Ross@ in questi due anni e mezzo è stata qualcosa di diverso dalle aspettative iniziali ma ha prodotto qualcosa di più delle aspettative possibili.
Quando nel maggio del 2013 siamo partiti con la prima assemblea nazionale di Ross@ a Bologna, l’ipotesi era quella di una ricomposizione delle forze e delle soggettività della sinistra alternativa alle prese con la loro crisi di prospettive. Una impresa che si è rivelata impossibile allora ma che si dimostra impossibile anche oggi. Una Ross@ che avesse scelto come unica strada quella del dibattito e della ricomposizione “della sinistra”, oggi sarebbe imbrigliata e logorata dall’elettoralismo, dall’ansia di sopravvivenza e dalla supremazia della tattica rispetto ad ogni progetto con un respiro più lungo.
La rottura tra l’ìpotesi di Ross@ a i residui della sinistra radicale si è data nella valutazione sulla natura dell’Unione Europea, ma in realtà è stata una rottura più profonda e articolata. L’analisi di Ross@ sulla Ue, minoritaria per tutto un periodo, è diventata – dopo la vicenda greca – una chiave di lettura che ha conquistato sempre maggiore attenzione e consenso. Anche la gradualità con cui Ross@ è arrivata a declinare la rottura con l’euro dentro quella più generale con l’apparato e i trattati dell’Unione Europea, si è rivelata più convincente e più corretta di una posizione meramente antieuro nei fatti subalterna alla demagogia della destra.
Ma il vero nodo su cui Ross@ ha rotto con le liturgie della sinistra radicale, è stato sulla rappresentanza politica. Il non ritenere più scontato che la sinistra rappresentasse un blocco sociale e i suoi interessi campando di rendita sul passato, incluso sul piano elettorale diventato una vera e propria dannazione, ha messo fine ad un tormento e ad una mistificazione.
In primo luogo perché la frammentazione materiale e ideologica del blocco sociale antagonista ha modificato in profondità le relazioni, in secondo luogo perché questo rapporto va ricostruito completamente avendo chiaro ciò che è stato (e che non c’è più), ciò che c’è a disposizione materialmente (alcuni settori sindacali, alcuni movimenti sociali, alcuni intellettuali), e ciò di cui ci sarebbe bisogno ma che non è affatto a portata di mano, né di Ross@ né dei residui della sinistra radicale.
In secondo luogo perché gli interessi di classe da “rappresentare politicamente”, oggi sono diventati in molti casi “spuri”, intrecciati tra settori di classe che dentro la crisi hanno cambiato collocazione nella piramide sociale (dalla discesa agli inferi dei ceti medi, alla brutale proletarizzazione del lavoro salariato nei servizi etc.). Questo cambiamento lo si vede e percepisce anche sul piano delle vertenze sindacali, diventate più dure e con maggiori possibilità di successo in alcuni settori legati alla circolazione (logistica, grande distribuzione, trasporti) piuttosto che alla produzione o ai servizi consolidati nel pubblico impiego.
In questo senso il convegno/forum che Ross@ intende organizzare proprio su composizione di classe, blocco sociale antagonista e rappresentanza politica (vedi la bozza elaborata da Carlo Formenti), coglie pienamente la contraddizione su cui lavorare e sulla quale Ross@ – così come fatto con il convegno di Parma sull’Unione Europea e l’euro – può portare concretamente un contributo di qualità successivamente socializzabile – come è stato dopo Parma – sul piano dell’azione sindacale, sociale, politica, culturale in tutti gli ambiti in cui i militanti e le militanti di Ross@ sono presenti ed attivi.
Ross@ oggi è espressione di un piccolo numero di militanti ed ha indubbiamente avuto enormi difficoltà a consolidarsi e pesare come struttura nazionale, mentre si è rivelata efficace nella crescita delle realtà territoriali che l’hanno vissuta e gestita – giustamente – come uno strumento di espressione politica adeguato alle proprie esigenze. Ross@ dunque ha dovuto e potuto agire più efficacemente sul piano della qualità piuttosto che su quello quantitativo.
Ma le intuizioni e le elaborazioni di Ross@, oltre che gruppi locali attivi, sono state input positivi e decisivi che hanno fatto crescere intorno a se esperienze importanti e con grandi potenzialità di crescita.
