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Carlo di Borbone. La fondazione di uno stato italiano nel cuore del ‘700 europeo

Il Maggio dei Monumenti 2016 è dedicato al trecentenario della nascita di re Carlo di Borbone e al Settecento musicale artistico e culturale con focus su Giovanni Paisiello a duecento anni dalla morte. L’occasione ci si propone per fare un approfondimento sulla figura di questo Re e del suo lascito storico.

Per i compagni ed i progressisti sembra che parlare di case regnanti sia un rendere omaggio al passato, perché è sempre vero che la zoologia, come diceva Marx, è il primo fondamento, attraverso nascite, accoppiamenti e morti, del potere dei Sovrani. Eppure, anche su questo punto è venuto il momento di fare un salto di qualità e di comprendere come la fondazione degli Stati Moderni parta dalla figura e dall’opera di Sovrani, come quello di cui ci occuperemo e di come il problema della legittimità del governo politico passi pari pari dall’Antico Regime alle democrazie postrivoluzionarie, mentre i confini degli Stati Europei in gran parte sono stati segnati “furewig” dai Regnanti del Seicento e Settecento, come opere scolpite nella Storia, nel bene come nel tanto male che ha accompagnato le loro imprese. Non si darebbe la Francia di Oggi senza Luigi XIV, la G. Bretagna imperialista senza Enrico VIII ed Elisabetta la Grande, la Russia senza Pietro il Grande, ed ovviamente questi Sovrani operavano con la forza della loro legittimità, assorbendo o combattendo le spinte delle varie componenti sociali del loro tempo.

La storia italiana è diversa: dopo le invasioni straniere del 1500, svanisce il sogno machiavellico dell’unità nazionale basata su una eredità ed una lingua comune e si arriva, al limitare del Settecento con un Paese diviso ed assoggettato, in cui la lingua italiana non è la lingua di tutto il popolo.

La parte più grande di tale Nazione era il Sud Italia, dall’Abruzzo alla Sicilia, una entità statuale che esisteva già nel 1100, ma poi era stata archiviata dalla dominazione ispanico-imperiale durata dalla fine del 1400 fino al 1734. Con Carlo di Borbone, paradossalmente proprio all’interno della più complessiva storia dell’Impero spagnolo alla fine della decadenza, inizia una storia nuova, nazionale, che non può essere rimossa, se vogliamo per davvero dare fondamenta solide all’unità nazionale, frettolosamente festeggiata con una festa onlyyear nel 2011.

Ed iniziamo la nostra storia.

Nel corso della Guerra di successione spagnola, l’Austria conquistò Napoli e la tenne fino al 1734, quando con Carlo III di Borbone – dopo la guerra di successione polacca – il regno tornò indipendente. Il breve periodo austriaco fu caratterizzato da un gravosa politica di prelievi fiscali (dapprima dovuta dalle spese di guerra nelle quali l’Impero asburgico si era invischiato e poi dal tentativo di risanare le finanze statali e da un intervento rivolto a limitare gli immobili di proprietà di chiese e conventi. Un intervento che avrebbe dovuto contrastare il vecchio problema di carenza di alloggi, vista l’elevata popolazione (circa 250.000 abitanti). Per gli stessi motivi a questo periodo si rifà l’abolizione delle Prammatiche spagnole (1718) che avevano bloccato l’espansione urbana fuori dalle mura. Quindi una storia di esproprio delle proprie risorse da parte degli austriaci, i cui Sovrani regnanti, Asburgo, si separavano dinasticamente dai loro affini e parenti spagnoli: non la visione idilliaca di un buon governo austriaco, con cui viene rappresentata, in epoca successiva di 50 anni, con una diversa Imperatrice, la storia lombarda e veneta. Qui il Sovrano illuminato è Carlo. Con lui la città vide importanti segni in numerosi settori (fisco, commercio, difesa, economia, ecc.), ma soprattutto in quello edilizio, e l’opera di Carlo (che nel 1759 lasciò Napoli per assumere la corona di Spagna) fu continuata dal figlio Ferdinando IV, finché non venne rovesciato dalle correnti rivoluzionarie e dalle truppe francesi nel 1799.

Ma chi fu Carlo di Borbone?

Carlo Sebastiano di Borbone (Carlos Sebastián de Borbón y Farnesio; Madrid, 20 gennaio 1716 – Madrid, 14 dicembre 1788) fu duca di Parma e Piacenza con il nome di Carlo I dal 1731 al 1735, re di Napoli e di Sicilia senza numerazioni (era Carlo VII di Napoli, secondo l’investitura papale, ma non usò mai tale ordinale. Era invece Carlo III come re di Sicilia)[ dal 1735 al 1759, e da quest’anno fino alla morte re di Spagna con il nome di Carlo III (Carlos III).

Primogenito delle seconde nozze di Filippo V di Spagna con Elisabetta Farnese, era durante l’infanzia solo terzo nella linea di successione al trono spagnolo, cosicché sua madre si adoperò per dargli una corona in Italia rivendicando l’eredità dei Farnese e dei Medici, due dinastie italiane prossime all’estinzione. Grazie a un’efficace combinazione di diplomazia e interventi armati, la Farnese riuscì a ottenere dalle potenze europee il riconoscimento dei diritti dinastici di Carlo sul Ducato di Parma e Piacenza, di cui egli divenne duca nel 1731, e sul Granducato di Toscana, dove l’anno seguente fu dichiarato gran principe (cioè principe ereditario).

Nel 1734, durante la guerra di successione polacca, al comando delle armate spagnole conquistò i regni di Napoli e di Sicilia, sottraendoli alla dominazione austriaca. L’anno successivo fu incoronato re delle Due Sicilie a Palermo, e nel 1738 fu riconosciuto come tale dai trattati di pace, in cambio della rinuncia agli stati farnesiani e medicei in favore degli Asburgo e dei Lorena. Capostipite della dinastia dei Borbone di Napoli, restituì alla città l’antica indipendenza dopo oltre due secoli di dominazione straniera, inaugurando un periodo di rinascita politica, ripresa economica e sviluppo culturale.

Alla morte del fratellastro Ferdinando VI nel 1759, fu chiamato a succedergli sul trono di Spagna, dove, allo scopo di modernizzare il paese, fu promotore di una politica riformista che gli valse la fama di monarca illuminato. In politica estera raccolse tuttavia diversi insuccessi a causa dell’alleanza con la Francia, sancita dal terzo patto di famiglia borbonico, che lo portò a contrapporsi con sorti alterne alla potenza marittima della Gran Bretagna.

Ma torniamo alla crisi dell’Impero Spagnolo: il trattato di Utrecht, che nel 1713 contribuì a concludere la guerra di successione spagnola, ridusse enormemente il peso politico e militare della Spagna, il cui impero restò il più vasto esistente, conservando le colonie americane, ma fu fortemente ridimensionato dalla perdita dei numerosi domini europei. I Paesi Bassi del Sud, il Regno di Napoli, il Regno di Sardegna, il Ducato di Milano e lo Stato dei Presìdi passarono all’Austria; il Regno di Sicilia fu ceduto ai Savoia; mentre l’isola di Minorca e la rocca di Gibilterra, terre della madrepatria iberica, furono occupate dalla Gran Bretagna.

Il re Filippo V, che al prezzo di queste perdite territoriali aveva ottenuto il riconoscimento dei suoi diritti al trono, era intenzionato a restituire alla Spagna il prestigio perduto. Nel 1714, dopo la morte della sua prima moglie Maria Luisa di Savoia, il prelato piacentino Giulio Alberoni gli combinò un vantaggioso matrimonio con un’altra principessa italiana: Elisabetta Farnese, nipote e figliastra del duca di Parma e Piacenza Francesco Farnese. La nuova regina, donna energica, autoritaria e ambiziosa, acquistò rapidamente una grande influenza sulla corte e insieme all’Alberoni, nominato primo ministro nel 1715, fu fautrice di una politica estera aggressiva, mirante a riconquistare gli antichi possedimenti spagnoli in Italia.

Nel 1716, dopo poco più di un anno di matrimonio, la Farnese diede alla luce l’infante don Carlo, che sembrava non aver molte possibilità di occupare il trono spagnolo, poiché nella linea di successione era preceduto dai fratellastri Luigi e Ferdinando. Da parte di madre poteva invece aspirare a ereditare il Ducato di Parma e Piacenza dai Farnese, dinastia che volgeva ormai al tramonto, perché il duca Francesco non aveva figli, così come il suo unico fratello Antonio. Essendo pronipote di Margherita de’ Medici, la regina Elisabetta tramandava al suo primogenito anche diritti sul Granducato di Toscana, dove l’anziano granduca Cosimo III aveva come unico possibile erede il figlio Gian Gastone, privo di discendenti e noto per la sua omosessualità.

La nascita di don Carlo avvenne nel momento in cui il progetto spagnolo di mettere in discussione l’ordine stabilito a Utrecht rappresentava la più grave minaccia all’equilibrio europeo. Per fronteggiare l’espansionismo della Spagna borbonica, Gran Bretagna, Francia e Province Unite (l’attuale Olanda) nel 1717 formarono una coalizione antispagnola denominata Triplice alleanza, ma nonostante ciò Filippo V e l’Alberoni decisero l’occupazione della Sardegna austriaca e della Sicilia sabauda, nel tentativo di riannettere le due isole alla corona iberica.

Il 2 agosto 1718, attraverso il trattato di Londra, anche il Sacro Romano Impero, cioè l’entità statuale prodromica all’Impero austriaco, aderì alla coalizione contro la Spagna, che prese quindi il nome di Quadruplice Alleanza. Come condizione di pace le quattro potenze imposero a Filippo V di aderire al trattato di Londra, che prevedeva la sua rinuncia a ogni pretesa sugli stati italiani; ma il sovrano spagnolo rifiutò, dando così inizio alla guerra della Quadruplice Alleanza. Il conflitto si concluse con una nuova sconfitta spagnola, e a pagarne le conseguenze politiche fu soprattutto l’Alberoni, che fu esautorato ed espulso dalla Spagna. Infine, con la pace dell’Aia del 1720, Filippo V fu costretto ad accettare le disposizioni del trattato di Londra.

Per quanto riguardava i diritti dinastici di don Carlo sul Granducato di Toscana e sul Ducato di Parma e Piacenza, il trattato stabiliva che, in caso di estinzione delle linee maschili dei Medici e dei Farnese, poiché sia Elisabetta Farnese sia l’imperatore Carlo VI d’Asburgo li rivendicavano, questi sarebbero stati considerati feudi maschili del Sacro Romano Impero, ma nel caso in cui anche la linea maschile della casa imperiale si fosse estinta, la successione sarebbe spettata al primogenito della regina di Spagna in qualità di feudatario dell’imperatore, che s’impegnava a concedergli l’investitura.

