Un documento dei compagni di Ross@ Milano. Sabato 13 giugno, a Milano, dalle ore 10.00 convegno contro l’Expo alla sala Arci Corvetto, via Oglio 21, organizzato da Ross@.
Da anni veniamo incalzati da una propaganda martellante che presenta Expo come una straordinaria opportunità per Milano e per il Paese. Secondo uno studio svolto dalla Scuola di Direzione Aziendale Bocconi e presentato alla fine del 2013 da Camera di Commercio ed Expo Spa, si millanta che l’impatto di breve periodo dell’evento in termini di valore aggiunto sarà di un miliardo e mezzo, cui andranno ad aggiungersi 14 miliardi grazie all’afflusso dei ventilati venti milioni e più di visitatori (cifra che, con l’avvicinarsi della scadenza, tende a essere ridimensionata); l’impatto di lungo periodo sarebbe invece di 5 miliardi in investimenti dall’estero, promozione turistica e creazione di nuove imprese. Ancora piùottimistiche le stime per quanto riguarda l’occupazione: 30.000 nuovi posti per la fase di preparazione, 114.000 posti per l’indotto e altri 47.000 entro il 2020 (più altre quisquilie che porterebbero il beneficio totale a 200.000 posti). Una vera manna, impreziosita dalla nobile missione della manifestazione, sintetizzata dal pomposo slogan “Nutrire il mondo”. Qui di seguito dimostreremo che queste promesse sono aria fritta, e chiariremo le vere ragioni per cui si fa l’Expo, e chi sono i suoi veri – e unici -beneficiari.
1) Milano come New York:una città gentrificata e normalizzata
Negli ultimi decenni del secolo scorso New York, sotto la guida di sindaci votati alla filosofia della “tolleranza zero”, come Rudolph Giuliani, è stata rivoltata come un guanto, subendo radicali trasformazioni tanto sul piano urbanistico quanto su quello della composizione sociale. Agendo come braccio armato del FIRE (un acronimo formato dalle inziali inglesi delle parole Finanza, Assicurazioni e Industria immobiliare), le amministrazioni locali hanno espulso dal centro storico centinaia di imprese industriali e centinaia di migliaia di lavoratori, soprattutto afroamericani e latinos; hanno costruito una quantità impressionante di nuovi grattacieli, sventrando alcuni quartieri e cambiando la destinazione d’uso di altri, e hanno progressivamente trasformato la città nella sede prevalente, se non esclusiva, di attività terziarie “avanzate” (finanza, assicurazioni e servizi informatici), facendo salire alle stelle il valore degli immobili e gli affitti. Dopo avere trasformato New York nel luogo di residenza esclusivo per ricchi vecchi e nuovi e per i loro manager, consulenti e impiegati dello strato superiore, occorreva garantire loro sicurezza e servizi efficienti e a buon mercato, “educando” i lavoratori non qualificati destinati a risolvere i problemi quotidiani delle élite (tassisti, camerieri, collaboratori domestici, conduttori di mezzi pubblici, addetti alle pulizie, ecc.) a svolgere il proprio ruolo senza “alzare la cresta”, accettando salari da fame e occupazioni precarie; ma anche impedendoai loro figli e nipoti di commettere reati (dai borseggi ai graffiti) e “liberando” le strade della città dallo spettacolo della povertà.
