Libro sconsigliato agli impressionabili ma consigliatissimo a chi vuole informazione documentata e pressochè inoppugnabile. Consigliatissimo anche a chi è cresciuto con la nozione della missione difensiva e protettiva, propria del sionismo storico, dello stato di Israele. Quanti ebrei nel mondo, in particolare quelli della generazione sopravvissuta alla guerra mondiale, all’Olocausto e di quella immediatamente successiva hanno interpretato, pur non vivendola direttamente, l’esistenza e la natura di Israele come rifugio e compensazione dovuta dalla comunità mondiale, qualcuno anche come esperimento socialista? Tantissimi, e su quella nozione si sono fermati perchè i presupposti erano sufficienti a giustificare i cosiddetti errori inevitabili. La Guerra Fredda con le sue divisioni ideologiche e la prima guerra “d’indipendenza” contro gli stati arabi circostanti hanno fatto il resto, sclerotizzando alcuni nelle proprie opinioni, creando ulteriori giustificazioni, forse incrinando nei più sensibili qualche certezza. Nessun ebreo democratico della diaspora della vecchia generazione poteva forse immaginare la portata della trasformazione in corso nel loro Stato di riferimento malgrado la nascita dell’Olp e le turbolenze causate dall’attività delle varie organizzazioni della resistenza palestinese. Tutto, in fondo, si giustificava, magari con fatica, come Sabra e Shatila, come le invasioni “preventive” del Libano, come gli omicidi “preventivi” mirati dei leader palestinesi fino alle braccia rotte ai bambini della prima Intifada su ordine del comandante Ytzak Rabin.
Vittorie militari, assetto parlamentare su modello “democratico” occidentale, lo spettro sempre evocato dell’Olocausto fatto industria e pilastro di vittimismo storico hanno consolidato negli ebrei di tutto il mondo la fiducia sconfinata nella Terra Promessa facendo loro chiudere occhi, orecchie e bocca anche di fronte alle peggiori evidenze. Presso l’opinione pubblica mondiale, il resto del lavoro di legittimazione dei comportamenti di Israele l’ha fatto un insieme di fattori che il libro affronta a muso duro fino a portarci a riesaminare criticamente i miti fondanti dello Stato ebraico e la sua collocazione nel nuovo assetto del potere globale dominante del ventunesimo secolo.
Il focus, come richiama il titolo, è la Striscia di Gaza intesa come entità geopolitica paradigmatica nei progetti israeliani e nella realtà quotidiana ma soprattutto come oggetto di accusa nei confronti di Israele stesso e dell’intera comunità occidentale. I dati e le testimonianze portate non sembrano lasciare dubbio alcuno e portano molto aldi là di quanto la percezione abbia mai potuto andare per il semplice cittadino o per l’osservatore superficiale: Gaza è al centro di un progetto di pulizia etnica sui palestinesi, un campo di prigionia sigillato da terra, dal mare, dal cielo, nell’etere virtuale e tecnologico, soggetto a punizioni collettive che violano ogni tipo di norma internazionale, laboratorio di esperimenti letali per ogni nuovo sistema d’arma da commercializzare sui mercati col marchio di garanzia “testato in combattimento”, oggetto di esperimenti estremi di controllo poliziesco, politico e mediatico da proiettare e esportare su scala globale. L’obiettivo – sostengono gli autori – è il genocidio di una popolazione definibile ormai “superflua” e di ostacolo non solo all’espansione del colonialismo da insediamento israeliano ma ai nuovi programmi di suddivisione del Medio Oriente, i cui tempi sono dettati solo più dall’opportunità. In questo quadro, lo Stato di Israele si propone come avanguardia armata del nuovo ordine mondiale del capitalismo transnazionale neoliberista.
E’ un quadro fosco quello che viene rappresentato con dovizia di materiali di ogni provenienza che trae il primo spunto dall’analisi della radicalizzazione delle posizioni razziste nella società israeliana legate alla crescita della destra religiosa nell’esercito e nelle istituzioni di cui il governo Nethaniahu è solo l’ultimo dei sintomi. Ma è il progetto stesso dello stato di Israele che fin dagli albori portava i germi della degenerazione, delle scelte inevitabili se si voleva farlo nascere: “Uno Stato ebraico non poteva nascere – dice lo storico americano Benny Morris in un’intervista a Haaretz del gennaio 2004 – senza lo sradicamento di 700.000 palestinesi. Era necessario farlo.Non vi era altra scelta…La necessità di costituire questo Stato in questo posto metteva in secondo piano l’ingiustizia nei confronti dei palestinesi sradicandoli…”
L’occupazione progressiva che ne segue è accuratamente programmata secondo linee di esclusione che, a vari livelli, investono anche la popolazione palestinese incorporata come minoranza segregata all’interno dello Stato. Le colonie nei territori occupati sono sistemate inizialmente su alture dominanti il territorio secondo il sistema antico della “torre e palizzata”, veri e propri fortini che si estendono gradatamente sulla terra circostante e vengono circondati e protetti da moderni “valli”, reticolati, muri, strade e infrastrutture “dedicate” ai coloni fino a inghiottire, cancellare, radere al suolo pascoli, coltivazioni, proprietà palestinesi in Cisgiordania e Gaza. Check points, permessi limitati, trincee, pattugliamenti permanenti, casermette, completano le misure mirate a rinchiudere i palestinesi in enclavi sempre più ristrette, non comunicanti e controllate e a rendere irreversibile un qualsiasi processo di restituzione di terre.