Dopo la guerra, la Spagna si avvicinò alla Francia attraverso tre fidanzamenti: al re francese Luigi XV, di undici anni, fu promessa l’infanta Marianna Vittoria, sua cugina, di tre anni; il principe delle Asturie Luigi, erede al trono spagnolo, e l’infante don Carlo, erede ai ducati italiani, avrebbero invece sposato due figlie del reggente Filippo II d’Orléans, rispettivamente Luisa Elisabetta e Filippa Elisabetta. Il principe Luigi sposò infatti Luisa Elisabetta nel 1722, e due anni dopo Filippo V abdicò in suo favore, ma dopo appena sette mesi di regno il nuovo re di Spagna morì di vaiolo, costringendo suo padre a riprendere la corona. Elisabetta Farnese, tornata a essere la regina consorte, divenne in questo periodo ancor più influente perché suo marito, oppresso da una forte depressione, la lasciò di fatto padrona della corte spagnola. I Borbone sono la dinastia regnante nuova di Spagna e Francia

Nel 1725 i francesi ruppero il fidanzamento di Luigi XV con l’infanta Marianna Vittoria, e per rappresaglia gli spagnoli sciolsero anche quello tra don Carlo e Filippa Elisabetta, che fu rimandata in Francia insieme alla regina vedova sua sorella.

La Farnese decise allora di trattare con l’Austria, che, diventata grazie al trattato di Utrecht la nuova potenza egemone in Italia, era il principale ostacolo per l’espansione spagnola nella penisola.

La pace tra le due potenze fu stipulata con il trattato di Vienna del 1725, che sancì la definitiva rinuncia dell’imperatore Carlo VI al trono spagnolo (fine, anche formale, dell’Impero su cui non tramontava mai il sole, che andava dalla Germania fino al Cile) mentre Filippo V rinunciò ai suoi diritti sugli ex possedimenti spagnoli in Italia e nei Paesi Bassi. Il plenipotenziario della Spagna, Johan Willem Ripperda, si spinse fino a chiedere la mano dell’arciduchessa Maria Teresa, primogenita di Carlo VI, in nome di don Carlo.

Tale intesa si ruppe in seguito alla guerra anglo-spagnola (1727-1729), quando l’imperatore negò il suo consenso al fidanzamento, spingendo Filippo V a rompere i patti con l’Austria e a stipulare il trattato di Siviglia con Gran Bretagna e Francia. Quest’ultimo accordo garantì a don Carlo il diritto di occupare Parma e Piacenza anche con la forza delle armi.

Ma la storia borbonica si intreccia con quella, pur essa alla fine, di grandi famiglie nobiliari italiane, che avevano governato, in proprio o per procura di Potenze europee a Roma, da Papi, e nell’Italia Centrale

La fine dei Farnese e l’arrivo in Italia

Alla morte del duca Antonio Farnese, avvenuta il 20 gennaio 1731, il conte Daun, governatore austriaco di Milano, ordinò l’occupazione del ducato farnesiano in nome di don Carlo, feudatario dell’imperatore in virtù del trattato di Londra. Tuttavia il defunto duca di Parma nel suo testamento aveva nominato come erede il «ventre pregnante» della moglie Enrichetta d’Este, da lui a torto creduta incinta, e istituito un consiglio di reggenza, che protestò per l’occupazione del ducato, perché, se la duchessa vedova avesse partorito un maschio, questo avrebbe scavalcato il primogenito di Elisabetta Farnese nella linea di successione al trono ducale. Esaminata da un gruppo di medici e levatrici, Enrichetta fu dichiarata incinta di sette mesi, ma molti, tra cui la regina di Spagna, consideravano il suo stato interessante una messinscena.

Papa Clemente XII cercò a sua volta di far valere gli antichi diritti feudali della Santa Sede sul ducato, e a questo scopo ne ordinò l’occupazione al suo esercito, che fu però preceduto da quello imperiale. Il pontefice scrisse allora lettere di protesta alle maggiori corti cattoliche d’Europa per far valere le sue ragioni, e inviò a Parma monsignor Giacomo Oddi in qualità di commissario apostolico, per rivendicare il ducato qualora la gravidanza della duchessa vedova si fosse rivelata inesistente. Poiché la corte imperiale rimase insensibile alle proteste di Roma, il papa richiamò da Vienna il cardinale Grimaldi, suo nunzio apostolico in Austria.

Il 22 luglio la Spagna aderì al secondo trattato di Vienna, col quale ottenne dall’imperatore l’assenso per l’arrivo dell’infante in Italia, e in cambio riconobbe la Prammatica Sanzione del 1713, documento che avrebbe permesso all’arciduchessa Maria Teresa di succedere al padre sul trono asburgico. Il 20 ottobre, a Siviglia, dopo una solenne cerimonia in cui suo padre Filippo V gli regalò una preziosa spada appartenuta a Luigi XIV, don Carlo partì finalmente alla volta dell’Italia. Viaggiò via terra fino ad Antibes sulla costa francese, di qui s’imbarcò per la Toscana, e arrivò a Livorno il 27 dicembre 1731.

Una volta verificata l’inesistenza della gravidanza di Enrichetta d’Este, il commissario apostolico Oddi prese possesso del ducato in nome della Santa Sede, mentre il plenipotenziario imperiale in Italia, il conte Carlo Borromeo Arese, fece lo stesso in nome di don Carlo. Infine prevalsero le ragioni imperiali e spagnole, cosicché il 29 dicembre la reggenza di Parma in nome dell’infante fu affidata a Dorotea Sofia di Neuburg, sua nonna materna e contutrice (l’altro contutore era il granduca di Toscana Gian Gastone de’ Medici), nelle cui mani giurarono i rappresentanti di Parma e Piacenza, e i deputati delle comunità di Cortemaggiore, Fiorenzuola, Borgo Val di Taro, Bardi, Compiano, Castell’Arquato, Castel San Giovanni e della Val Nure. L’Oddi fece stampare a Bologna una protesta contro il giuramento, mentre il vescovo Marazzani fu inviato dalla reggente Dorotea per fare in modo che, in cambio dell’investitura papale, l’infante riconoscesse i diritti feudali della Chiesa e pagasse un tributo annuo a Roma; ma tali trattative non ebbero esito.Intanto don Carlo, diretto verso Firenze, a Pisa fu colpito dal vaiolo in una forma piuttosto lieve; la malattia però lo costrinse a rimanere a letto per qualche tempo e gli lasciò qualche cicatrice sul volto. Entrò in trionfo nella capitale medicea il 9 marzo 1732, con un seguito di oltre 250 persone, a cui poi si aggiunsero numerosi italiani. Nonostante l’infante spagnolo gli fosse stato imposto come successore dalle potenze europee, Gian Gastone de’ Medici l’accolse calorosamente, e l’ospitò nella residenza granducale di Palazzo Pitti.

Al suo arrivo nella penisola, il giovane infante non aveva ancora compiuto sedici anni. Secondo i contemporanei la rigida educazione che gli era stata impartita in Spagna non aveva avuto un ruolo importante nella sua formazione. Alvise Mocenigo, ambasciatore della Repubblica di Venezia a Napoli, anni dopo disse che «tenne sempre un’educazione lontanissima da ogni studio e da ogni applicazione per diventare da sé stesso capace di governo».Dello stesso parere fu il conte Ludovico Solaro di Monasterolo, ambasciatore sabaudo.

In compenso studiava pittura e incisione e praticava diverse attività fisiche, pesca e caccia soprattutto.

Sir Horace Mann, diplomatico britannico a Firenze, racconta che la sua passione per la caccia era tale che a Palazzo Pitti «si divertiva a tirare con arco e frecce gli arazzi che pendevano dalle pareti delle sue stanze, ed era diventato talmente abile in ciò, che era raro che non colpisse l’occhio a cui mirava». Molto religioso e particolarmente rispettoso dell’autorità materna, don Carlo aveva però un carattere allegro ed esuberante. Il suo aspetto era caratterizzato da un naso molto pronunciato: era descritto infatti come «un ragazzo bruno, magro in viso, con tanto di naso, e sgraziato quanto mai».

Il 24 giugno, festa del patrono di Firenze San Giovanni Battista, Gian Gastone lo nominò gran principe ereditario di Toscana, permettendogli di ricevere l’omaggio del Senato fiorentino, che secondo la tradizione prestava giuramento di fedeltà nelle mani dell’erede al trono granducale. Carlo VI reagì adirato alla nomina, obiettando di non avergli ancora concesso l’investitura imperiale, ma incurante delle proteste austriache i genitori lo inviarono a prender possesso anche del ducato farnesiano. Il nuovo duca entrò a Parma nell’ottobre 1732, accolto da grandi festeggiamenti. Sul frontone del Palazzo ducale fu scritto Parma resurget (Parma risorgerà), e al Teatro Farnese fu rappresentato il dramma La venuta di Ascanio in Italia, composto per l’occasione da Carlo Innocenzo Frugoni.

Nel 1733, la decisione di don Carlo di rinnovare le antiche pretese farnesiane sui territori laziali di Castro e Ronciglione, tolti ai Farnese e annessi allo Stato Pontificio da papa Innocenzo X nel 1649, provocò nuove tensioni con la corte papale.

Ma un nuovo evento dinastico intrecciava ancora i destini polacchi e russi a quelli di tutta l’Europa: accadrà ed accade ancora oggi il manifestarsi di questo legame tra vicenda polacco-russa ed Europa tutta dal 1939 al 1989, fino ad Ucraina 2014 ed attuale Presidenza del Consiglio UE 2014-2016.