Cosa c’entra la storia di quella che i sociologi hanno chiamato la gentrificazione di New York con la Expo milanese? C’entra perché Expo, come tutti i grandi eventi di questo tipo (esposizioni, olimpiadi, giochi invernali, ecc.) serve soprattutto a innescare processi trasformativi che vanno nella stessa direzione. I grandi eventi non sono strumenti per rilanciarela crescita, ma modelli di “sviluppo” economico alternativi a quelli centrati sull’industria. A contare non è l’Expo in sé stessa ma il suo processo di produzione che comporta desertificazione e/o cementificazione di grandi aree, una radicale trasformazione urbanistica orientata in senso speculativo e un ulteriore passo verso l’espulsione dalla città dei ceti meno abbienti che devono lasciare spazio a nuovi soggetti e a nuove attività. Il futuro di Milano immaginato dai progettisti dell’Expo è pieno di centri commerciali e automobili più che di persone. Qualcuno ha osservato che il simbolo di Milano non è più il Duomo ma la Piazza Gae Aulenti, spacciata per luogo di ritrovo cittadino mentre si tratta della vetrina di manifestazioni commerciali su cui svettano i grattacieli Unicredit che dominano sull’Isola Garibaldi, già quartiere popolare oggi in via di conversione in sede di locali per il loisir delle classi medio alte. Altri esempi: la nuova linea metropolitana, costruita appositamente in occasione dell’Expo, servirà soprattutto a “innervare” quartieri in cui il valore degli immobili subirà aumenti vertiginosi (con conseguenti espulsioni di cittadini poveri che dovranno lasciare il posto a proprietari e affittuari benestanti).
Ma esistono somiglianze ancora più evidenti con il caso di New York, a partire dal prosciugamento del bilancio comunale causato dall’acquisto dei terreni (privati!) su cui si svolgerà l’evento. Simili operazioni causarono il default della città americana; forse Milano non farà la stessa fine, ma sicuramente i cittadini proveranno sulla loro pelle gli effetti dei tagli alle spese sociali provocati da quel salasso (che si aggiunge ai tagli già imposti dal patto di stabilità imposto da Monti e ratificato dai suoi successori Letta e Renzi). Varrebbe la pena di chiedere cosa ne pensano ai lavoratori precari del Comune che hanno visto sparire i 25 milioni previsti per risolvere i loro problemi. Poi c’è l’esigenza di controllare/normalizzare il territorio, sia per rendere la città “accogliente” per i visitatori, sia perché si spera così di garantire anche in futuro una “disciplina” dei comportamenti delle classi subordinate nei confronti dei padroni della città. Pisapia si fa emulo di Rudolph Giuliani: rilancia – con gli applausi del Corriere della Sera – la campagna di sfratti e sgomberidi case popolari occupate nei quartieri periferici; sfratta centri sociali, come lo Zam e il Lambretta, cui pure aveva promesso sistemazioni alternative; dichiara guerra ai graffitari, mentre attendiamo una prevedibile campagna per liberare dallo spettacolo della povertà estrema la città che dovrà presentare un volto “pulito” ai visitatori. E gli sceriffi proliferano: non solo amministratori pubblici, vigili e poliziotti, ma anche i poteri speciali conferiti all’Amministratore Unico dell’Expo, Giuseppe Sala, espressione di quei nuovi modelli di governance del territorio che non richiedono più nemmeno la foglia di fico di un qualche tipo di legittimazione democratica.
2. E se fosse un flop? Poco male il vero affare è già stato fatto
Alcune delle perplessità che vengono sollevate nei confronti dell’Expo riguardano la possibilità di un suo possibile, clamoroso fallimento.E se i visitatori fossero molti meno di quelli previsti? E se il valore aggiunto e i nuovi posti di lavoro sbandierati dai bocconiani si rivelassero un miraggio? E se le opere monumentali realizzate si trasformassero (come è già avvenuto per analoghi eventi all’estero) in malinconiche “rovine del moderno” (in questo caso del postmoderno), scheletri abbandonati destinati a diventare rifugio di barboni e cani randagi? A rischiare davvero sono i politici che vogliono sfruttare l’Expo come strumento di rafforzamento della propria immagine, e che verrebbero penalizzati da un flop. Ma i veri padroni della città – finanzieri, imprenditori immobiliari e speculatori di ogni risma – non rischiano nulla perché i loro profitti li hanno già realizzati e sono sicuri di realizzarne altri prima della fine della partita. Quindi, anche se le ottimistiche previsioni sul valore aggiunto creato dall’evento (di quelle relative all’incremento occupazionale ci occuperemo più avanti) saranno, com’è assai probabile, clamorosamente smentite, gli speculatori non avranno perso un euro, anzi avranno guadagnato miliardi.
