimento di tutti i partiti e delle loro relative lobby affaristico/clientelari, dell’intreccio con poliziotti e membri dei servizi segreti, della presenza attiva della Lega delle Cooperative, di un accertato sottobosco fascista, della logica bipartisan imperante o della disarmante inanità di chi è preposto al controllo di questi passaggi amministrativi.
Stavolta siamo di fonte a qualcosa di molto grande e di profondamente pervasivo oltre i formali involucri amministrativi dei vari livelli istituzionali della più grande metropoli italiana e con diramazioni oltre la cintura capitolina.
Nel contempo, però, tale vicenda è una esemplificazione concreta del funzionamento di questa società e della marcescenza di alcuni rapporti politici, giuridici e dell’insieme delle relazioni sociali giunte alla loro maturità.
Una lezione politica attuale, una vera e propria cartina tornasole per tutti se osserviamo questa inchiesta dal punto di vista dei vigenti assetti di comando, di governance e di dispiegamento vero ed immanente dei diversificati effetti della crisi capitalistica nei vari gangli della società.
In questo puzzle giudiziario/politico/criminale – al di là degli abituali aspetti sensazionalistici o delle strumentali lacrime di coccodrillo del Renzi di turno o delle altre vestali della sacralità delle istituzioni borghesi – emerge, con nettezza, il profilo criminale e criminogeno del capitalismo contemporaneo.

IL VAMPIRISMO DEL CAPITALE

Siamo difronte ad una rappresentazione plastica che mostra l’aspetto moderno ed attuale di questo pestifero modello di dominio reale con buona pace di quanti sparlano, o si illudono, circa la possibile esistenza di un capitalismo pulito e scevro dal malaffare e dalle accertate pratiche di grassazione generalizzata riscontrabili a Roma come altrove.
L’attuale corso del capitale attraverso le sue profonde modificazioni, trasformazioni e ristrutturazioni – soprattutto quelle avvenute negli ultimi trenta anni – ha assunto un aspetto sinistramente criminale.
A partire dagli anni ’80, infatti, il capitalismo classico, costretto a convivere con molteplici convulsioni a scala globale – prodotte dal delinearsi dei fattori di crisi economica strutturale – ha profondamente mutato la sua forma diventando di fatto deregolamentato, mondializzato e soprattutto finanziarizzato all’eccesso.
L’assenza di regole o la riscrittura di queste ad uso e consumo della spietata logica del profitto, la piena ed avvenuta mondializzazione del capitale e l’eccessivo ricorso alla finanza hanno incentivato e promosso la diffusione di enormi possibilità criminali fraudolente le quali, in passato, erano del tutto assenti o erano marginali rispetto alla complessità ed all’interezza del corso capitalistico.
Siamo quindi di fronte ad una forma del capitalismo che presenta un aspetto fortemente criminogeno. Una connotazione precisa, però, che nelle ricorrenti analisi degli economisti borghesi viene ignorata o quasi mai menzionata.
Anzi – come è spesso accaduto in vicende similari – nell’eventualità di evidenti scandali finanziari e speculativi la colpa viene, in forma penosamente mistificante, scaricata sulle mele marce che guasterebbero, con la loro disonestà, la bontà dell’essenza dell’azione generale del capitale. Per questi apologeti del massimo profitto il capitalismo, sempre e comunque, nella sua dinamica di articolazione racchiuderebbe, addirittura, un fattore progressivo e civilizzatore nei confronti dell’umanità.
All’oggi tale aspetto criminale del capitalismo sembra essere del tutto incompreso, ignorato o persino accettato dagli esperti e dagli studiosi, come se si trattasse di un aspetto intrinseco e strutturale – quasinaturale – al fenomeno stesso.
Tutti i commentatori che si stanno cimentando nella discussione del pasticciaccio romano scansano questo aspetto e concorrono, anche indirettamente, ad accreditare l’idea di un capitalismo sano da preservare e sacralizzare anche in casi diincidenti di percorso come quello accaduto nella capitale.
Infatti per gli apologeti dell’attuale modello sociale la sacralità del profitto, la logica d’impresa e la difesa del mercato sono dogmi indiscutibili.  L’importante, per gli apprendisti stregoni dei poteri forti, è che tutto fili liscio a costo di nascondere la cosiddetta polvere sotto il tappeto o di scaricare, impietosamente, lo sfortunato personaggio di turno che incappa nelle difficoltà giudiziarie del caso.
La stessa storia della Prima Repubblica italiana, particolarmente la questione afferente Tangentopoli, ha avuto, tra l’altro, un connotato di questo tipo ed ha imposto una narrazione tossica che ha eluso gli snodi veri di quel passaggio della storia d’Italia addossando, come in un romanzetto di quart’ordine, tutte le responsabilità ai mariuoli o ai disonesti dell’epoca.
Da questa assunzione di principi, da parte dei vari commentatori,  deriva, ovviamente, l’impunibilità penale e l’assoluta assenza di critica verso l’onnipotenza dei mercati finanziari dediti ad attività speculative i cui effetti nefasti antisociali ricadono inequivocabilmente sulla società e sui settori popolari più esposti alla crisi.
A tal proposito non importa se una decisione di un consiglio di amministrazione o di un organo sovranazionale provoca un disastro umanitario o una stagione di macelleria sociale in questo o quel posto del mondo. Per Lor Signori tutto deve risultare pulito e tutto è reso accettabile alla legalità borghese a condizione di non impattare, in maniera scoperta e rumorosa, con le norme dei codici penali e con la cattiva coscienza delle opinioni pubbliche.
Del resto già Marx, nel descrivere l’esordio sul proscenio del modo di produzione capitalistico, presentava questa tendenza storica come una lunga fase propriamente predatrice e, schiettamente, criminale definendola accumulazione originaria.
Oggi a centocinquanta anni da questa geniale interpretazione il capitalismo – giunto alla fase della finanza criminale – disvela la sua vera natura stravolgendo e negando anche quei principi etici e morali con i quali ha nobilitato la sua ascesa e il suo portato rivoluzionario a scapito dei precedenti modi di produzione.
L’inchiesta romana in tutti i suoi addentellati è il riflesso concreto di questa dimensione attuale e risente dell’ obsolescenza e del marciume di questi rapporti sociali oltre ogni spiegazione politicista o schiacciata sul chiacchiericcio del teatrino della squallida rappresentazione da talk/show.
La creazione di soldi sulla pelle degli immigrati e dei rom da parte degli stessi che alimentano il razzismo non è solo un aspetto paradossale e schifoso ma mostra, inequivocabilmente, il parossismo di un sistema sociale, di relazioni e di modalità di gestione che ha raggiunto – almeno potenzialmente – il suo capolinea storico imponendo, di fatto, il tema oggettivo del superamento di questi rapporti di produzione e della possibile allusione ad una alternativa di società.