E’ il caso della Carovana delle Periferie a Roma o, sul piano nazionale, la Piattaforma Sociale Eurostop. Ma potremmo citare anche l’iniziativa contro l’Expo a Milano (l’unica dopo gli scontri del 1 Maggio), la credibilità espressa a Bologna e Parma, la campagna sul reddito minimo e capacità di movimento espressa a Napoli, la qualità/puntualità del sito e delle pagine sui social network. Tutte cose che viste da dentro sembrano poca cosa, ma viste da fuori – rispetto al marasma e alla pecioneria ormai dilaganti nella sinistra – hanno consolidato una immagine di credibilità che, insieme alla qualità, è il vero patrimonio che Ross@ può spendere in questa fase. Siamo pochi? Si, ma anche tutti gli altri ormai sono poca cosa. Ross@ almeno ne è consapevole e individua nella qualità delle proposte e delle iniziative la propria funzione propositiva in una fase di pesante frammentazione e inerzia dei e nei movimenti, nella sinistra alternativa e nel sindacalismo di classe. L’input inviato con le manifestazioni del 16 gennaio contro la guerra è un indicatore utile sia dei problemi che delle possibilità.
Aver sedimentato un livello minimo di organizzazione, aver proceduto come intellettuale collettivo, aver respinto supponenza ma anche subalternità, ci consentono di affermare che l’esperienza di Ross@ non è superata, o meglio non può essere ancora superata fino a quando una esperienza più avanzata ed efficace sul piano della ricomposizione politica, sociale, sindacale – il riferimento oggi più ovvio è la Piattaforma Sociale Eurostop – non si sarà consolidato.
Sia come Ross@ che unitariamente dentro le esperienze locali o nazionali di ricomposizione che Ross@ ha animato, nei prossimi mesi saremo impegnati su alcuni terreni individuati a partire dalla continuità delle iniziative e della campagna per la rottura con l’Unione Europea, l’euro e la Nato, dunque:
– La mobilitazione contro la guerra a partire dal coinvolgimento dell’Italia nell’intervento militare in Libia, contro le basi/servitù militari nei territori, per l’uscita dalla Nato
– La mobilitazione contro i diktat dell’Unione Europea, per indicare ormai la rottura e le soluzioni alternative ad una camicia di forza che imbriglia e distrugge sia le esigenze popolari che la democrazia rappresentativa
– La nostra articolazione nella campagna per il No nel referendum/plebiscito di Renzi sulle riforme controcostituzionali del prossimo ottobre
– L’intervento autonomo dentro le scadenze elettorali locali di giugno in alcune grandi città dove siamo presenti. Dentro esperienze unitarie lì dove ci sono le condizioni (Napoli), con iniziative proprie e di contenuto lì dove queste condizioni non ci sono (Bologna, Roma, Milano).
Una fase storica con scenari inquietanti
E’ evidente come siamo ormai dentro una fase storica di enormi contraddizioni irrisolte e accumulate. Le ricette tradizionali con cui i capitalismi hanno affrontato le crisi nei decenni successivi al dopoguerra si rivelano inefficaci. Tutti gli economisti dell’establishment riuniti al forum di Davos (incluso il Fmi) parlano solo di incertezze. Lo stesso Draghi ha affermato poco tempo fa che “ci muoviamo su terreni sconosciuti”. Per la prima volta il crollo dei prezzi petroliferi non ha avuto effetti positivi ma recessivi anche nei paesi consumatori. Lo stesso sistema finanziario – che affida metà delle transazioni mondiali a robot e computer che rispondono a input per vendere o comprare – ha acquisito una dimensione abnorme e per molti aspetti ingovernabile. La crisi poi, dopo aver colpito i paesi a capitalismo maturo (Usa, Unione Europea) si è abbattuta anche sui Brics (a partire dalla Cina e dal Brasile) che per tutta una fase ne erano sembrati immuni, anzi sembravano poter essere la locomotiva del mondo che avrebbe tamponato la recessione nei paesi occidentali. Adesso tutti sanno che così non è e che la stessa manovra sull’immissione di liquidità da parte delle banche centrali rischia di creare – se non l’ha già creato – una nuova bolla finanziaria.