La festa è iniziata con la scelta dei terreni su cui si svolgerà l’evento, di proprietà di Cabassie della Fiera di Milano (ente controllato da Formigoni e soci), soggetti che non solo hanno beneficiato della vendita a spese del denaro pubblico, ma fanno anche parte di Arexpo, la società controllata da Comune, Regione e Fiera che dovrà vendere l’area Expo quando la manifestazione sarà conclusa, per cui godranno di una ulteriore opportunità di guadagno. Per valutare le proporzioni del bottino, tuttavia, bisogna tenere conto del fatto che la razzia non si svolge solo nella zona direttamente interessata, ma riguarda una girandola di cementificazioni e aggressioni a porzioni assai più vaste di territorio: dalla già citata nuova linea della metropolitana a una serie di opere stradali come la Tangenziale Est Esterna Milanese, la Pedemontana e la Brescia-Bergamo-Milano. Per tacere del faraonico progetto delle vie d’acqua, naufragato dopo l’arresto del titolare della Maltauro, la ditta che avrebbe dovuto realizzarlo. Il caso Maltauro è solo uno dei tanti che hanno evidenziato le infiltrazioni mafiose e l’intreccio di “relazioni pericolose” fra amministratori e imprenditori senza scrupoli, relazioni fatte di corruzione e favori reciproci che sono state la principale causa dei ritardi di alcuni lavori, rallentati dalle inchieste della magistratura (valgano per tutti gli esempi dell’arresto del direttore alla pianificazione acquisti Angelo Paris e l’avviso di reato al governatore regionale Maroni). Una volta messa in moto, tuttavia, la macchina Expo non poteva più essere fermata; esattamente come le grandi società finanziarie americane sono state dichiarate “troppo grandi per fallire”, l’Expo aveva messo in moto interessi economici e politici troppo grandi per poter pensare di fermarla. Così, in barba a scandali, arresti e avvisi di garanzia tutto procede e la nomina del commissario Cantone, incaricato di controllare che tutto avvenga in una cornice legale, si è rivelata un escamotage per rassicurare l’opinione pubblica, visto che lo stesso Cantone, per rispettare i tempi di esecuzione delle opere, è costretto ad affidare incarichi senza concorsi e senza controlli. Così nemmeno lo scandalo Metauro ha impedito che il progetto sulle vie d’acqua proseguisse, anche se ridotto alla realizzazione di un unico canale, che comunque taglierà quattro parchi cittadini, all’insegna – come tutto il resto – della privatizzazione di spazi pubblici a vantaggio di profitti privati. In poche parole, il “successo” di Expo non si misurerà – se non in minima parte – in biglietti venduti, nuovi investimenti e nuovi posti di lavoro, bensì in sovraprofitti di finanzieri, palazzinari, speculatori e mafiosi che in parte hanno già intascato, e ancora intascheranno a fine festa, quando si tratterà di riqualificare tutto ciò che è stato costruito. E qui già si profilano progetti come quello caldeggiato dal governatore regionale Maroni, che prevede la costruzione di uno stadio per il Milan e altre strutture per ospitare eventi sportivi (la parola d’ordine è lo sport si guarda – pagando! – e non si pratica, per cui di strutture per le attività sportive amatoriali dei cittadini non si parla). E se non se ne farà niente resteranno due alternative: una zona desertificata o una costosa riqualificazione finanziata dal denaro pubblico.
3. Nutrire il pianeta o ingrassare le multinazionali?
Qualcuno ha osservato che la natura demagogica dello slogan nutrire il pianeta trova la sua più pacchiana rappresentazione simbolica nella statua del Norcinello esposta a Malpensa. Si tratta di una delle opere di Dante Ferretti, commissionate per propagandare Expo nel mondo e che, in teoria, dovrebbero trasmettere un messaggio di sostenibilità e distribuzione democratica delle risorse alimentari. Invece quella figura che vorrebbe imitare le opere di Arcimboldo ci presenta un uomo unto, ingordo e gaudente che fa capire chi è il vero committente di Expo: le multinazionali agroalimentari che stanno sfruttando milioni di contadini poveri e devastando l’ecosistema planetario e che promuovono una concezione puramente consumistica dell’alimentazione per le grasse classi medie occidentali.