Nel 1733 scoppiava la guerra di successione in Polonia, retta da monarchia elettiva: alla morte del re Federico Augusto II, i Grandi Feudatari del Regno si riunirono per nominare il successore. Non trovando l’accordo, finirono per gettare il Paese nella guerra civile, cui parteciparono anche le potenze straniere: a favore di Federico III, figlio del defunto re, si schierarono la Russia e l’Austria, mentre la Francia e la Spagna (e quindi Sicilia e Napoli) sostennero un parente del re di Francia: il principe Stanislao Leszizynski. L’alleanza franco-spagnola prevedeva l’impegno di affidare a Carlo il Regno di Napoli, al posto del Ducato di Parma. La guerra ebbe due teatri: la Polonia e l’Italia. Con Spagna e Francia si alleò anche il Piemonte, il cui re Carlo Emanuele III mirava a togliere all’Austria la Lombardia, anch’egli schierando lo Stato sabaudo nel gran concerto delle Nazioni e delle Dinastie- Borbone e Savoia, una storia di cento anni prima di quella che noi conosciamo meglio…

Agli spagnoli fu affidato un ruolo marginale nell’Italia settentrionale, ma il principale obiettivo della Farnese era conquistare per il figlio i territori più estesi tra quelli che il trattato di Utrecht aveva tolto alla Spagna: il regno di Napoli e il regno di Sicilia. Questi territori appartenevano ormai tutti all’Austria, da quando, nel 1720, col trattato dell’Aia, l’imperatore Carlo VI, già sovrano di Napoli, aveva ottenuto la Sicilia dai Savoia, cedendo loro la Sardegna.

La guerra forniva alla Farnese l’occasione di conquistare la Due Sicilie per il figlio, cosicché negli anni 1734-1735 la Spagna intraprese una vittoriosa campagna militare sottraendo i due regni agli austriaci. Il comando dell’esercito spagnolo, nominalmente in mano a Carlo, era nei fatti esercitato da José Carrillo de Albornoz, conte di Montemar, che il 25 maggio 1734 conseguì la vittoria decisiva a Bitonto e fu proclamato re di Napoli il 17 maggio 1734.L’anno successivo occupò il regno di Sicilia. Carlo fu quindi incoronato Rex UtriusqueSiciliae il 3 luglio 1735 nella Cattedrale di Palermo, dopo aver effettuato un viaggio via terra fino a Palmi e via mare da Palmi a Palermo.In un primo momento, per non irritare l’imperatore Carlo VI, il papa Clemente XII si rifiutò di concedere l’investitura al nuovo sovrano.

Invece, fu proclamato re di Napoli nella bolla d’investitura con il nome di Carlo VII,ma queste denominazioni non furono mai utilizzate dal sovrano, che preferì non apporre nessun numerale dopo il suo nome, per marcare una netta discontinuità tra il suo regno e quelli dei predecessori, che regnarono da un trono straniero. Sulla questione il contemporaneo Pietro Giannone scrisse e chiarì che la scelta di Carlo trovava riscontro nel modo con cui a Napoli si numeravano i Re; Carlo fece quello che non fece Vittorio Emanuele II all’avvento dell’unità nazionale italiana

Per tutti questi motivi il nuovo sovrano preferì usare in ogni suo decreto una titolatura priva di numerazioni:

« Carolus Dei Gratia Rex utriusqueSiciliae, Hyerusalem,[32] &c. InfansHispaniarum, DuxParmae, Placentiae, Castri, &c. ac Magnus PrincepsHaereditariusHetruriae, &c.[33] »

« Carlo per la Grazia di Dio Re delle Due Sicilie e di Gerusalemme, etc. Infante di Spagna, Duca di Parma, Piacenza, Castro, etc. Gran Principe Ereditario di Toscana, etc. »

I negoziati per la conclusione del conflitto portarono alla firma dei preliminari di pace del 3 ottobre 1735, le cui disposizioni furono poi confermate il 18 novembre 1738 dal terzo trattato di Vienna. La coalizione borbonico-sabauda vinse la guerra, ma il trono polacco fu occupato dal candidato austro-russo Augusto III, già principe elettore di Sassonia, col nome di Federico Augusto II.

Carlo di Borbone fu riconosciuto da tutte le potenze europee come legittimo sovrano delle Due Sicilie, e gli fu ceduto anche lo Stato dei Presìdi, a condizione che questi stati rimanessero sempre separati dalla corona di Spagna. In quegli anni le speranze riposte in don Carlo erano tali da rendere diffusa la convinzione che egli avrebbe unificato l’intera penisola e assunto il titolo di re d’Italia.

Tale prospettiva era auspicata anche al di fuori dei confini napoletani, tanto che, due anni dopo la conquista delle Due Sicilie, il conte piemontese esiliato in Olanda Alberto Radicati di Passerano gli rivolse quest’appello:

Si noti che il nobile sabaudo scrive in francese, la lingua che useranno sempre Vittorio Emanuele II, Re d’Italia, ma che non cambio il numerale di Casa Savoia, ed il suo Primo Ministro, Camillo Benso Conte di Cavour.

La nascita del Regno delle Due Sicilie, nella prima metà del Settecento, fu il fatto nuovo, unificante, della storia italiana: il principe machiavellico era tornato, ancora una volta nella figura di uno spagnolo italianizzato…

Una prima rottura del sogno unitario nazionale sotto Carlo fu però il fatto che fosse obbligato a rinunciare al Ducato di Parma e Piacenza, ceduto all’imperatore, e al diritto di successione sul Granducato di Toscana, trasferito a Francesco Stefano di Lorena, marito dell’arciduchessa Maria Teresa, che divenne granduca alla morte di Gian Gastone de’ Medici nel 1737. Carlo conservò comunque per sé e per i suoi successori i titoli di duca di Parma, Piacenza e Castro e gran principe ereditario di Toscana, e ottenne inoltre il diritto di trasferire da Parma a Napoli tutti i beni ereditati dai Farnese, costituenti la collezione Farnese.

Contemporaneamente alle trattative di pace, Elisabetta Farnese cominciò a intavolare negoziati per assicurare al figlio un matrimonio vantaggioso;la scelta della regina di Spagna cadde su Maria Amalia di Sassonia, figlia del nuovo re di Polonia Augusto III. La Farnese era intenzionata a consolidare la pace con l’Austria, e Maria Amalia, essendo figlia di una nipote dell’imperatore Carlo VI, rappresentava una valida alternativa a una delle arciduchesse.

La promessa di nozze fu ratificata il 31 ottobre 1737. Maria Amalia era all’epoca appena tredicenne, sicché fu necessaria una dispensa papale per l’età, ottenuta dai diplomatici napoletani insieme al permesso per il corteo nuziale di attraversare lo Stato Pontificio. La cerimonia fu celebrata per procura a Dresda il 9 maggio dell’anno successivo (il sovrano napoletano fu rappresentato dal fratello maggiore della sposa Federico Cristiano). Il matrimonio agevolò la conclusione della controversia diplomatica con la Santa Sede: il giorno dopo le nozze fu infatti firmata la bolla pontificia che proclamò Carlo re di Napoli.

L’incontro tra i due sposi avvenne il 19 giugno 1738 a Portella, una località al confine del regno presso Fondi, e durante il periodo dei festeggiamenti, il 3 luglio, re Carlo istituì l’insigne e reale ordine di San Gennaro, l’ordine cavalleresco più prestigioso delle Due Sicilie. In seguito, per premiare i militari che lo avevano aiutato nella conquista del regno, istituì il Reale ordine militare di San Carlo (22 ottobre 1738).

Gli inizi del regno di Carlo di Borbone furono caratterizzati da una forte dipendenza dalla corte di Madrid, dove Elisabetta Farnese esercitava la sua influenza su Napoli attraverso due nobili spagnoli a cui aveva affidato il figlio prima d’inviarlo in Italia: il conte di Santisteban, primo ministro e tutore del re, e il marchese di Montealegre, segretario di Stato. Santisteban in particolare fu per i primi quattro anni del regno di Carlo l’uomo più potente della corte napoletana, tanto da scegliere le frequentazioni e le amicizie del re, premurandosi che nessuno assumesse presso il giovane sovrano un’influenza superiore alla sua.

Un’autorità che sarebbe durata molto più a lungo di quella dei due spagnoli fu poi progressivamente ottenuta dal giurista Bernardo Tanucci, che seppe imporsi come uno degli uomini più influenti della corte.

Nel 1738, Carlo e Maria Amalia determinarono la caduta del conte di Santisteban, di cui mal tolleravano l’invadente tutela, e ne sollecitarono il richiamo in Spagna. Gli successe nella carica di primo ministro un altro spagnolo, il marchese di Montealegre, che non seppe guadagnarsi una popolarità a corte maggiore di quella del suo predecessore, ma la cui posizione era saldamente garantita dal favore di Elisabetta Farnese, che attraverso uno stretto contatto epistolare con lui esercitava il suo controllo sul figlio.

La pace sancita a Vienna ebbe breve durata: nel 1740, alla morte di Carlo VI d’Asburgo, il disconoscimento della Prammatica Sanzione scatenò l’ultima grande guerra di successione. La Spagna, insieme a Francia e Prussia, si opponeva all’Austria di Maria Teresa e alla coalizione che la sosteneva, a cui tra gli altri stati aderirono la Gran Bretagna e il Regno di Sardegna.

Carlo si proclamò neutrale, ma quando suo padre lo sollecitò a mandare delle truppe nell’Italia centrale in appoggio a quelle spagnole, spedì al fronte dodicimila uomini, sotto il comando del duca di Castropignano. La Spagna, pur disponendo in battaglia di truppe napoletane, sperava di trarre vantaggio dalla neutralità delle Due Sicilie. Carlo fu però costretto a tornare sui suoi passi nell’agosto 1742, quando il commodoro britannico Martin, al comando di una squadra navale entrata nel golfo di Napoli, minacciò di bombardare la città se egli non si fosse ritirato dal conflitto. Il Montealegre, nonostante fosse stato avvertito mesi prima del pericolo di un’incursione navale inglese, convinto com’era che Napoli fosse protetta dalla sua formale neutralità, fu colto di sorpresa, e convinse il re a cedere alle richieste della Gran Bretagna.

La dichiarazione di neutralità del re di Napoli fu fortemente biasimata dai governi di Francia e Spagna, che la ritennero una prova di debolezza, e d’altro canto non fu presa in considerazione dalle potenze nemiche, che con il trattato di Worms del settembre 1743 decisero che Napoli e i Presìdi sarebbero tornati all’Austria e la Sicilia ai Savoia. Nel novembre seguente, Maria Teresa si rivolse ai sudditi del regno di Napoli con un proclama, redatto da esuli napoletani a Vienna, in cui prometteva (oltre all’espulsione degli ebrei introdotti da Carlo) perdoni e vari benefici, nella speranza d’una ribellione antiborbonica. L’imminente invasione austriaca riaccese le speranze del partito filoasburgico, che Tanucci represse disponendo l’arresto di oltre ottocento persone.Dalla corte di Madrid i genitori di Carlo lo incoraggiarono a prendere le armi, additandogli l’esempio del fratello minore, l’infante Filippo, che s’era già distinto su numerosi campi di battaglia. Rischiando di perdere il regno conquistato appena dieci anni prima, il 25 marzo 1744, dopo aver emanato un proclama per rassicurare i suoi sudditi, re Carlo prese infine il comando del suo esercito per contrastare le armate austriache del principe di Lobkowitz, che marciavano verso il confine napoletano.