Le vecchie camere di compensazione dei capitalismi (Fmi, Wto, G8, Nato) non funzionano più. Sicuramente non funzionano più come prima. Alla concertazione tra simili si va sostituendo la competizione globale in cui emergono continuamente nuovi soggetti (vedi le ambizioni delle borghesie islamiche). Il vecchio Kissinger scrive che l’ordine mondiale che abbiamo conosciuto non c’è più. Ma le idee sul nuovo ordine mondiale scarseggiano e veleggiano nell’incertezza. E’ sotto gli occhi del mondo – e soprattutto è l’incubo rivelato in più occasioni dai settori più conservatori e guerrafondai statunitensi – il declino relativo dell’egemonia globale Usa a fronte dell’emergere di nuovi competitori. E’ dentro questi mutevoli e contraddittori rapporti di forza mondiali che ad esempio il progetto del TTIP tra Usa e Unione Europea vede equivalersi sia le possibilità di realizzarsi che quelle di affondare. La riaffermazione della perdurante supremazia militare Usa, suona come la minaccia di un imperialismo egemonico che non accetterà di ridurre il suo peso nelle relazioni internazionali senza ricorrere ad ogni mezzo per mantenere lo statu quo.
E’ evidente come dentro questo contesto la guerra torna ad essere non più una deterrenza sullo sfondo delle relazioni internazionali ma un fattore concreto che agisce nella realtà. Abbiamo scritto per le manifestazioni del 16 gennaio che siamo dentro una sorta di Guerra dei Trent’anni, combattuta per definire un nuovo ordine mondiale dopo la caduta del Muro di Berlino e dell’Urss di cui la prima Guerra del Golfo del 1991 è stato l’inizio.
Oggi lo scenario di guerra a maggiore rischio di escalation è il Medio Oriente, ma è evidente come tensioni e punti di rottura potrebbero darsi anche in altri scenari come l’Asia o le frontiere est della Nato allargata. E’ una guerra con molteplici fronti e molteplici soggetti, con contrapposizioni nitide ma anche alleanze a geometria variabile, soprattutto in Medio Oriente dove pesa la competizione tra tre potenze regionali come Arabia Saudita, Turchia e Iran per chi possa e debba rappresentare le ambizioni di una crescente borghesia arabo-islamica (sia sunnita che sciita). E’ evidente come le primavere arabe siano diventate rapidamente autunno e inverno. La spinta alla democratizzazione e alla giustizia sociale che le ha animate (in Tunisia ed Egitto particolarmente) è stata ben presto depotenziata dalla dottrina “evolution but not revolution” della Casa Bianca. Mentre in altri casi (Libia, Siria) sono state rapidamente trasformate e arruolate in operazioni di violento “regime change” che hanno spazzato via ogni anelito progressista e spianato la strada al jihadismo. La destabilizzazione sistematica teorizzata e praticata in Medio Oriente e Africa dalle potenze imperialiste occidentali, avrebbe dovuto consegnargli un mondo ripulito dalle conquiste della decolonizzazione, più diviso, indebolito, a totale disposizione ed invece ha prodotto situazioni fuori controllo e ulteriore destabilizzazione (incluso gli enormi flussi di profughi).
Ma sui pericoli di guerra e l’escalation, pesa anche un altro cambiamento di status: il possesso di armi nucleari. Il monopolio della deterrenza nucleare della guerra fredda non esiste più. Ormai ci sono anche altri paesi che posseggono testate nucleari al di là delle due maggiori potenze mondiali o della Nato (Cina, India, Pakistan, Corea del Nord, Israele, forse l’Iran e l’Arabia Saudita). Non solo. L’evoluzione delle armi nucleari, ne ha prodotte di nuove, con un raggio più circoscritto e dunque con una soglia di utilizzabilità più alta.
Convivere con questa drammatica connessione tra crisi sistemica irrisolta del capitalismo e aumento dei pericoli di guerra, ci indica una fase storica completamente diversa da quella che le ultime due generazioni (ossia le nostre) hanno vissuto fino ad oggi.
L’Unione Europea si rafforza mentre crescono le sue contraddizioni
E’ evidente come tutti i fattori di crisi agiscano e incidano anche sul processo che ha portato alla costruzione dell’Unione Europea. C’è quello della crisi economica indubbiamente, ma c’è anche quello – del tutto imprevisto – dei flussi di profughi, rifugiati, migranti che si riversa sull’Europa e del suo legame con i teatri di guerra e devastazione che investe Medio Oriente e Africa.