Per averne conferma basta prendere in considerazioni alcuni dati di fatto. La realizzazione della piazzetta tematica dell’acqua è stata appaltata a Nestlè, la multinazionale che ha monopolizzato una quota consistente della produzione di acque minerali (oltre a una moltitudine di altri prodotti alimentari) e che è la punta di lancia della politica neoliberista che vorrebbe trasformare in merce un bene comune fondamentale per la sopravvivenza di tutti gli abitanti del pianeta qual è l’acqua. Un vero schiaffo in faccia ai movimenti che pochi anni fa hanno vittoriosamente promosso il referendum contro la privatizzazione dell’acqua. Ancora: la costruzione del padiglione Usa è affidata alla società Pioneer Du Pont, all’avanguardia nella produzione di OGM. Da un lato, si presenta Expo come un evento che intende promuovere la sovranità alimentare e il diritto universale al cibo, dall’altro se ne affida la realizzazione a imprese che, con i loro prodotti (pesticidi, ogm e cibo chimicamente manipolato) e con i loro sistemi produttivi (agricoltura estensiva, sfruttamento di lavoro a buon mercato dei Paesi in via di sviluppo, esproprio dei saperi tradizionali e loro trasformazione in conoscenze tutelate da brevetti che i coltivatori saranno costretti a riacquistare a caro prezzo, ecc.) stanno riducendo alla fame centinaia di milioni di persone e distruggendo l’ambiente di interi continenti.
La mistificazione su cui si fonda l’intero progetto è quella della Green Economy, cioè di un modello produttivo che di “verde” ha solo il nome, secondo le più consolidate tecniche di disinformazione e depistaggio del marketing e dell’informazione pubblicitaria. Di fatto, la cosiddetta economia verde non è altro che il tentativo di trasformare in nuova occasione di profitto le stesse devastazioni che l’industria capitalista e il colonialismo hanno prodotto nei decenni passati. Come soluzioni per la lotta contro la fame nel mondo non si indicano la sovranità alimentare, la cooperazione fra piccoli produttoriindipendenti e i metodi di coltivazione biologici bensì l’uso intensivo di OGM e prodotti chimici, la concentrazione proprietaria e produttiva della terra, la grande distribuzione, anche se, per evitare che cittadini e consumatori capiscano che si ripropone esattamente lo stesso modello produttivo che ha provocato disastri, lo si dipinge appunto di verde sfruttando adeguate strategie comunicative. Nel caso specifico di Expo, questo ruolo di legittimazione/depistaggio è affidato ad alcuni marchi che svolgono il compito di indorare l’evento con una patina di cultura “alternativa”, come Coop, Slow Food e Eatily. Tre paladini abbastanza improbabili: Coop, un tempo espressione di reali esperienze di cooperazione mutualistica sia sul piano produttivo che sul piano distributivo, è oggi un colosso commerciale e finanziario che occupa un posto d’onore nella grande distribuzione del nostro Paese e non si distingue in nulla da concorrenti come Auchan, Carrefour e soci. Slow Food, che può contare sull’appoggio di una poderosa rete di professionisti, banche e istituti universitari, rappresenta un modello di “stile” di consumo caratterizzato dall’edonismo culinario dei ceti medio alti più che un pioniere dell’alimentazione alternativa. Quanto a Eatily siamo di fronte a un marchio di successo che esporta il made in Italy nel mondo, uno di quei casi di “eroismo” imprenditoriale che Renzi ha esaltato alla Leopolda, impersonato da un imprenditore arrogante come Oscar Farinetti, che ha minacciato di chiamarsi fuori da Expo (ma poi se ne è ben guardato!) quando qualcuno ha avuto l’ardire di osservare che il commissario Cantone gli aveva affidato l’incarico senza concorso.