La partecipazione delle Due Sicilie al conflitto culminò l’11 agosto nella decisiva battaglia di Velletri, in cui le truppe napoletane, guidate dallo stesso re, dal duca di Modena Francesco III d’Este e dal duca di Castropignano, insieme a quelle spagnole agli ordini del conte di Gages, sconfissero nettamente gli austriaci del Lobkowitz, infliggendogli gravi perdite. Il coraggio dimostrato dal sovrano napoletano in battaglia spinse il re di Sardegna Carlo Emanuele III, suo nemico, a scrivere che «aveva rivelato una costanza degna del suo sangue e che si era comportato gloriosamente».

La vittoria di Velletri assicurò definitivamente a re Carlo il possesso delle Due Sicilie. Inoltre, il trattato di Aquisgrana, concluso nel 1748, assegnò a suo fratello Filippo il Ducato di Parma e Piacenza, unito al Ducato di Guastalla, accrescendo così la presenza borbonica in Italia.

Il marchese di Montealegre, la cui reputazione risentiva del comportamento tenuto in occasione dell’incursione inglese del 1742, essendosi attirato le antipatie della regina Maria Amalia, fu richiamato in patria nel 1746. Gli successe nella carica di primo ministro il piacentino Giovanni Fogliani Sforza d’Aragona, la cui nomina rappresentò un passo avanti verso una maggiore autonomia dalla corte spagnola.

A luglio la morte di Filippo V e l’ascesa al trono spagnolo del figlio di primo letto Ferdinando VI, mettendo fine al potere di Elisabetta Farnese, posero le premesse per l’effettiva indipendenza delle Due Sicilie dalla Spagna. Da questo momento Carlo cominciò infatti a regnare autonomamente, limitando il potere dei ministri legati a Madrid.Il Tanucci continuò a godere della sua autorità, mentre cominciava l’ascesa di Leopoldo de Gregorio, siciliano di modeste origini, già contabile di una ditta commerciale che riforniva l’esercito, che conquistò il favore del re grazie alla sua scaltrezza, ottenendone la nomina prima a sovrintendente delle dogane (1746) e poi a segretario d’azienda, in sostituzione di Giovanni Brancaccio (1753), oltre ai titoli di marchese di Vallesantoro (1753) e di Squillace (1755). Carlo accentrò comunque su di sé il potere di governo, vigilando sull’attività dei suoi ministri, ormai ridotti a esecutori delle sue direttive. E QUI INIZIA LA PARTE CHE PIU’ CI INTERESSA DI CARLO RE DEL SUD ITALIA

La riforma delle istituzioni del regno

Tra i primi importanti provvedimenti di Carlo furono quelli volti a riformare l’ordinamento giuridico attraverso la soppressione di organi istituiti nel periodo vicereale, inadatti per uno stato indipendente quale era diventato il Regno di Napoli. Con una prammatica sanzione datata 8 giugno 1735 il Consiglio Collaterale fu abolito, e sostituito nelle sue funzioni dalla Real Camera di Santa Chiara.

A partire dal 1739 furono varati diversi progetti per il riordino del complesso legislativo napoletano, reso caotico dalla coesistenza di undici legislazioni: romana, longobarda, normanna, sveva, angioina, aragonese, spagnola, austriaca, feudale ed ecclesiastica. Il più ambizioso era quello che prevedeva non solo la consolidazione e la raccolta delle prammatiche, ma la redazione di una vera e propria codificazione, il Codice Carolino, a cui lavorò una giunta composta, tra gli altri, dai giuristi Michele Pasquale Cirillo (che ne fu il principale promotore e artefice) e Giuseppe Aurelio di Gennaro. L’opera rimase per lungo tempo incompiuta e fu pubblicata per intero solo nel 1789.Un’altra importante riforma fu quella del sistema fiscale, attuata attraverso l’istituzione del catasto onciario, col realdispaccio del 4 ottobre 1740 e la prammatica de forma censuali seu de capitatione aut de catastis del 17 marzo 1741. Il catasto, detto onciario perché i beni da tassare erano valutati in once, nelle intenzioni del re avrebbe dovuto rendere più equa la distribuzione del carico fiscale, facendo in modo «che i pesi sieno con eguaglianza ripartiti, che ‘l povero non sia caricato più delle sue deboli forze ed il ricco paghi secondo i suoi averi». Tuttavia, la sua poca efficacia nell’alleviare il peso fiscale gravante sui ceti più umili e gli abusi della sua applicazione furono criticati dagli economisti Carlo Antonio Broggia (che per questo nel 1755 fu fatto confinare a Pantelleria da Leopoldo de Gregorio), Antonio Genovesi, Nicola Fortunato e Giuseppe Maria Galanti.

Politica religiosa

Clemente XII morì nel 1740, e il suo successore, Benedetto XIV, l’anno seguente stipulò un concordato con il Regno di Napoli che permetteva la tassazione di alcune proprietà del clero, riduceva il numero di ecclesiastici e limitava le loro immunità e l’autonomia della giurisdizione separata attraverso l’istituzione di un tribunale misto.

Nel 1746 il cardinale arcivescovo Spinelli tentò d’introdurre l’Inquisizione a Napoli: la reazione dei napoletani, tradizionalmente ostili al tribunale ecclesiastico, fu violenta. Implorato dai sudditi d’intervenire, re Carlo entrò nella Basilica del Carmine e toccando l’altare con la punta della spada giurò che non avrebbe permesso l’istituzione dell’Inquisizione nel suo regno. Lo Spinelli, che fin allora aveva goduto del favore del re e del popolo, fu allontanato dalla città. L’ambasciatore britannico sir James Gray commentò: «Il modo in cui il re si è comportato in questa occasione è considerato come uno degli atti più popolari del suo regno».

A Napoli i vantaggi economici dell’indipendenza si avvertirono subito, tanto che già nel luglio 1734 il console britannico Edward Allen scrisse al duca di Newcastle: «è certamente di vantaggio per questa città e questo regno che il Sovrano vi risieda poiché ciò fa sì che si importi denaro e non se ne esporti, cosa che invece accadde al massimo grado con i Tedeschi che avevano asciugato tutto l’oro della popolazione e quasi tutto l’argento per poter fare grandi donativi all’Imperatore […]».

Rapporti colla sponda Sud del Mediterraneo

Nell’aprile 1738, la minaccia dei pirati barbareschi, che da secoli terrorizzavano le coste delle Due Sicilie e ne insidiavano i traffici marittimi, arrivò al punto che una squadra di sciabecchi algerini irruppe nel golfo di Napoli con l’intento di rapire re Carlo in persona, mentre era di ritorno da una battuta di caccia al fagiano sull’isola di Procida, per condurlo come prigioniero al cospetto del bei di Algeri. Quest’ardita incursione spinse il governo napoletano a prender provvedimenti drastici contro la pirateria barbaresca: in quegli anni fu migliorata la difesa delle coste con la costruzione di nuove fortificazioni (un esempio è dato dal forte del Granatello a Portici), mentre s’iniziò la costruzione di una flotta da guerra, il primo nucleo della Real Marina. Si agì anche sul piano diplomatico: furono stipulati un trattato con il Marocco riguardo alla pirateria (14 febbraio 1739) e un «trattato di pace, navigazione e libero commercio» con l’Impero ottomano (7 aprile 1740), di cui gli stati barbareschi del Magreb (le reggenze di Algeri, Tunisi e Tripoli) erano vassalli.

Essendo però la sovranità ottomana sulle coste africane puramente nominale, le scorrerie barbaresche continuarono fino all’intervento della marina napoletana, che sconfisse i pirati in numerose battaglie navali, in cui si distinse in particolare il capitano Giuseppe Martinez, ricordato nella tradizione popolare con il nome di Capitan Peppe.Allo scopo di accrescere il flusso dei crediti e gli investimenti sui traffici del porto di Napoli, Carlo invitò gli ebrei a stabilirsi nel regno, ricordando l’intraprendenza finanziaria della comunità ebraica di Livorno, che tanto aveva contribuito ad arricchire il porto toscano. Già introdotti nel regno da Federico II di Svevia nel 1220, e scacciati da Carlo V nel 1540, duecent’anni dopo la loro espulsione gli ebrei furono chiamati da un editto di Carlo, emesso il 13 febbraio 1740, a dimorare e commerciare nel regno napoletano per cinquant’anni. La rinata comunità ebraica di Napoli ottenne protezione, vari privilegi e immunità, oltre al permesso di costruire una sinagoga, una scuola e un cimitero, e la facoltà di praticare la medicina e la chirurgia.

L’editto scatenò un’ondata di antisemitismo fomentata dal clero, e il re fu bersaglio di diversi libelli diffamatòri, tra cui uno che gli attribuiva per scherno il titulus crucis ICRJ (InfansCarolus Rex Judæorum).

I principali agitatori furono il gesuita padre Pepe, confessore del re dotato di grande influenza, e un frate cappuccino, che si spinse fino ad ammonire la regina che ella non avrebbe mai partorito un maschio finché non fossero stati cacciati gli ebrei. Anche questa volta Carlo assecondò le proteste del popolo, e con un nuovo editto (30 luglio 1747) mise al bando gli ebrei, accolti sette anni prima.

Politica produttiva e commerciale

Per favorire lo sviluppo economico e le iniziative commerciali, nel 1735 fu riformata la Giunta di Commercio, istituita già in epoca vicereale. Tale organo fu poi sostituito, con editto del 30 ottobre 1739, dal Supremo Magistrato del Commercio, dotato di competenza assoluta in materia di traffici interni ed esteri, e pari per autorità alle magistrature superiori del regno (il 29 novembre ne fu istituito anche uno per la Sicilia, con sede a Palermo). Anche gli effetti di questa riforma ebbero però breve durata, perché le corporazioni e il baronaggio, lesi nei propri interessi dall’attività dell’organo, nel 1746 ne determinarono il declassamento a magistratura ordinaria e la limitazione della giurisdizione al solo commercio estero.

Furono inoltre firmati patti di commercio e navigazione con la Svezia (30 giugno 1742), la Danimarca (6 maggio 1748)[69] e l’Olanda (27 agosto 1753), e confermati i vecchi con la Spagna, la Francia e la Gran Bretagna.