L’apparato dell’Unione Europea ha retto e si è rafforzato dentro la crisi economica, anzi l’ha utilizzata proprio per stringere in una rete di trattati vincolanti tutti i paesi aderenti accanendosi a mò di esempio contro quelli più deboli (Grecia). Ma sulla indisponibilità della Germania e del blocco di paesi nordeuropei nella “condivisione delle risorse” e sulla gestione dei flussi di profughi e rifugiati, l’Unione Europea sta entrando in forte sollecitazione. L’idea originaria era quella di una gestione ordinata e selettiva che consentisse di riempire i buchi demografici del mercato del lavoro, equilibrando i danni dell’invecchiamento della popolazione attiva con i nuovi arrivi. Ma la dimensione e le caratteristiche dei flussi hanno fatto saltare questo piano. Non solo. Nel “core” del modello produttivo europeo si fa strada l’automazione che prevede l’eliminazione di 4 milioni di posti di lavoro nel prossimo decennio. Una soluzione questa che esclude o limita fortemente la domanda di “forza lavoro”. Entrambe le misure hanno un unico obiettivo condiviso: l’abbassamento generalizzato del costo e della rigidità del lavoro, la riscrizione completa della legislazione sul lavoro in tutti i paesi, da quelli più deboli a quelli più forti.
La revisione del trattato di Shengen sulla circolazione delle persone, trova consensi nelle forze europee reazionarie e dissensi tra le forze capitalisticamente più avanzate. Non solo. La chiusura delle frontiere ammasserebbe i profughi in una regione periferica ma vicina alle frontiere Ue come i Balcani, già frammentati, divisi e destabilizzati dalle guerre precedenti condotte dalla Nato e dove, ad esempio, già esiste uno stato islamico consolidato (il Kosovo) o enclavi jihadiste consolidate in Bosnia, Macedonia e Bulgaria. Insomma una “bomba” a ridosso delle proprie frontiere. Una situazione analoga è quella sulla frontiera sud, quella marittima del Mediterraneo e della Libia sulla quale già si va delineando lo scenario di un nuovo intervento militare delle potenze occidentali.
In secondo luogo l’Ue si sta confermando come asimmetrica e “matrigna” con gli stati più deboli, inclusa l’Italia. La vicenda del non salvataggio delle banche, il blocco del South Stream e specularmente l’allargamento del North Stream dalla Russia verso la Germania, l’impedimento del salvataggio dell’Ilva (con le multinazionali che puntano a prendersi la quota di mercato della maggiore acciaieria italiana), lo scontro sulla flessibilità nelle politiche dei bilanci pubblici, stanno alimentando una reazione contro i diktat della Ue che comincia a mettere sul piatto un bilancio tra costi e benefici inimmaginabile fino a pochi anni nel paese “più europeista d’Europa”. Renzi, da demagogo, interpreta questo crescente sentimento del paese. Tutta la stampa padronale sembra affiancare Renzi in questa sua levata di scudi contro la Germania, il suo indiscutibile surplus accaparrato a spese degli altri paesi, il suo rifiuto a condividere a livello di unione le risorse. Nessuno nelle elites italiane mette in discussione l’adesione all’Unione Europea, ma è evidente che la gerarchizzazione economica, monetaria, industriale, tecnologica, politica imposta da Bruxelles stia presentando i conti, confermandosi come una camicia di forza.
L’Unione Europea è dunque in crisi? Osservando la tabella di marcia dei comitati dei tecnocrati sembra il contrario, anzi la produzione di direttive vincolanti diventa sempre più invasiva e dettagliata. Anche sul piano militare, per esempio sull’intervento in Libia, assistiamo a spinte e obiettivi diversificati tra le varie potenze europee, ma è altrettanto vero che una buona parte della pianificazione dell’intervento in Libia – come ha rivelato Wikileaks rendendone pubblici i documenti – è stata realizzata fin nei dettagli nell’ambito del Comitato Militare Europeo.
Questo modello autoritario e “tecnocratico” di governance europea, è la conferma che questo apparato non è in alcun modo riformabile e che solo una rottura con esso può offrire una possibilità al nostro e agli altri paesi europei di sottrarsi alla camicia di forza.