4. L’Expo come modello di precarizzazione del lavoro
Quanto finora detto – 1) un progetto che mira a cambiare la struttura stessa della città, rendendola ancora più funzionale alle attività e alle pratiche di vita dei ceti abbienti e ripulendola da tutti gli altri, ad eccezione di chi è chiamato a produrre servizi per le élite accettando di vivere da precario, sottopagato e sottomesso; 2) un progetto che ha riempito le tasche di speculatori, palazzinari e mafiosi e che ci riconsegnerà una città cementificata, “normalizzata” (leggi sottoposta a un crescente regime di repressione) e segnata da una drastica riduzione degli spazi pubblici; 3) un progetto che mentre si spaccia per fiore all’occhiello della Green Economy sarà una vetrina globale per le multinazionali agroalimentari e i loro prodotti – sarebbe di per sé già più che sufficiente per giustificare l’azione di sabotaggio e resistenza da parte di chi rifiuta i modelli economici, sociali e politici del neoliberismo. Ma il punto che più di ogni altro chiama alla mobilitazione è quello del lavoro: l’Expo rappresenta, al tempo stesso, un caso di violenta, diretta ed aperta aggressione alla dignità, alle condizioni di vita e ai diritti di una classe lavoratrice già duramente provata dalla crisi innescata dal capitale globale finanziarizzato e un laboratorio nel quale si intende sperimentare e mettere in atto le nuove forme di organizzazione del lavoro che il governo Renzi sta cercando di legittimare attraverso provvedimenti come il Jobs Act.
Partiamo dal primo punto, cioè dal funzionamento dell’Expo come “fabbrica terziaria” nei sei mesi in cui durerà la manifestazione. Il compito di accogliere, servire e coccolare visitatori e operatori sarà affidato a un esercito di 500 “stagisti” che percepiranno uno stipendio di 500 euro al mese e di 18.000 “volontari” che presteranno la loro opera a titolo del tutto gratuito. Le virgolette sulle parole stagisti e volontari sono d’obbligo. Tutti sanno che con il termine stagisti si tende oggi, nella maggior parte dei casi, a spacciare per formazione professionale ciò che non è altro che la forma più bassa, precaria, dequalificata e sottoretribuita di lavoro giovanile (nel caso degli stage obbligatori imposti dai corsi universitari si potrebbe parlare di un vero e proprio “mercato delle vacche” che l’istituzione universitaria compie sulle spalle degli studenti a favore delle imprese private), ma nel caso dell’Expo questa vergogna raggiunge il colmo: alla fine della manifestazione gli “stagisti” verranno infatticongedati con il titolo di “operatori di grande evento” che, al di là della magniloquenza, significa poco più di commessi, hostess o steward; non avranno cioè imparato praticamente nulla di realmente spendibile sul mercato del lavoro. Quanto ai volontari: con quale faccia tosta può essere definito volontario un lavoro che comporta cinque ore e mezza di attività al giorno in cambio delle spese di trasporto e di un pasto!? Parliamo più onestamente di lavoro gratuito che viene “offerto” in cambio della “possibilità di conoscere milioni di persone” e di “vivere un’esperienza eccitante”, come recitano le pubblicità che invitano i ragazzi a fare i volontari. Conoscere milioni di persone!? Per farci che? Forse qualcuno crede davvero che ci saranno occasioni di intessere relazioni utili per accedere a future opportunità di impiego, quando i contatti si ridurranno alla distribuzione di un volantino, alla risposta a una richiesta di informazioni o a servire un cappuccino? Quanto all’allusione alla natura eccitante dell’esperienza si commenta da sola…
Ancora più ributtante è il fatto che questa propaganda venga condotta anche inviando reclutatori nelle scuole. Così l’Expo fa concorrenza al modello cinese delle cosiddette “zone aperte”, vale a dire di quelle aree della Cina in cui viene consentito alle multinazionali straniere di impiantarsi per sfruttare milioni di migranti interni sottratti a qualsiasi tutela politica e sindacale. I funzionari locali corrotti del Partito Comunista, infatti, garantiscono che i padroni possano impunemente violare tutte le leggi sulla durata e sull’intensità del lavoro, sul divieto del lavoro minorile e sull’infortunistica. Non solo: fanno da reclutatori di migliaia di studenti delle scuole professionali che vengono inviati a sgobbare nelle fabbriche come “stagisti”. Milano Expo che fa dunque il verso alla famigerata Foxconn di Shenzhen, dove vengono prodotti i gadget della Apple anche con il lavoro gratuito degli studenti. E così come i sindacati cinesi di stato sono complici di queste operazioni di supersfruttamento, i nostri sindacati confederali hanno graziosamente concesso il loro imprimatur sia all’operazione stagisti sia a quelli volontari. Una scelta opportunista che rende poco credibile la loro opposizione al Jobs Act del governo Renzi, vale a dire a una legge che, regalando di fatto una pressoché assoluta libertà di licenziamento alle imprese, configura una “riforma” radicale dell’organizzazione del lavoro, preludio a livelli ancora più avanzati di precarizzazione e flessibilizzazione. Possiamo credere che CGIL, CISL e UIL abbiano la volontà di lottare coerentemente e fino in fondo contro questo progetto, quando hanno avallato l’esperimento Expo che ne anticipava la filosofia.