Carlo fondò inoltre scuole per la produzione d’importanti manifatture artistiche: la Real Fabbrica degli Arazzi (1737) e il Real Laboratorio delle Pietre dure (1738), nei pressi della Chiesa di San Carlo alle Mortelle, diretti da artisti fiorentini invitati a trasferirsi a Napoli dopo la morte di Gian Gastone de’ Medici; la Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte (1739), costruita dopo il matrimonio con Maria Amalia, in cui lavoravano operai provenienti dall’antica fabbrica di Meissen, che l’elettore di Sassonia, suo suocero, inviò a Napoli; e la Real Fabbrica di Maioliche di Caserta, attiva solo nel triennio 1753-56.

Le Due Sicilie rimasero neutrali durante la guerra dei sette anni (1756-1763), scoppiata quando la Prussia di Federico II invase la Sassonia, madrepatria della regina Maria Amalia. In una lettera al duca di Santa Elisabetta, ambasciatore napoletano a Dresda, il Tanucci scrisse: «qui si palpita pel campo sassone e aspettiamo continuamente qualche staffetta che ci porti la libertà di quel Sovrano in qualunque maniera che non offenda il decoro».Carlo e il Tanucci temevano le mire espansionistiche di Carlo Emanuele III di Savoia, che il ministro toscano definiva il «Federico italiano, il cui potere usurpando la terra dei suoi vicini è aumentato». Il primo ministro britannico William Pitt avrebbe voluto creare una lega italiana per fare in modo che il regno napoletano e quello sardo-piemontese combattessero uniti l’Austria di Maria Teresa, ma Carlo rifiutò di aderire. La scelta fu biasimata dall’ambasciatore napoletano a Torino, Domenico Caracciolo, che scrisse:

« La situazione degli affari italiani non è delle più belle, ma è aggravata dal fatto che il re di Napoli e il re di Sardegna avendo maggior forza degli altri, potrebbero opporsi ai piani dei loro vicini, e difendersi, così, contro i disturbatori della pace se fossero in qualche modo uniti; ma sono separati dalla lontananza e forse anche dai loro diversi sistemi di governo.»

Anche con la Repubblica di Genova i rapporti furono tesi, poiché Pasquale Paoli, generale dei ribelli indipendentisti còrsi, era un ufficiale dell’esercito napoletano, e i genovesi sospettavano che ricevesse aiuti dal Regno di Napoli.

La costruzione del Teatro S. Carlo-Napoli capitale della musica europea, che diventa fenomeno di costume diffuso-

Intenzionato a trasformare Napoli in una grande capitale europea, Carlo affidò a Giovanni Antonio Medrano e ad Angelo Carasale il compito di costruire un grande teatro d’opera, che avrebbe dovuto sostituire il piccolo Teatro San Bartolomeo. L’edificio fu edificato in circa sette mesi, dal marzo all’ottobre 1737, e fu inaugurato il 4 novembre, onomastico del re, da cui prese il nome di Real Teatro di San Carlo, il piu’ antico teatro lirico europeo.

Le regge e le altre opere pubbliche

L’anno seguente Carlo commissionò agli stessi architetti, affiancati questa volta da Antonio Canevari, la costruzione delle regge di Portici e di Capodimonte. La prima fu per anni la residenza preferita dei sovrani, mentre la seconda, concepita inizialmente come casino di caccia per la vasta area boscosa circostante, fu in seguito destinata a ospitare le opere d’arte farnesiane che Carlo aveva trasferito da Parma.

Desideroso di costruire un palazzo che potesse rivaleggiare con Versailles in magnificenza, nel 1751 re Carlo decise di edificare una residenza reale a Caserta, località dov’egli possedeva già un padiglione di caccia e che gli ricordava il paesaggio che circondava il Palazzo Reale della Granja de San Ildefonso in Spagna. La tradizione vuole che la sua scelta cadesse su quella città perché essa, essendo lontana allo stesso tempo dal Vesuvio e dal mare, garantiva protezione in caso di eruzione del vulcano e d’incursioni nemiche. Della costruzione fu incaricato l’architetto italo-olandese Luigi Vanvitelli, che cominciò ufficialmente i lavori il 20 gennaio 1752, trentaseiesimo compleanno del re, dopo una fastosa cerimonia.

Al Vanvitelli fu assegnato inoltre il compito di disegnare il Fòro Carolino a Napoli (oggi piazza Dante, all’epoca chiamata largo del Mercatello). Il Fòro Carolino fu costruito a forma di emiciclo e cinto da un colonnato, alla cui sommità furono poste ventisei statue raffiguranti le virtù di re Carlo, alcune delle quali scolpite da Giuseppe Sanmartino.] La nicchia centrale del colonnato avrebbe dovuto ospitare una statua equestre del sovrano, mai realizzata. Sul piedistallo furono incise iscrizioni di Alessio Simmaco Mazzocchi.

Costruzioni che rispecchiano lo spirito illuminato del regno di Carlo sono gli alberghi dei poveri di Palermo e di Napoli, edifici dove gli indigenti, i disoccupati e gli orfani avrebbero ricevuto ospitalità, nutrimento e educazione. I lavori del primo, che si trova sulla strada che dalla Porta Nuova conduce a Monreale, s’iniziarono il 27 aprile 1746. La costruzione del palazzo napoletano, ispirata dal predicatore domenicano Gregorio Maria Rocco, fu affidata all’architetto Ferdinando Fuga e s’iniziò invece il 27 marzo 1751. Il volume del colossale edificio, con un fronte di 354 metri, misura solo la quinta parte di quello previsto dal progetto originale (fronte di 600 metri, lato di 135). La piazza antistante la facciata principale era chiamata piazza del Reclusorio, dal nome popolare del palazzo, fino al 1891, quando fu rinominata piazza Carlo III. Su tale edificio, centrale ancora oggi nel dibattito e nelle iniziative concrete per il futuro di Napoli, torneremo successivamente

Nel novembre 1738 s’iniziò la stagione delle grandi ricerche archeologiche napoletane, che riportò alla luce le antiche città romane di Ercolano, Pompei e Stabia, sommerse dalla grande eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Gli scavi, condotti dagli ingegneri Rocque Joaquín de Alcubierre e Karl Jakob Weber, destarono grande interesse nel re, che voleva essere informato quotidianamente delle nuove scoperte e spesso si recava nei luoghi delle ricerche per poter ammirare i reperti. Affidò in seguito la gestione del grande patrimonio storico e artistico rinvenuto all’Accademia Ercolanese, da lui istituita nel 1755.

Come re delle Due Sicilie, Carlo di Borbone ha tradizionalmente goduto di un giudizio positivo da parte degli storici, diversamente dagli altri sovrani della dinastia dei Borbone di Napoli di cui fu capostipite, essendo stato – come spiega Benedetto Croce – «a gara esaltato dagli scrittori di entrambi i partiti politici che si son divisi nell’ultimo secolo l’Italia meridionale: dai borbonici, in omaggio al fondatore della dinastia, e dai liberali, che, facendo loro pro degli encomi fatti al governo di re Carlo, si piacevano nel contrapporre il primo Borbone di Napoli, non borbonico, ai suoi degeneri successori». Tra questi ultimi spicca Pietro Colletta, sostenitore della repubblica del 1799 e poi generale murattiano, che nella sua Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, al termine della narrazione del regno di Carlo, dipinse il rammarico dei napoletani per la partenza del «buon re» come «presago della tristezza de’ futuri regni».

Tale lettura celebrativa fu severamente attaccata da Michelangelo Schipa, autore del fondamentale Il regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone (1904), in cui furono analizzati i limiti dell’azione riformatrice del sovrano, arrivando alla conclusione che «un re Carlo rigeneratore del nostro spirito e della nostra fortuna, e un’età felice del nostro passato, si dileguano all’occhio di chi guarda scevro da ogni passione».Nella redazione di quest’opera Schipa utilizzò anche un raro scritto contemporaneo radicalmente ostile a Carlo, il De borbonico in Regno neapolitanoprincipatu del marchese Salvatore Spiriti, avvocato cosentino condannato all’esilio in quanto esponente del partito filoaustriaco.

L’opera schipiana fu recensita da Benedetto Croce (a cui peraltro era stata dedicata), il quale, pur riconoscendone il grande valore storiografico, e ammettendo la necessità di «un’attenta revisione» del periodo carolino, resa necessaria dalle «parecchie esagerazioni elogiative», ne criticò l’impostazione demolitrice e il ricorso a «un’intonazione acrimoniosa e satirica», rimproverando infine a Schipa di aver «peccato di quell’eccessivo proposito d’imparzialità, che si traduce in una effettiva parzialità in senso avverso».Per parte sua, Croce, dopo aver elencato le principali realizzazioni dei venticinque anni di regno, concluse invece che «furono anni di progresso deciso».

Tra gli storici contemporanei, Giuseppe Galasso ha definito il regno di Carlo di Borbone come l’inizio dell’«ora più bella» della storia di Napoli.

Ma Carlo poi diventa Re di Spagna, e dunque di mezzo mondo

Carlo III di Spagna

Le potenze contraenti del trattato di Aquisgrana (1748) stabilirono che, qualora Carlo fosse stato chiamato a Madrid per succedere al fratellastro Ferdinando VI, il cui matrimonio era sterile, a Napoli gli sarebbe succeduto il suo fratello minore Filippo I di Parma, mentre i possedimenti di quest’ultimo sarebbero stati divisi tra Maria Teresa d’Austria (Parma e Guastalla) e Carlo Emanuele III di Savoia (Piacenza), in virtù del loro “diritto di reversione” su quei territori. Forte del diritto di tramandare il trono napoletano ai suoi discendenti, riconosciutogli dal trattato di Vienna (1738), Carlo non ratificò il trattato di Aquisgrana e nemmeno il successivo trattato di Aranjuez (1752), stipulato tra Spagna, Austria e Regno di Sardegna, che confermava quanto deciso dal primo.

