Il 27 giugno 2000 entrava in liquidazione l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) La ristrutturazione/demolizione dell’Istituto era stata avviata fin dal 1981 sotto la presidenza di Romano Prodi, e, da allora la svendita (privatizzazione) del sistema aziendale pubblico italiano divenne applaudita realtà. L’accordo Andreatta – Van Miert (rispettivamente ministro del Tesoro italiano e commissario europeo alla concorrenza) del luglio 1993 sanciva l’impegno di stabilizzare i debiti dell’IRI (così come dell’ENI e dell’ENEL), con l’inevitabile conseguente necessità di privatizzare urgentemente le aziende partecipate.
Nel giugno 2000, come ricordavamo all’inizio, la messa in liquidazione.
Con essa il tramonto definitivo (?) della funzione di responsabilità – di governo dell’economia – svolta dallo Stato, il cui ruolo è ormai diventato soltanto di surrogazione (di ruota di scorta) del settore privato: intervenire con il denaro pubblico per riparare gli errori, le contingenze negative e le mascalzonate compiute da alcuni imprenditori e tanti speculatori privati.
Vale la pena, forse, di ricordare questa data fondamentale, di vera e propria svolta, nell’insieme delle relazioni industriali del Paese ricostruendo alcuni passaggi storici riferiti essenzialmente alla fase dell’intervento pubblico in economia all’epoca del “miracolo economico”.
Lo Stato svolse un ruolo di protagonista importante nello sviluppo di un moderno sistema di grandi imprese industriali in particolare nel corso degli anni’50 – ’60.
I compiti svolti dall’industria pubblica si resero comprensibile direttamente attraverso l’azione di un vasto apparato produttivo sotto controllo pubblico, sia indirettamente come effetto degli indirizzi di politica economica portati avanti in quegli anni dal Governo.
Le due funzioni operarono inizialmente in maniera separata, seguendo strategie autonomamente definite in ambiti operativi diversi, ma muovendosi congiuntamente verso una progressiva integrazione.
Con i provvedimenti attuati tra il 1948 e il 1953 venne dato l’avvio a un processo di riorganizzazione delle partecipazioni economiche dello Stato ma non furono superati limiti di casualità e di frammentarietà.
Nel 1933, infatti, lo Stato attuando un intervento a favore delle grandi banche “miste” (a capitale pubblico e privato) attraverso la creazione dell’IRI agì da puntello della struttura produttiva che si era creata soprattutto al Centro – Nord, in particolare a sostegno dell’industria pesante e di base.
Tale ruolo fu, poi sostanzialmente confermato nell’immediato secondo dopoguerra.
Una situazione mutata nel volgere di pochi anni: nella seconda metà degli anni’50 una serie di successivi interventi legislativi portò a una progressiva ridefinizione di ruoli, caratteristiche e funzioni delle imprese a controllo pubblico, identificando un profilo operativo e funzionale di queste aziende.
Il passaggio fondamentale di questo processo fu costituito dalla legge del 22 dicembre 1956 attraverso la quale s’istituì il ministero delle Partecipazioni Statali.
La nuova struttura organizzativa che fu modellata in quel modo non risolse in quel momento stabilmente l’ambiguità nei criteri di gestione delle imprese tra prevalenza del “momento pubblico” e del “momento privato” nella formazione delle decisioni aziendali: ma attribuendo funzioni di coordinamento e di controllo a un organismo politico, allargò sensibilmente il campo di intervento degli organi dello Stato nell’azione degli Enti Pubblici e delle aziende partecipate disegnando una cornice legislativa e amministrativa favorevole alla creazione di nuovi enti e allo sviluppo dell’azione diretta dello Stato nei diversi settori dell’economia nazionale.
Gli effetti di queste scelte non tardarono a manifestarsi.
Nel 1958 furono creati l’Ente autonomo di gestione per le aziende termali (Eagat), l’Ente autonomo di gestione per il cinema (Eagc) e l’Ente autonomo di gestione per le aziende minerarie (Egam) che divenne operante soltanto nel 1971 con l’affidamento in gestione prima e con il trasferimento delle azioni poi delle miniere di Cogne e dell’Azienda minerali metallici italiani.