Il muro voluto da Rabin nel 1994 per separare completamente la Striscia da Israele è emblematico e precursore di quello che verrà costruito anni dopo in Cisgiordania: 52 km di filo spinato con torri e sistemi elettronici di sorveglianza. Alla frontiera con l’Egitto un muro d’acciaio.All’interno, la Philadephi Road costruita su terre confiscate ai contadini, pattugliata dai militari. Sul confine egiziano, a Rafah, distruzione sistematica delle case per fare spazio a una “zona cuscinetto”. All’epoca, prima del ritiro dei coloni da Gaza nel 2005, altri sistemi di chiusura e di blocchi militari rinforzavano l’isolamento mentre il litorale era chiuso dalla marina. Risultato: già da allora, un milione di palestinesi veniva rinchiuso in una prigione a cielo aperto la cui economia stessa era subordinata a quella israeliana tramite i permessi di importazione e transito centellinati dall’autorità di occupazione, la restituzione delle tasse, i finanziamenti internazionali sbloccati secondo opportunità.
Con il ritiro dei coloni da Gaza nel 2005, interpretato dalla stampa internazionale e dalle anime buone come un gesto di pace e buona volontà, la situazione peggiora ulteriormente perchè la gabbia viene definitivamente chiusa. A quel punto, le operazioni militari colpiscono nel mucchio senza ritegno e senza badare ai diritti o alle convenzioni internazionali. E’ il disegno di sterminio di massa che procede tappa dopo tappa. Ne fanno fede esternazioni come le seguenti.
Il 30 maggio 2007. Shmuel Eliyahu, figlio del rabbino capo sefardita responsabile di un pamphlet distribuito nelle sinagoghe, al Jerusalem Post in appoggio ai bombardamenti su Gaza: “Se non si fermano dopo che ne abbiamo uccisi 100, allora dobbiamo ucciderne 1000, e se non si fermano dopo 1000 allora dobbiamo ucciderne 10.000. E se ancora non si fermano dobbiamo ucciderne 100.000 e anche un milione. Dobbiamo fare qualsiasi cosa per farli smettere.”
Ytzak Shapira, rabbino, nel suo libro The King’s Torah del 2007: ” C’è una giustificazione nell’uccidere i bambini se è chiaro che essi cresceranno per danneggiarci“.
Nel 2014, in piena operazione militare Margine Protettivo, il tema viene ripreso in termini analoghi da Ayelet Shaked, parlamentare, poi ministro della Giustizia del governo Netanyahu dal 17 marzo 2015, sulla sua pagina Fb: “Nemici sono tutti, gli anziani e le donne, le città e i villaggi, le proprietà e le infrastrutture…le madri devono seguire i figli ‘martiri’, le madri che crescono serpenti, altrimenti altri piccoli serpenti cresceranno qui”.
E negli stessi giorni, Moshe Feiglin, vice speaker della Knesset, elenca sulla sua pagina Fb i tre punti su cui basare la soluzione finale ” e risolvere definitivamente il problema Gaza:
- Pulizia etnica dei palestinesi di Gaza verso il Sinai, concentrazione in campi lontani da aree abitate, in attesa di essere inviati, migranti, in varie parti del mondo
- Bombardamento con il massimo fuoco possibile delle aree più popolate della Striscia e distruzione di tute le infrastrutture civili e militari, dei mezzi di comunicazione e della logistica
- L’esercito dovrebbe dividere il territorio in tre parti, occupare le posizioni dominanti e sterminare i gruppi di resistenza.”
Una deriva razzista e militarista sconvolgente che si è da tempo radicata in tutti gli strati del Paese costringendo persino 40 sopravvissuti e 287 discendenti dei campi di sterminio nazista a far pubblicare su Haaretz il 23 agosto 2014, un appello ripreso due giorni dopo dal New York Times a “porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese“.
Nemmeno nei cosiddetti periodi di tregua viene dato respiro alla resistenza palestinese e si succedono, arresti, incursioni notturne, omicidi mirati.
La distruzione stessa è funzionale a Israele: ne beneficeranno, tra i tanti, le imprese edilizie israeliane con il denaro dei contribuenti internazionali e grazie alle limitazioni dei finanziamenti che transitano alla sola Anp in cambio della collaborazione con Israele su schedature e repressione “preventiva” dei militanti, come da accordi “di pace” vigenti.