Riferendosi al segretario di Stato spagnolo José de Carvajal y Lancaster, artefice dell’accordo di Aranjuez, Tanucci riassunse la questione in questi termini:

« Egli ha ultimamente architettato un trattato che divide la casa reale. Il re delle Due Sicilie ha questi regni per sua primogenitura come permutati con Toscana e Parma. Persuase al Re fratello [Ferdinando VI], e all’altro Re cugino della Francia [Luigi XV], che lo lasciassero fuori del trattato di Aquisgrana, per cui a lui che divenisse re di Spagna si toglievano le Sicilie da trasferirsi all’Infante don Filippo, il quale dovesse allora render Parma e Guastala alla regina d’Ungheria [Maria Teresa], Piacenza al re di Sardegna [Carlo Emanuele III]. Aveva il re delle Sicilie più figli, ai quali per tutte le leggi si deve la di lui successione, e si può eseguire, benché un di essi re di Spagna si voglia escludere dall’Italia. A questi egli era obbligato dalla natura prima che al fratello, il quale non ha alcun diritto sul patrimonio del suo primogenito fratello, che abbia discendenza. Ora il sig. Carvajal senza alcuna considerazione ha piantato per base del nuovo trattato quello stesso trattato d’Aquisgrana e ci vuol forzare ad accettare in pace e senza alcuna necessità quel che in tempo di guerra ci fu permesso di ricusare»

Qui si consolida definitivamente un unitario stato del Mezzogiorno d’Italia.

Allo scopo di salvaguardare i diritti della sua stirpe, re Carlo intraprese negoziati diplomatici con Maria Teresa e nel 1758 stipulò con lei il quarto trattato di Versailles, in virtù del quale l’Austria rinunciò ai ducati italiani e di conseguenza smise di sostenere la candidatura di Filippo al trono napoletano. Carlo Emanuele III continuò invece a rivendicare Piacenza, e quando Carlo schierò le sue truppe sul confine pontificio per opporsi ai piani sabaudi la guerra sembrava inevitabile. Grazie alla mediazione di Luigi XV, imparentato con entrambi, il re di Sardegna dovette infine rinunciare a Piacenza e accontentarsi di un risarcimento finanziario. Ancora tensioni tra Savoia e Borbone, ben prima del Risorgimento italiano..

Il 6 ottobre, sancendo mediante una prammatica sanzione la «divisione della potenza Spagnuola dall’Italiana», Carlo abdicò in favore di Ferdinando, che divenne re a soli otto anni con il nome di Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia. Lo affidò inoltre a un consiglio di reggenza composto di otto membri, tra i quali il più potente era il Tanucci, con il compito di governare finché il giovane re non avesse compiuto sedici anni; ma le decisioni più importanti le avrebbe comunque prese di persona lo stesso Carlo a Madrid, tramite una fitta corrispondenza con il fidato reggente toscano. Gli altri figli, eccetto Filippo, s’imbarcarono invece con i genitori per la Spagna, e al loro seguito partì anche il marchese di Squillace (che in Spagna divenne Esquilache).

Diversamente da quanto fece trasferendosi da Parma a Napoli, Carlo non portò con sé in Spagna beni artistici appartenenti alle Due Sicilie.

La flotta salpò dal porto di Napoli il 7 ottobre tra la commozione dei napoletani, e arrivò in quello di Barcellona dieci giorni dopo, accolta dall’entusiasmo dei catalani. Nel festeggiare il nuovo sovrano, questi gridavano: «¡Viva Carlos III, el verdadero!» (“Viva il vero Carlo III!”), per non confonderlo col pretendente che avevano sostenuto in opposizione a suo padre Filippo V durante la guerra di successione spagnola, l’arciduca Carlo d’Asburgo (poi imperatore come Carlo VI), già acclamato re con il nome di Carlo III proprio a Barcellona. Compiaciuto della calorosa accoglienza, il nuovo re di Spagna restituì ai catalani parte dei privilegi di cui avevano goduto prima della sollevazione del 1640, e diversi tra quelli che suo padre aveva abolito per punirli del sostegno dato al suo rivale durante la guerra di successione.

A differenza del periodo napoletano, il suo operato come Re di Spagna è visto come un insieme di luci e ombre.

La sua politica estera di amicizia nei confronti della Francia, il rinnovo del patto di famiglia, infatti, lo spinsero a un improvvido intervento nell’ultima fase della Guerra dei sette anni, in cui l’esercito spagnolo fallì nel tentativo di invadere il Portogallo, tradizionale alleato inglese, mentre la marina spagnola non solo non riuscì ad assediare Gibilterra, ma perse le roccaforti di Cuba e di Manila a vantaggio degli inglesi. Cuba e Filippine passano così dall’imperialismo ispanico a quello anglosassone

La pace di Parigi, quindi, nonostante l’acquisizione della Louisiana, rafforzò ancor di più il dominio inglese dei mari a grande svantaggio della Spagna.

Nel 1770 un’altra infruttuosa avventura lo vide nuovamente fronteggiare la Gran Bretagna in una crisi diplomatica per il possesso delle Isole Falkland. Vicenda che seguita ad avere attualità oggi, che’ l’Argentina rivendica legittimamente quell’arcipelago latinoamericano. Nel 1779, sebbene riluttante, appoggiò la Francia e i neonati Stati Uniti d’America nella guerra di indipendenza americana, pur consapevole che l’indipendenza delle colonie inglesi avrebbe, di lì a poco, avuto un’influenza nefasta sulla tenuta delle colonie spagnole d’America. Ed infatti, proprio in quegli anni vi sono le prime rivolte in America Latina, partendo proprio da quella dell’OrinocoGli insuccessi in politica estera spinsero il sovrano a concentrarsi principalmente sulla politica interna allo scopo di modernizzare la società e la struttura dello stato sul modello del dispotismo illuminato grazie all’aiuto di pochi e ben selezionati funzionari scelti tra la piccola nobiltà: il marchese di Squillace, il marchese di Ensenada, il conte di Aranda, Pedro Rodríguez de Campomanes, Ricardo Wall e Grimaldi.

Le riforme del marchese di Squillace

Salito al trono Carlo III nominò il Marchese di Squillace ministro delle finanze cui furono conferite importanti competenze in materia religiosa e militare.

Obbiettivo del Marchese fu l’aumento degli introiti fiscali allo scopo di finanziare il programma di ricostruzione della marina e dell’esercito oltre che per la protezione delle attività manifatturiere. Tale obbiettivo fu raggiunto con un aumento della pressione fiscale e con l’istituzione di una Lotteria Nazionale mentre fu liberalizzato il commercio del grano nella speranza che una maggiore concorrenza spingesse i proprietari a migliorie nelle colture.

Sebbene sostenuta con vigore anche dagli altri ministri la liberalizzazione del commercio dei grani non sortì gli effetti desiderati per via di cattivi raccolti a livello europeo che incentivarono la speculazione.

La situazione degenerò nel marzo 1766 provocando il Motin de Esquillace: Pretesto per l’insurrezione fu l’ordine di sostituire il cappello a tesa larga tipico dei ceti popolari con il tricorno; i manifesti affissi in tutta Madrid da parte dei settori più retrivi del clero e della nobiltà, esacerbati dall’abolizione di alcuni privilegi fiscali, accesero ulteriormente la protesta e contribuirono a convogliarla verso la politica riformista del governo.La popolazione si diresse verso il Palazzo Reale radunandosi nella piazza mentre la Guardia Vallona, di scorta sin dal matrimonio di Maria Isabella di Borbone-Parma con il futuro imperatore d’Austria Giuseppe II avvenuto nel 1764, aprì il fuoco.

Dopo un breve ed intenso corpo a corpo tra le parti il Re preferì non esacerbare ulteriormente gli animi e non inviò la guardia reale mentre il consiglio della corona restava diviso su opposte soluzioni e, poco prima dell’incidente, il Conte di Revillagigedo si dimise dai suoi incarichi per evitare di essere costretto ad ordinare di aprire il fuoco sui rivoltosi.

Da Madrid la rivolta si estese a città come Cuenca, Saragozza, La Coruña, Oviedo, Santander, Bilbao, Barcellona, Cadice e Cartagena.

Bisogna, tuttavia, sottolineare il fatto che mentre a Madrid la protesta era diretta verso il governo nazionale, nelle provincie il bersaglio erano gli intendenti ed i funzionari locali dovuti a casi di malversazioni e corruzione.Gli Obbiettivi dei rivoltosi erano i seguenti: riduzione dei prezzi dei prodotti alimentari, abolizione dell’ordine sul vestiario, licenziamento del Marchese di Squillace e amnistia generale; richieste che furono tutte quante accolte dal Re.Squillace fu sostituito dal conte di Aranda, un trattato commerciale con la Sicilia permise di incrementare le importazioni di Grano mentre il nuovo governo riformava i consigli provinciali aggiungendo ai funzionari di nomina regia alcuni deputati eletti dalla popolazione locale.

L’Espulsione dei Gesuiti

Caduto in disgrazia il marchese di Squillace, il re si appoggiò a riformatori spagnoli, come Pedro RodriguezCampomanes, il conte di Aranda o il conte di Floridablanca.

Campomanes, in primo luogo, istituì una commissione d’inchiesta per indagare se la rivolta avesse avuto dei mandanti individuandoli poi nei Gesuiti, motivando la sua affermazione con i seguenti capi d’accusa:

La loro grande ricchezza.

Il controllo sulle nomine e sulla politica della chiesa.

Il sostegno al papa.

La fedeltà al marchese di Ensenada.

La partecipazione negli affari del Paraguay.

Il loro intervento nella rivolta manifestatosi nei volantini di incitamento.

A seguito di ciò, nonostante le proteste di forti settori dell’aristocrazia e del clero, un decreto reale del 27 febbraio del 1767 imponeva ai funzionari locali il sequestro dei beni della compagnia di Gesù e di disporre la loro espulsione, inserendosi così, Carlo di Borbone, in un complesso processo di cacciata dei Gesuiti, che, a partire dalla Cina Imperiale, caratterizzerà tutto il Settecento prerivoluzionario.

L’espulsione dei Gesuiti aveva, tuttavia, privato il paese di molti insegnanti e letterati generando un forte danno al sistema educativo iberico.A tale scopo il Re ed i ministri incoraggiarono numerosi studiosi a trasferirsi nel paese mentre le ricchezze dei gesuiti, almeno in parte, furono usate allo scopo di incentivare la ricerca scientifica.Nel 1770 furono istituiti a Madrid gli Estudios de San Isidro , una moderna scuola superiore allo scopo di servire da modello per future istituzioni mentre furono fondate numerose scuole di Arti e Mestieri, le odierne scuole professionali, allo scopo di garantire al ceto produttivo un’adeguata preparazione tecnica e ridurre il problema, sentito sin dai tempi di Filippo II della penuria di manodopera specializzata.Anche l’università fu riorganizzata sul modello di quella di Salamanca in modo da incentivare gli studi scientifici e pratici rispetto a quelli umanistici.