I contenuti operativi dell’azione che lo Stato intendeva svolgere sul terreno economico e industriale attraverso le imprese a partecipazione statale furono ulteriormente qualificati e definiti nel corso del 1957 con le nuove norme a favore dell’industrializzazione del Mezzogiorno (legge 634 del 29 luglio 1957) prevedendo l’istituzione di aree e nuclei di sviluppo industriale, l’ampliamento degli incentivi creditizi per gli investimenti nelle regioni meridionali, assegnando alla Cassa per il Mezzogiorno la facoltà di concedere contributi agli istituti di credito a medio termine per operazioni di finanziamento industriale nelle sue aree di attività.
All’interno di questo nuovo quadro normativo la politica industriale dell’impresa pubblica iniziò ad assumere una forte connotazione espansiva e una progressiva divaricazione tra esigenze di gestione e nuovi compiti assunti.
La difesa dei livelli occupazionali, l’impegno a favore dell’economia meridionale e il sostegno a un comparto in rapido declino portarono al rientro dell’IRI nel settore tessile: un impegno pubblico in questo settore che si allargò rapidamente quando nel 1962 l’ENI assunse il controllo della Lanerossi, perseguendo l’obiettivo di un’integrazione verticale delle proprie produzioni.
Attraverso queste operazioni lo Stato tese ad assicurare assistenza a un comparto in declino, intervenendo a risolvere singole situazioni di disagio e difficoltà ma senza assumere l’impegno di un intervento coordinato.
In questa situazione, e con particolare riferimento all’intervento straordinario nel Mezzogiorno, le imprese pubbliche diventarono, quindi, lo strumento privilegiato della politica industriale.
In tal modo la stessa definizione degli indirizzi di intervento e degli obiettivi finì con l’essere scomposta in una pluralità di soggetti autonomi e attuata attraverso una pratica di contrattazione o di concerto fra i diversi contraenti portatori di specifici interessi, costruendo così un quadro di reciproca deresponsabilizzazione.
In questo quadro l’ampliamento delle funzioni attribuite alle imprese a partecipazione statale e l’accrescimento del ruolo che lo Stato era chiamato a svolgere in una moderna economia industriale determinarono un processo di rapida e continua espansione della presenza pubblica nel settore produttivo, indirizzata però da decisioni e orientamenti definiti in ambito governativo e parlamentare, come ad esempio nel caso delle costruzioni ed esercizio della rete autostradale affidata all’IRI attraverso la Società concessioni e costruzioni autostradali che si alimentava della riserva stabilita a favore delle imprese a controllo pubblico dalla legge 21 maggio 1955 che avviava il programma industriale italiano: una scelta decisiva rispetto allo stesso insieme del modello di sviluppo che l’Italia andava ad assumere proprio in quel periodo, con evidenti ricadute sull’industria automobilistica rappresentata, in quel momento, dal più grande gruppo industriale privato, la FIAT.
Nel settore telefonico fu la finanziaria pubblica Stet a guidare il processo di riorganizzazione e unificazione del servizio realizzato in occasione del rinnovo delle concessioni telefoniche in scadenza alla fine del 1955.
Nel corso del 1956 il governo diede via libera all’acquisizione da parte della Stet e, quindi, al passaggio sotto controllo pubblico delle due società telefoniche private: la Teti operante nell’Italia centrale e in Sardegna e la Set concessionaria nel Mezzogiorno e in Sicilia controllate rispettivamente dalla società finanziaria “La Centrale” e dalla svedese Ericsson.
Analoghi processi di riorganizzazione ed espansione della componente pubblica nell’industria italiana interessarono, in quegli anni, il settore siderurgico e quello del trasporto aereo (costruzione dello stabilimento di Taranto, costituzione dell’Alitalia).