SCANDALI E RUBERIE OCCASIONI PER RINSALDARE LA BLINDATURA DELLE ISTITUZIONI

C’è – inoltre – un ulteriore aspetto dell’inchiesta romana su cui vale la pena soffermare la riflessione che sottoponiamo all’attenzione dei compagni e degli attivisti politici e sociali.
Tutti i commentatori, sia i colpevolisti e sia gli innocentisti, sono concordi su un punto preciso su cui scatenare le loro campagne stampa e di orientamento. Per l’intero schieramento borghese si tratta di aggiungere un nuovo tassello all’attacco da sferrare – con la giustificazione della dilagante corruzione – al sistema delle autonomie locali, all’istituto delle Regioni, dei Comuni ed a qualsiasi livello che attiene al decentramento amministrativo delle istituzioni e ad ogni minima parvenza dipartecipazione democratica anche solo limitata al terreno elettorale/istituzionale.
L’emergere degli scandali e dell’affarismo ha sempre dato fiato – anche attraverso una sapiente campagna che fa leva sull’indignazione e i mugugni popolari – ad un populismo reazionario che sottende ad una forte ri-centralizzazione autoritaria dei poteri e degli strumenti della governance.
A  tale proposito si rivelano completamente errate le dissertazioni di chi immaginava, come conseguenza dell’avvenuta mondializzazione del capitale, istituzioni liquide e la dissoluzione della forma stato centralizzata a scapito di una presunta microfisica del potere.
Nella realtà, invece, si va imponendo – anche attraverso una gestione accurata di parte di capitalistica di episodi come quello di Mafia/Capitale – un modello statuale ancora più concentrato, più deregolamentato e sempre meglio sintonizzato alle attuali ambizioni del capitalismo tricolore nel gorgo dell’accresciuta competizione globale interimperialistica e degli incessanti diktat da parte del nucleo duro della borghesia continentale europea.
Così è accaduto in particolare con la stagione di Mani Pulite e con l’assunzione da parte della Magistratura di quel ruolo di supplenza politica autoritaria e dispotica a scapito degli altri corpi intermedi della società ridotti di funzione e resi marginali nei processi decisionali (i partiti, le grandi organizzazioni di massa, i sistemi elettorali a base proporzionale, l’involuzione del diritto civile e penale).

UNA CRITICA AL COMPLESSO DELLE FORME DEL COMANDO DEL CAPITALE

Anche da questi dati teorici, culturali e politici occorrerebbe rilanciare la discussione, oltre la cronaca immediata ed oltre l’asfissiante esecrazione scandalistica a cui vorrebbero riconduci gli opinion maker della disinformazione dominante e deviante.
Su questo versante dovrebbe attestarsi una critica sociale attiva ed il protagonismo a tutto campo dei movimenti di lotta per scompaginare e bonificare questo ignobile verminaio e l’intera impalcatura che sottende a questo putrido sistema.
La linea di condotta e l’attitudine politico/pratica di una soggettività comunista organizzata – dopo la pur necessaria fase della denuncia e della controinformazione nei ed oltre i movimenti sociali e sindacali – è anche quella di definire vicende, come quella dell’inchiesta romana, con il loro autentico nome e di inquadrarle in una prospettiva di rottura e di rivoluzione contro i modelli sociali esistenti e dominanti.
Certo, al momento, considerando gli attuali rapporti di forza tra le classi, questo indirizzo programmatico non è – immediatamente – traducibile in iniziativa di massa e dispiegata ma, se davvero vogliamo organizzare la nostra alterità a tale degenerazione della società, dobbiamo incominciare a segnalare con nettezza i nostri avversari indicando l’indispensabile percorso di mobilitazione, di lotta e di organizzazione coerente.
Del resto questo lavorio è parte della ragione sociale di una Organizzazione Comunista che vuole cimentarsi con il conflitto, con la complessità sociale e con i complicati processi di organizzazione politica e sociale rifuggendo da ogni tentazione sclerotica e dogmatica.

Michele Franco – Rete dei Comunisti

da http://www.retedeicomunisti.org

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