Dopo l’istruzione, la spinta riformatrice investì l’agricoltura, ancora legata al latifondo; José de Gálvez e Campomanes, influenzati dalla fisiocrazia incentrarono la propria attività sulla promozione delle colture e sulla necessità di una più equa ripartizione della proprietà fondiaria.Per incentivare le attività agricole furono costituite le SociedadesEconómicas de Amigos del País,mentre fu ridotto il potere della mesta, la corporazione dei pastori transumanti.

Nel 1787, Campomanes redasse un programma, finanziato dallo stato, di ripopolamento delle zone disabitate della Sierra Morena, della valle del Guadalquivir con la costruzione di nuovi villaggi ed opere pubbliche sotto la supervisione di Pablo de Olavide il quale garantì anche l’apporto di manodopera tedesca e fiamminga, ovviamente cattolica per promuovere l’agricoltura e l’industria in un’area disabitata e minacciata da banditismo.

Oltre a ciò si riorganizzò l’esercito coloniale mentre furono rafforzati gli arsenali navali.

Notevole fu, inoltre, la legislazione volta a promuovere il commercio, quali la defiscalizzazione delle nuove compagnie commerciali, la liberalizzazione del commercio con le Colonie con conseguente abolizione del monopolio reale (1778), l’istituzione della Banca di San Carlos nel 1782, la costruzione del Canale Reale d’Aragona e i lavori alla rete stradale spagnola.

Nel 1787 fu indetto il Censimento allo scopo di ridurre il deficit demografico e di incentivare l’aumento della natalità, oltre che per scopi fiscali in modo da garantire una maggiore efficienza nella riscossione e ridurre le frodi sulle dichiarazioni dei redditi e dei possessi tassabili.

Non fu particolarmente attivo sul piano legislativo anche se, su influenza di Beccaria, restrinse la pena di morte al solo codice militare ed abolì la tortura; non riuscì ad abolire del tutto l’Inquisizione Spagnola ma comunque impose limiti tali da renderla di fatto quasi inoperosa.

Infine fu notevole, anche se eccessivamente ambizioso, il piano di sviluppo delle attività manifatturiere, in particolar modo beni pregiati come le Porcellane del BuenRetiro, le vetrerie del palazzo reale de la Granja e le argenterie Martinez.

Tuttavia né questo né le Camere di Commercio riuscirono a stimolare, salvo che nelle Asturie e nelle regioni Costiere, in primo luogo in Catalogna, altre attività sussidiarie anche se la produzione di lana lavorata conobbe un certo incremento. La Catalogna sempre all’avanguardia come Regione produttiva..

Particolari cure e preoccupazioni ebbe Carlo III per la città di Madrid di cui curò il servizio di illuminazione, di raccolta dei rifiuti e le fognature. Fu stimolato lo sviluppo della città con un piano regolatore razionale, costruiti numerosi viali e parchi pubblici, il Giardino Botanico, L’Ospedale San Carlo e la costruzione del Prado che intendeva destinare come museo della storia naturale.Tale attività lo rese particolarmente popolare presso i Madrileni tanto da meritare il nomignolo di elMejor Alcalde de Madrid

La Società Spagnola all’epoca di crisi dell’impero

La Nobiltà

Diminuita nel numero a seguito dell’esclusione della piccola nobiltà dal censimento, per volere espresso del re, rappresentava il 4 % della popolazione totale.Tuttavia, per quanto ridotta nel numero, intatto era il suo potere economico garantito anche da frequenti matrimoni all’interno dello stesso ceto, usanza che riduceva la dispersione dei beni.Nel 1783, allo scopo di rafforzare la posizione economica dell’aristocrazia, un decreto riconobbe la possibilità anche all’aristocrazia di dedicarsi al lavoro manuale, mentre la concessione di numerosi titoli da parte di Filippo V e dello stesso Carlo III oltre che alla fondazione dell’ordine militare di Carlo III, ne garantì il primato sociale, a compenso dell’abolizione di numerosi privilegi fiscali.

Il Clero

Sebbene costituisse il 2% della popolazione, secondo il Catasto Ensenada possedeva il settimo dei seminativi della Castiglia e un decimo del bestiame mentre il ricavo degli affitti immobiliari, la riscossione delle decime, le donazioni, garantivano cospicui introiti. La diocesi era la più ricca di Toledo, con un reddito annuo di 3,5 milioni di reali.

Il Terzo Stato

Costituiva la restante parte della popolazione: era principalmente composto da contadini, le cui condizioni migliorarono a seguito di una maggiore stabilità politica ed economica, cui timidamente si aggiungeva un nucleo di manodopera operaia.Assai importanti erano, inoltre, gli artigiani il cui salari, secondo il catasto, rappresentavano oltre il 15 % della ricchezza totale ed un ristretto ceto di borghesi composto da mercanti, funzionari, commercianti e proprietari di manifatture, legati alle istanze illuministiche e particolarmente influenti nella capitale, a Cadice, a Barcellona e nei Paesi Baschi. Qui la borghesia nascente è ancora debolissima rispetto alla coeva situazione di Francia, G. Bretagna, dell’Olanda di alcune parti d’Italia

I Gitani: Integrazione e repressione del vagabondaggio

A seguito del fallimento della Gran Redada del 1749, fu problematica la situazione del popolo dei Gitani.

Varie iniziative legislative, culminate in una prammatica regia del 19 settembre 1783, tentarono di promuoverne l’assimilazione pacifica, vietando di utilizzare le parole gitano o castellano novo, sentite come offensive, concedendo loro il diritto di residenza salvo che presso la Corte e proibendo le discriminazioni lavorative.Accanto a tali iniziative, fu proibito l’uso delle vesti, la vita nomade e l’uso della lingua ponendo come sanzione la marchiatura a fuoco sulla schiena, in caso di primo arresto ed in caso di secondo arresto, la pena capitale; ai minori di 10 anni, la pena era, invece, la separazione dalle famiglie e l’educazione presso apposite strutture.

Il 3 settembre 1770 Carlo III dichiarò la Marcha Granadera marcia d’onore, ufficializzandone l’uso nelle occasioni solenni. È stata da allora utilizzata de facto come inno nazionale della Spagna, a eccezione del breve periodo della seconda repubblica (1931-1939).

Si deve a Carlo III anche la paternità dell’attuale bandiera spagnola, la rojigualda (letteralmente “rosso-oro”), i cui colori e il disegno derivano da quelli del pabellón de la marina de guerra, bandiera della marina militare introdotta dal re il 28 maggio 1785.

Ma ritorniamo in Italia:

E’ CON CARLO DI BORBONE CHE SI REALIZZA L’AUTONOMIA DI UN REGNO DEL SUD ITALIA QUALE STATO UNITARIO, SUPERIOREM NON RECOGNOSCENS:

Elisabetta Farnese al figlio Carlo III di Borbone :

“ Le Due Sicilie ,una volta elevate al grado di libero regno,saranno tue.

Va dunque e vinci la più bella ,la più bella corona d’Italia ti attende “.

COSA CARATTERIZZA L’ESERCIZIO DEL POTERE A NAPOLI E NEL SUD DA PARTE DI CARLO?

All’avvento di Carlo di Borbone, Napoli era sovrappopolata e si sosteneva grazie alla presenza degli uffici governativi. Così, Napoli sottraeva risorse al resto del Regno: il mantenimento della capitale, la più popolosa d’Europa dopo Parigi, immiseriva soprattutto le province, ed i contadini erano spesso costretti a emigrare nella metropoli, aumentandone la massa di diseredati. Il Regno di Napoli mancava quasi completamente di strade, osteggiate in passato perché ritenute pericolose in caso di invasione turca. In questo contesto, l’azione del giovane Carlo di Borbone fu decisamente volta sia a generare lavoro e benessere, sia a favorire il ripopolamento delle campagne e degli hinterlands. Carlo aveva coraggio e spirito innovativo, doti che gli resero ben presto un posto di spicco nel piatto mondo del ‘700. Impressionante fu l’opera di ricostruzione di interi quartieri obsoleti, di realizzazione di ospedali, chiese, giardini, di magnifici palazzi. Si pensi al Teatro di San Carlo, alla Reggia di Caserta, a quella di Capodimonte, dove nel 1743 nel grandioso parco nacque la celebre fabbrica di porcellane. Diede poi vita al Museo Borbonico e relativa galleria, partendo dalla Collezione Farnese.

Questa collezione, che apparteneva a Carlo per parte di Madre, sarà all’origine della ancora oggi terza più importante pinacoteca d’Italia, quella custodita nella Reggia di Capodimonte, mentre i reperti archeologici, che la caratterizzavano, prodotto di scoperte avvenute in Roma e dintorni ad opera dell’antica famiglia signorile che da nome alla collezione, alimentarono, a metà Settecento, un circuito di studi e ricerche sui reperti antichi, che poi “esplose” con la riscoperta di Pompei ed Ercolano, quindi con la possibilità di costruire un immenso patrimonio archeologico, che dall’ancien regime arriverà pari pari all’Italia unitaria, con la costituzione del Museo Archeologico di Napoli, primo in Italia, a parte i Musei Vaticani, per la qualità ed il numero delle opere esposte od esponibili.

Critiche riduttive, se non ingenerose, hanno in passato tentato di ridimensionare la figura di questo monarca, puntando il dito sulla eccessiva magnificenza ed onerosità dei palazzi reali di Portici e di Capodimonte, e della superba reggia di Caserta, affidata al genio di Vanvitelli. Re Carlo è stato anche tacciato di paternalismo per le sue iniziative a favore del popolo. E’ stato altresì scritto che le fabbriche da lui create servivano solo per produrre orpelli per le sue residenze e quelle della nobiltà; che la realizzazione di strade, stazioni postali e parchi, compiuta da Carlo, sarebbe unicamente da ascrivere alla sua grande passione per la caccia, a cui tutto il re avrebbe sacrificato.

Ad un’analisi un po’ meno grossolana non può sfuggire il merito principale del re, che fu quello di riuscire a produrre con la sua azione energica, ma allo stesso tempo raffinata, un periodo di crescita e sviluppo che resta memorabile nella storia del sud. Il giovane re in tal modo si discostò da tutte le politiche economiche dell’epoca, dimostrandosi un vero e proprio precursore, utilizzando efficacemente il pubblico denaro per opere che crearono lavoro, occupazione, incremento della domanda che, a loro volta, rimisero virtuosamente in moto l’economia. Ma Carlo fece anche di più: portò il Regno ai primi posti del mondo dell’epoca per dinamismo e trasformazione, per ricchezza e varietà delle arti e della cultura in generale. Napoli in particolare, ma anche le tantissime altre città d’arte del Meridione, divennero meta obbligata dei viaggiatori, che trovarono un Paese in rapido ed armonico progresso, tanto che lo stesso Goethe espresse ammirazione per “gli operosi napoletani”.