A un modello e una pratica di crescita “interna” del sistema delle partecipazioni statali affermatisi negli anni del miracolo economico si sovrappose, nel 1962, con la decisione di nazionalizzare l’industria elettrica, un diverso modello di intervento: punto qualificante del primo governo appoggiato dal PSI e presieduto da Amintore Fanfani la scelta di nazionalizzare l’energia elettrica rappresentò un forte punto di discontinuità, per quanto episodico, nella politica industriale fino a quel punto perseguita.
La creazione dell’Enel ampliò il campo d’azione e gli strumenti di intervento dello Stato nel sistema industriale italiano e segnò profondamente la struttura economica nazionale.
La nazionalizzazione prefigurava una più incisiva capacità di realizzare un disegno di programmazione economica: progetto sul quale si basava l’appoggio al Governo da parte del Partito Socialista.
Rappresentava però già una risposta tardiva alle esigenze di controllo, regolazione e sviluppo in un settore come quello elettrico, che presentava una struttura industriale fortemente consolidata, coesa, stabilmente concentrata intorno a pochi grandi gruppi regionali, di cui alcuni si trovavano già sotto controllo pubblico.
Gli indennizzi elettrici destinati al settore privato (Edison e Sade, innanzi tutto), che favorirono la crescita della chimica e della petrolchimica italiana finanziando la concentrazione del settore culminata nella fusione di Edison e Montecatini nella Montedison, realizzarono una consistente iniezione di liquidità nel sistema economico che, in concomitanza con la stretta creditizia del 1963 – 64 (stagione della cosiddetta “congiuntura”) finì per favorire in maniera selettiva ed esclusiva solo alcuni dei gruppi maggiori e più influenti della finanza e dell’industria.
I capitali innestati, invece, nel settore pubblico dagli indennizzi elettrici concorsero principalmente a sostenere il programma siderurgico e lo sviluppo del settore telefonico: nel 1964 fu costituita la Sip (Società Italiana per l’esercizio telefonico) la cui maggioranza azionaria passò alla Stet, finanziaria del settore.
La vicenda della nazionalizzazione dell’industria elettrica fornì una spinta significativa all’espansione delle partecipazioni statali in campi diversi dai tradizionali settori di intervento.
Nella relazione programmatica presentata al Parlamento nel 1966 dal Ministro delle Partecipazioni Statali del III governo Moro, il democristiano Giorgio BO, si afferma chiaramente che “non esistono specifici campi operativi che debbono a priori essere sottratti a ogni possibilità di intervento imprenditoriale diretto dello Stato attraverso aziende controllate”.
Nello stesso periodo si affermò un modello di crescita del sistema delle partecipazioni statali attraverso interventi di “salvataggio” di imprese private in crisi: l’importanza di questo indirizzo crebbe con l’accentuarsi delle difficoltà per le imprese italiane alla fine degli anni sessanta e trovò una specifica sanzione legislativa con la creazione, nel 1971, di un nuovo ente, la Gestione partecipazioni industriali (GEPI) allo scopo di “concorrere al mantenimento e all’accrescimento dei livelli di occupazione compromessi da difficoltà transitorie di imprese industriali”.
In una direzione di supplenza dell’iniziativa privata si mossero anche gli interventi compiuti dallo Stato nel settore chimico a favore della neonata Montedison, attraverso i quali si determinò una significativa ridefinizione dei confini tra pubblico e privato nell’industria italiana.
L’attività di sostegno e di salvataggio di imprese private si affiancò e si sovrappose ad altre direttrici di sviluppo delle imprese pubbliche e concorse a determinare l’accelerata crescita del settore dalla seconda metà degli anni’60 ai primi anni’70.
La ripresa degli investimenti delle imprese a prevalente partecipazione statale non svolse, però, una funzione di traino degli investimenti complessivi nella fase di ripresa del ciclo economico dopo la crisi del 1963-64, ma piuttosto si orientò a seguire con uno scarto di uno-due anni le tendenze che stavano manifestandosi nel settore privato.