Con il colpo di Stato in Egitto di Al Sisi, le catene si stringono ulteriormente: l’unico valico che dava respiro alla Striscia, viene tenuto ripetutamente chiuso e i tunnel da cui l’economia di Gaza aveva ripreso ossigeno distrutti sigillando definitivamente i palestinesi in attesa del momento opportuno, per Israele, di affondare il colpo e portare a compimento l’olocausto con espulsioni di massa e altri massacri. Insomma, Gaza come enorme carcere con le sue celle e i suoi detenuti, senza speranza e senza avvenire che non sia un sacrificio di massa alle esigenze di espansione e dominio della terra di Israele.
L’industria della menzogna e della negazione di quanto sta avvenendo in Palestina a sua volta sigilla la percezione dell’opinione pubblica mondiale e la sua capacità di critica. I media occidentali svolgono il ruolo di diffusori della propaganda isrealiana, degli elementi di vittimismo storico che vengono sollevati di fronte alle sparute voci critiche, della mistificazione dei termini come “terrorismo” e “prevenzione”, dell’utilizzo sistematico del doppio standard denunciato già nel 2000 da Edward Said, docente americano-palestinese che ricordava che quando due parti non possono contare sulle stesse forze, trattarle da pari equivale a schierarsi contro il più debole.
Da Gaza al resto del mondo (occidentale) il passo è breve. Perchè viene naturale, ed è uno dei pregi di questo studio, alzare lo sguardo e rilevare che Israele esporta sui mercati mondiali i prodotti della propria industria dello sterminio: i software, le armi, i manufatti (giova ricordare che in Val Susa è utilizzato il filo spinato israeliano per cintare il cantiere Tav), le consulenze militari e soprattutto il modello di militarizzazione delle comunità, il modo di vedere il mondo come “una dominazione di successo”. L’esperienza acquisita nella colonizzazione, espropriazione e segregazione dei palestinesi fa di Israele “il capofila di un’industria globale della violenza”, un “laboratorio della guerra urbana asimmetrica”, intesa come disuguale, sproporzionata. “Nessuna altro paese – recita un opuscolo del governo israeliano dal significativo titolo Israel homeland security: Opportunities for Industrial Cooperation – a tecnologia avanzata ha una percentuale cosi alta di cittadini con un’esperienza in tempo reale nell’esercito, nella sicurezza e nelle forze di polizia“. Niente di più vero. Ne fanno fede l’addestramento di polizia, militari e milizie varie (curdi compresi, tanto per fare un riferimento attuale), sistemi di sorveglianza, informazione e spionaggio, tecnologia di confine, tecniche di controinsurrezione, di prevenzione e gestione delle crisi, contribuendo su scala mondiale alla “trasposizione in ambito civile dei metodi e delle tecnologie che tradizionalmente appartenevano all’ambito militare“. Non sfugge che l’esperienza israeliana nella sicurezza interna e nel controllo sociale, è fortemente richiesta e utilizzata altrove “per mettere in sicurezza i grandi eventi, dai vertici politici alle manifestazioni sportive,… impiegando per le operazioni di controllo della folla le stesse armi non letali (gas, robot a controllo remoto armati per agire in contesto urbano e semiurbano, ) utilizzate contro i palestinesi“.
Ma c’è una nemesi incombente: Quando tutti i muri in progetto anche sui confini esterni (Golan, Libano e Giordania) saranno completati, “Israele si troverà circondata da barriere d’acciaio, muri di cemento alti fino a otto metri, filo spinato, trincee, zone cuscinetto, telecamere e sensori elettronici, strumentazione per visione notturna, sistemi di rilevazione termica… gli israeliani stessi si saranno rinchiusi dentro una grande prigione a cielo aperto“.
Come anticipato, bisogna avere il coraggio di arrivare al termine di questa lettura. E’ una finestra che si apre su una realtà terribile che tutti, gentili e ebrei, dovremmo voler conoscere per quello che è. Tra quegli ultimi in particolare, o almeno tra gli ebrei democratici, sarebbe importante che un giorno si aprisse una riflessione che non potrà che essere dolorosa ma essenziale per la salvezza delle coscienze, per un pensiero indipendente, per non sentirsi più legati a una forma-Stato che purtroppo li ha traditi, che ha rinnegato il progetto originale di paese-rifugio per diventare qualcosa di inaccettabile. Qualcosa che progetta la soluzione finale per un altro popolo, che esporta violenza, che domina con un sistema di apartheid dichiaratamente razzista, che, per scendere nel nostro piccolo, sceglie come ambasciatore in Italia una persona eletta in parlamento nelle liste di Alleanza Nazionale: un percorso compiuto che dovrebbe far pensare, un ostacolo ideologico evidentemente superato. Qualcosa che ci deve far sperare di poter vedere un giorno in Palestina un unico Stato multi etnico e multiconfessionale come è richiesto a tutti gli altri. Un sogno oggi quasi impossibile da nutrire per la quantità di odio e distruzione che Israele ha finora seminato ma bisognerebbe sforzarsi di crederci. (F. S. 29.11.2015)
Enrico Bartolomei, Diana Carminati, Alfredo Tradardi – Derive e Approdi, 2015
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