Certamente quello di Carlo fu assolutismo illuminato, che oggi potrebbe configurarsi come “paternalismo” (si narra che amasse dire che “le ricchezze dei re sono fatte per i poveri”), ma il giudizio storico non può prescindere dal contesto dell’Europa continentale della prima metà del Settecento, dalle condizioni degli altri Stati italiani, dalle concezioni e dottrine economiche dell’epoca, dall’arretratezza culturale di molti altri sovrani europei. E riferendoci all’epoca, il regno di Carlo è da considerarsi rivoluzionario, volto al progresso dello Stato inteso per la prima volta come collettività, e tale fu percepito dai sudditi, che uscivano da lunghi secoli di dominazioni vicereali.

Meno conosciuta, ma altrettanto importante, è la profonda riforma dello Stato, a cui proprio Carlo aveva restituito l’indipendenza, da lui attuata con la collaborazione del valente ministro Tanucci: lo Stato feudale, dagli innumerevoli conventi, con una profusione di privilegi nobiliari, civici e religiosi, fu oggetto di una continua e decisa azione riformatrice. Furono raggiunti importanti risultati, con la soppressione di molti abusi e la possibilità per i contadini di cominciare ad affrancarsi dalla tirannia dei baroni, e di poter raccogliere e seminare nei terreni demaniali [cfr. usi civici, la Manomorta]. Sugli usi civici, che consentivano ai contadini non proprietari di coltivare e prendere i frutti del loro lavoro si basa la decisiva spinta alla difesa dei Borbone contro lo Stato nazionale sabaudo, che quegli usi civici aboli’ in ossequio al patto coi grandi possidenti terrieri, stipulato al momento della discesa al Sud di Garibaldi, ma soprattutto del Generale Cialdini, fedelissimo di Casa Savoia.

Carlo concepì anche il piano per decongestionare la capitale, valorizzando l’hinterland con la costruzione di strade ed edifici. I lavori promossi da Carlo furono così importanti e numerosi, da generare un impulso virtuoso per tutta l’economia del Regno, che veniva da anni di profonda sudditanza e stagnazione. Vanno altresì ricordate le sue opere pubbliche, per la modernizzazione delle infrastrutture, come strade e acquedotti, o economiche, come i Granili ed il Foro.

Per quanto si oggi possa pensare, l’Albergo dei Poveri rappresentò all’epoca un’opera rivoluzionaria: “un’idea bizzarra”, scrive Antonio Ghirelli nella sua Storia di Napoli, “che rispecchia in modo emblematico la paternalistica, ma generosa, preoccupazione di Carlo per la felicità del suo popolo”. Ben più positivo fu il giudizio di Giambattista Vico, il grande filosofo napoletano dei “corsi e ricorsi storici”, secondo il quale Carlo di Borbone incarnava la figura del sovrano ideale in una moderna “monarchia civile”.

La nascita del regno meridionale fu il fatto nuovo del settecento italiano, l’inizio di un periodo storico nuovo, di un processo di trasformazione. Anche in Sicilia

Carlo assunse il titolo di III , mostrando così di considerarsi un sovrano ereditario. L’incoronazione di Palermo segnò un successo della diplomazia borbonica sulla politica papalina ma contemporaneamente rafforzò il baronaggio siciliano con le conseguenze destabilizzanti sul nuovo regno che tutti conosciamo. Per parafrasare D’Azeglio: le Sicilie erano fatte ma bisognava fare i siciliani!

Se il dualismo statuale siculo-partenopeo conservava l’autonomia dei due regni ,non impediva tuttavia un’azione politica unitaria. Venne così elaborato nel 1736, da un apposito gruppo di giuristi, un programma politico da applicare ai due regni. Tale programma prevedeva la moderazione del lusso (lo “spagnolismo”), il divieto di ostentare vessilli stranieri, l’introduzione di vantaggi e privilegi doganali e fiscali atti a promuovere i commerci sia terrestri che marittimi, il rientro degli ebrei, che sicuramente avrebbero dato una notevole spinta all’imprenditoria, la proibizione al potentissimo clero di acquistare nuovi beni immobili, un censimento della popolazione per meglio ripartire gli oneri fiscali ed infine togliere, o quantomeno ridimensionare, ai baroni siciliani la giurisdizione sulle terre feudali.

Infine una notazione sul regno di Carlo in America Latina

Durante il regno di Carlo III le materie coloniali furono concentrate in un solo ministero, che dipendeva dal Consiglio delle Indie. I poteri di burocrazia locale passati ai creoli nei precedenti 150 anni furono assegnati ad ufficiali spagnoli.

Carlo III diede il via ad un difficile processo di cambiamento del complesso sistema amministrativo degli Asburgo. I corregidores furono sostituiti da un’istituzione francese, gli intendenti. Questi intendenti rispondevano direttamente alla Corona, non al viceré, e gli venivano assegnati ampi poteri in materia di economia e politica. Il sistema delle intendenze si dimostrò efficiente in molte aree, e portò ad un incremento del gettito fiscale. Ebbe anche il voluto effetto collaterale di decentralizzare l’amministrazione. Le sedi delle intendenze si trovavano solitamente nelle grandi città, ed in seguito sul luogo delle miniere. Quasi tutti i nuovi intendenti erano peninsulares, ovvero persone nate in Spagna, esacerbando il conflitto tra i peninsulares ed i creoli che avrebbero voluto mantenere un certo controllo amministrativo. Carlo III e Carlo IV annullarono anche i diritti conquistati dai creoli nelle audiencias. Durante il governo asburgico la Corona aveva venduto alcuni posti di prestigio nelle audiencia ai creoli. I re Borbone misero fine a questa pratica. A partire dal 1807, solo 12 dei 99 giudici dell’audiencia erano creoli.

Dal punto di vista economico, la riscossione delle tasse divenne più efficiente grazie alle intendenze. Nel 1778 Carlo III emanò il “Decreto di Libero Commercio”, che permetteva ai porti dell’America Spagnola di commerciare direttamente con molti porti spagnoli. Fu applicata una riduzione delle tasse per le miniere d’argento. Con l’espansione dei monopoli statali si scoprì che il tabacco era una coltivazione remunerativa. Molte colonie iniziarono produzioni su larga scala che si rivelarono vitali per molte potenze europee, nonostante il contrabbando. Molti re borbonici tentarono di mettere fuorilegge questo commercio con vari programmi, aumentando l’uso delle ricevute, ma si rivelarono tutti fallimentari.

Prima dell’arrivo dei Borbone l’esercito spagnolo nelle Americhe era ridotto ad una sola divisione. I Borboni crearono una milizia più organizzata, usando ufficiali nominati direttamente dalla Spagna; questa scelta durò poco, dato che i locali si appropriarono di molte posizioni. Le milizie coloniali divennero una fonte di prestigio per i creoli vogliosi di avanzare nella gerarchia sociale. I gradi militari erano basati sulla razza. Esistevano milizie per i bianchi, per i neri, e per le persone di razza mista. Quasi tutti gli alti ufficiali erano spagnoli, mentre i creoli occupavano i ruoli di secondo livello.

I Borboni resero più secolare il governo. Il ruolo politico della chiesa fu diminuito, anche se non completamente annullato. A differenza degli Asburgo, che spesso usavano uomini di chiesa nei ruoli politici, i Borboni preferivano nominare i militari in carriera. Questo processo raggiunse il culmine con la soppressione della Compagnia di Gesù del 1767. I gesuiti erano uno dei più potenti ordini religiosi, fondamentali per lo svolgimento delle missioni nelle Americhe e nelle Filippine. Avendo numerosi rivali negli altri ordini religiosi, la loro eliminazione fu accolta con un plauso. La corona tentò di inserire numerosi chierici secolari nella gerarchia ecclesiastica, ribaltando l’usanza comune del tempo. Alla fine queste modifiche ebbero poco effetto sulla Chiesa in generale. Verso la fine del regno dei Borboni, alla vigilia dell’indipendenza, la corona tentò di confiscare i beni della Chiesa, ma l’attuazione del proposito si rivelò molto ardua.Carlo muore nel 1788, un anno prima della Rivoluzione Francese, quasi a segnare il confine visibile tra l’epoca in cui il campo riformatore è dato dalle Grandi Famiglie Regnanti europee a quello in cui esso si identificherà con la borghesia che entra nell’agone politico diretto, in connessione col popolo minuto ed il primo proletariato.

Ma ovviamente non vogliamo lasciarvi, dandovi l’impressione di star eccessivamente creando un santino di Re Carlo. La storia del suo governo contiene semi, nodi e problemi su cui torneremo in seguito con riferimento al Sud Italia, alla storia nazionale ed europea, partendo da importanti opere sociali, come le seterie di S. Leucio, il cui statuto cooperativistico fu approvato da Ferdinando, il Re successore di Carlo a Napoli. Vogliamo lasciarvi con la storia di un rivoluzionario peruviano, la cui lotta e la cui vita furono mozzate orribilmente, per essersi egli ribellato alla Corona Spagnola in quegli anni:

TUPAC-AMARU

(José Gabriel CondorcanquiNoguera, Surimana 1738 – Cuzco 1781). Rivoluzionario indio del Perù. Cacique (capo) degli indios quechua della regione di Cuzco, discendeva dall’ultimo inca (imperatore), Tupac-Amaru I, soppresso nel 1572. Dopo innumerevoli reclami contro la violenza nella mita, rivolti invano al viceré del Perù, nel 1780 guidò una sollevazione assumendo il nome di Tupac-Amaru II. Il movimento, che raccolse 90.000 combattenti, si diffuse fra le popolazioni indigene scuotendo le fondamenta dell’impero coloniale e liberò parte del Perù e dell’Alto Perù (Bolivia), ma fu sconfitto per mancanza di esperienza militare. Fatto prigioniero, fu condannato a morte con la sposa e i figli; i loro corpi, squartati, vennero esposti sul monte Picchu alle porte di Cuzco.

Ecco, se è vero, come diceva Croce, che la Storia è sempre contemporanea, è altresì vero che essa, lontano dall’Europa, ed ad opera dei nostri antenati europei, mantiene un segno di violenta sottomissione, di asservimento, del quale mai dovremmo dimenticarci, quando invece costruiamo la fortezza Europa chiusa agli altri Continenti.

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