Fu soltanto dopo il ciclo di lotte operaie del 1968-69 che gli investimenti delle imprese pubbliche assunsero un significativo ruolo di sostegno delle dinamiche industriali del Paese con tassi di aumento superiori al 50% a fronte di una rapida contrazione degli investimenti privati.
Il meccanismo di accumulazione e di crescita sviluppatosi in Italia negli anni’50 – ’60 entrò in crisi nella prima metà degli anni’70 per il brusco mutamento delle condizioni interne e internazionali.
L’Italia andò, a mano a mano aumentando la dipendenza dai costi delle materie prime e, in particolare, del petrolio.
Il disordine monetario causato dalla fine del sistema dei cambi fissi che era stato determinato a Bretton Wood nel 1944 e la drammatica accelerazione dell’inflazione interna rappresentarono fenomeni che incisero profondamente sui margini operativi dell’industria italiana, sia dal lato dei costi di produzione che da quello dei mercati di sbocco.
Tra il 1974 e il 1975 si verificò una repentina caduta anche degli investimenti pubblici: nel 1975 oltre agli investimenti anche il saggio annuale di sviluppo del prodotto interno lordo presentò, per la prima volta dal dopoguerra, un segno negativo, a sancire la fine della lunga fase di sviluppo postbellico.
Si aprì a quel punto una nuova stagione, sostenuta dal mantenimento di dati di crescita nel settore delle piccole e medie imprese, cresciute e aggregatesi nel corso dei due decenni precedenti.
Mutava il modello di sviluppo favorito dalla disponibilità e diffusione di nuove tecnologie ad alto contenuto elettronico e informatico che scalfirono la rigidità nell’impiego del fattore capitale e introdussero novità rilevanti nell’organizzazione del lavoro.
La crescita della domanda di beni s’indirizzò verso una diversa progressiva specializzazione e diversificazione dei prodotti.
I fattori di crisi si saldarono, quindi, con processi di trasformazione strutturale nel determinare la chiusura di una unga fase di sviluppo centrata sulla grande impresa.
Mancò la capacità e la visione progettuale di affrontare un profondo processo di ammodernamento e ristrutturazione, e l’affermazione di un diverso sistema “tecnologico” preferendo la via della ritirata, culminata appunto esattamente 15 anni fa con la messa in liquidazione dell’IRI.
Il risultato complessivo di questo cedimento appare evidente sotto gli occhi di tutti: le basi strutturali dell’industria italiana risultano estremamente limitate per la frammentazione e lo sviluppo solo parziale del mercato interno, che da molto tempo non è più in grado di assicurare linee di rifornimento e di sbocco privilegiato a imprese impegnate nella competizione internazionale nei settori strategici.
Da ciò deriva, in una fase ormai dominata da tempo dai fenomeni della finanziarizzazione dell’economia, della presenza di nuovi protagonisti dalle enormi dimensioni e disponibilità, della globalizzazione una condizione di fragilità permanente che costituisce un fattore ormai stabile nel frenare qualsiasi ipotesi di nuovo sviluppo industriale.
Abbiam così assistito al successo di una strategia di ”dominio” esterno accentuato dall’entrata in scena dei meccanismi monetaristi dell’Unione Europea e dagli errori strategici commessi a quel livello fin dal trattato di Maastricht e nella costruzione della moneta unica.
Un “dominio esterno” non contrastato da un potere politico corrotto e incapace di rilanciare una vocazione di intervento positivo nel campo della programmazione dell’economia, che ha causato la situazione di permanente debolezza nella produzione, nei livelli di occupazione, di ritardo nella crescita della ricchezza nazionale.
Paghiamo così con durezza le responsabilità storiche di un’inesistente “classe dirigente”.
Per redigere questo testo sono stati consultati: “Storia dell’Italia Repubblicana” III volume – G. Bruno “Le imprese industriali nel processo di sviluppo” (1953- 1975); IV volume – F. De Felice “Nazione e sviluppo, un nodo non sciolto”. – Einaudi Torino 1995
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