5. Trasformare l’Expo in terreno di battaglia contro il neoliberismo e contro la complicità fra centrodestra e centrosinistra
La complicità sindacale nei confronti dello scandalo degli stagisti e dei volontari è solo uno dei motivi per cui è più che lecito affermare che sul terreno dell’Expo centrodestra e centrosinistra hanno realizzato uno dei punti più avanzati della loro collaborazione. Basti pensare alla stessa candidatura iniziale di Milano per l’Expo, che ai tempi fu sostenuta congiuntamente dall’allora Presidente del Consiglio del governo di centrosinistra Romano Prodi e dal sindaco milanese di centrodestra Letizia Moratti – un’amorosa concordanza d’intenti che non è mai venuta meno fino all’attuale collaborazione fra il sindaco di centrosinistra Pisapia e il governatore regionale di centrodestra Maroni. Basti pensare al fatto che Expo è stato un luogo di sperimentazione avanzato fra le cooperative “rosse” e la formigoniana Compagnia delle Opere (un’unità che ha trovato espressione su molti altri fronti, all’insegna della parola d’ordine pecunia non olet), Basti pensare infine alle retoriche di legittimazione che marchi “progressisti” come la stessa Coop e Slow Food hanno svolto per offrire una patina alternativa a una gigantesca fiera commerciale che di alternativo non ha nulla. Dei sindacati si è già detto poco sopra. Quanto alle sinistre radicali che aderiscono alla coalizione che ha eletto e sostiene il sindaco Giuliano Pisapia(ai tempi “unto” dal leader di Sel Niki Vendola), non siamo a conoscenza di crisi di coscienza che abbiano indotto qualcuno a uscire dalla giunta, nemmeno quando gli scandali sono venuti alla luce, nemmeno nelle occasioni in cui è parso chiaro che la giunta di centrosinistra non aveva la minima intenzione di guastare la festa ai padroni della città.
Spetta dunque ai movimenti e alle forze della sinistra coerentemente anticapitalista condurre la lotta contro questa mostruosa aggressione alla città di Milano. Una lotta che, non potendosi più porre l’obiettivo di impedire lo svolgimento dell’Expo, dovrà puntare a trasformare i sei mesi dell’esposizione in una campagna di resistenza e sabotaggio che faccia pagare il prezzo più salato possibile alla cricca politico affaristica che ha voluto l’evento e ora si prepara a gestirlo. Un prezzo misurabile in termini di immagine, profitti mancati, controinformazione, presa di coscienza e organizzazione da promuovere fra stagisti, volontari, cittadini e visitatori. Se l’Expo è la punta di lancia del processo di trasformazione della città in una grande fabbrica terziaria, per sperimentare nuove forme di produzione del plusvalore, allora noi dobbiamo inventare e sperimentare nuove forme di organizzazione e di lotta in grado di rovesciarne il segno politico.
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