Ma questa gerarchizzazione produce effetti sul nostro blocco sociale e in ampi settori sociali. E’ evidente come la liquidazione degli assetti costituzionali emersi dal dopoguerra sia uno di questi effetti. La brutale richiesta della banca d’affari Jp Morgan di messa in mora delle costituzioni nazionali che favoriscono le istanze sociali, è parte integrante del modello di governance ispirato da Bruxelles e dall’ideologia ordoliberale di stampo tedesco e neoliberista di stampo anglosassone. La fine della democrazia rappresentativa così come l’abbiamo conosciuta è parte integrante della governance europea a tutti i livelli: da quello sovranazionale, a quello nazionale fino agli enti locali.
Il modello di governance delle classi dominanti europee (tedesca in gran parte ma ormai con caratteristiche sovranazionali) è quello che istituzionalizza la “guerra contro i poveri” come visione del mondo e della società, e della “guerra tra poveri” come strumento di depotenziamento dei diritti e del conflitto sociale. E’ impressionante poi la crescita degli apparati coercitivi ispirati dal pilota automatico. Dagli eserciti professionali e gli apparati di sicurezza, le cui spese sono sottratte dai rigori di bilancio, fino alle assunzioni di figure con compiti coercitivi (ispettori, controllori, vigilantes, esattori etc.) come unico sbocco professionale oggi a disposizione nel mercato del lavoro.
Resistenza, ricomposizione, alternative
Il nostro blocco sociale di riferimento è stato frammentato e sconfitto in più punti, non solo sul piano contrattuale, salariale, normativo ma anche sul piano ideologico. Le stesse soggettività politiche residuali – sia nelle loro espressioni migliori che peggiori – stentano o si rifiutano di mettere mano a processi di ricomposizione reale come quello messo in campo da Ross@ e perpetuano specificità o liturgie ormai estenuanti ed estenuate – oltre che inefficaci. Il problema non attiene solo ai residui della sinistra radicale ma anche ai settori antagonisti dei movimenti. Ross@ è nata ed ha agito dentro questa frammentazione – e ne ha subito tutti i contraccolpi – cercando di avviare una faticosa controtendenza che è partita però da un presupposto: la discontinuità come approccio e la rottura per il cambiamento come orizzonte. Occorre ammettere che in questo lavoro siamo stati aiutati più dalle contraddizioni reali (vedi la Grecia rispetto al discorso sulla rottura con la Ue e l’euro) che dalla lungimiranza dei possibili compagni di strada.
Indicativo degli effetti che questo produce a sinistra, è ad esempio l’emersione del cosiddetto “Piano B” animato da personalità importanti della socialdemocrazia di sinistra come Lafontaine, Varoufakis, Melenchon, Fassina (di cui tre sono ex ministri) e che oggi sembra trovare consensi anche in alcuni ambiti della sinistra radicale e ideologica (da Izquierda Unida o Le Monde Diplomatique o Sinistra Anticapitalista). Il Piano B dice qualcosa di indubbiamente più avanzato delle pecionerie della sinistra europea sull’Altra Europa. Giunge alla conclusione che l’Ue così com’è sia difficilmente riformabile e che la gabbia dell’euro va smontata per tornare allo Sme. Ma è evidente come questo impianto politico rifiuti ogni idea di rottura e attesti lo scontro ad un livello più basso senza prevedere o indicare alternative di cambiamento radicale. E’ la stessa logica che ha messo in campo l’audit contro l’opzione del non pagamento del debito, la lotta contro l’austerity e il neoliberismo piuttosto che un rigoroso impianto anticapitalista, il tirare la giacca alla socialdemocrazia piuttosto che la nascita di movimenti sociali e sindacali autonomi.
Oggi la situazione impone a tutti la “politicizzazione” (rispetto al piano meramente sindacale e/o vertenziale sul piano territoriale), un cambio di passo e la ricomposizione almeno sul piano della massa critica per esercitare una resistenza più efficace. La Piattaforma Sociale Eurostop – e Ross@ dentro di essa – sta cercando di agire in questa direzione.
Ma se su singole scadenze e campagne è opportuno e doveroso ricercare i punti di convergenza, sul progetto politico è indispensabile non fare sconti a nessuno, sia sulle responsabilità passate che sull’atteggiamento con cui misurarsi con il presente e il futuro. La realtà non lo consente più. Oggi tutti – dai centri sociali ai sindacati, dai partiti della sinistra agli autonomi – sono chiamati a fare i conti con loro stessi, con quanto e come hanno sedimentato e con l’accelerazione imposta da una fase storica turbolenta e contraddittoria come non abbiamo mai conosciuto come esperienza diretta.
Ross@, 31 gennaio 2016
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