Il governo Renzi, ancor più di quelli guidati da Berlusconi, ha agito con l’intento di trasformare le istituzioni rappresentative in organi di democrazia maggioritaria nelle mani del Capo del Governo così da creare un regime di ‘premierato assoluto’, e ha sostenuto, con le politiche fiscali e di deregolamentazione del mercato del lavoro, la modernizzazione delle imprese sottoposte a una spietata competitività sui mercati globali. Un disegno di accentramento del potere politico e di innovazione dei processi produttivi, per la cui realizzazione Renzi aveva forgiato un’alleanza con una serie di esponenti del padronato piuttosto che con l’insieme della Confindustria e ha usato come instrumenta regni i rapporti con alcuni ‘organismi intermedi’ – la CISL e categorie quali gli artigiani e gli agricoltori. Il disegno però era di disintermediare i rapporti tra Capo del Governo e società. Per questo è entrato in rotta di collisione con tutti i sindacati di base, come l’USB, e con i movimenti che hanno alimentato in questi anni il conflitto sociale nei territori, così come con la FIOM, con il movimento della scuola e la FLC, e con la stessa CGIL, che della concertazione, cancellata da Renzi, ha fatto la sua stella polare e il fondamento della sua forza contrattuale. Per difendere il suo potere, politico prima ancora che contrattuale, la CGIL ha sfidato Renzi sulla riforma del lavoro raccogliendo le firme per lo svolgimento di referendum su tre quesiti relativi al Jobs Act.
1. Il Patto per la Fabbrica
Si è creata una situazione paradossale: il 4 dicembre 2016, la schiacciante vittoria del NO al referendum sulla controriforma costituzionale ha decretato la fine del governo Renzi, grazie alla mobilitazione di centinaia di Comitati, e allo schieramento di sindacati, associazioni, movimenti territoriali; il 7 dicembre CGIL-CISL-UIL hanno siglato con la Confindustria il Patto per la Fabbrica, mentre il 26 novembre la FIOM aveva apposto la sua firma all’ipotesi di contratto nazionale dei metalmeccanici, e a loro volta i sindacati del pubblico impiego, a due giorni dal voto referendario, raggiungevano un accordo-quadro con il ministero della Funzione pubblica. Il senso del paradosso: la CGIL, che negli ultimi anni ha subito l’attacco di governo e Confindustria volto a depotenziare la concertazione e la contrattazione nazionale, e che ha partecipato al referendum per sconfiggere il progetto di controriforma costituzionale, al tempo stesso, nonostante la mancata firma di taluni accordi interconfederali, non ha mai abbandonato una strategia di ‘intesa sociale’ sfociata nel Patto per la Fabbrica. La FIOM, che per anni ha sostenuto un duro scontro con FIAT-FCA e in rotta con FIM e UILM non aveva firmato due contratti nazionali per difendere ruolo e autonomia del sindacato, ha siglato nel 2016 un non contratto, visto che non si prevedono aumenti salariali sostituiti da benefit. A un paese che soffre di bassi salari, disoccupazione, precariato le cosiddette forze sociali, con gli accordi con Confindustria e Federmeccanica, hanno steso una rete di sicurezza per il sistema politico, che può contare su di esse per tessere nuove trame, siano esse per un governo di unità nazionale siano esse per un centrosinistra sempre a trazione PD.
La strategia di CGIL-CISL-UIL e della Confindustria si evince chiaramente dalle prime righe del comunicato di annuncio del Patto per la Fabbrica laddove, sottolineando il momento di crisi politica e istituzionale, chiedono misure “per rimettere in moto la crescita, gli investimenti, l’occupazione” per dare forza “alla competitività delle imprese e impulso alla crescita occupazionale”. Si elencano poi le misure di natura più strettamente sindacali quali il welfare aziendale, la bilateralità, il riordino della rappresentanza e dei perimetri contrattuali. Balzano evidenti due punti. Il primo: l’occupazione, secondo il Patto, discenderà dal recupero della competitività delle imprese, quindi si sancisce la subordinazione dei livelli occupazionali all’aumento della produttività che nei settori dove in questi anni si è realizzato non ne ha comportato l’ampliamento; il secondo è la cancellazione della centralità del salario nella contrattazione, che si dovrà invece occupare di welfare e bilateralità. Non a caso sono queste le materie su cui è fondato il contratto dei metalmeccanici, e, pur nella genericità di un accordo-quadro, quello del pubblico impiego.
Le ‘parti sociali’ si candidano a contenere e ad assorbire la crisi della maggioranza parlamentare e a offrire il supporto per un’evoluzione nella prossima legislatura del quadro governativo entro il perimetro delimitato dalle forze politiche di centro e dal PD, con programmi legittimati dall’ Unione Europea e sostenuti dalla Confindustria: il salario si contratta nelle aziende e deve essere legato alla produttività; in primo piano sono i premi aziendali sostenuti dalla fiscalità di favore; mano libera agli imprenditori nell’organizzazione del lavoro e nelle ristrutturazioni delle imprese; introduzione di misure di welfare aziendali a sostituzione dei ‘beni pubblici’; erogazione di servizi a cui associare i sindacati. Negli anni dell’austerità, imposta durante la grande recessione, la CGIL si è divisa da CISL e UIL nei rapporti con i governi, ma non è stata in grado di promuovere conflitti capaci di contrastare la strategia di ‘svalutazione interna’ imposta dalla moneta unica e dalle politiche di flexisecurity. Solo con la raccolta di firme per il referendum contro il Jobs act la CGIL ha innescato un conflitto con il governo Renzi, senza però nessun mutamento di strategia per quanto riguarda le complessive politiche del lavoro e le ‘riforme di struttura’ volute dall’UE. Sono queste politiche ad aver causato una precarizzazione generalizzata, l’aumento della povertà che colpisce sempre più anche chi lavora, l’esplodere della disoccupazione, la destrutturazione dei contratti nazionali e il decentramento della contrattazione collettiva, di fatto la loro aziendalizzazione secondo il ‘modello Marchionne’.
L’UE è stata, ed è, la guida di questa strategia di flexisecurity che ha pressoché azzerato la specialità del diritto del lavoro, riconducendolo nell’alveo del diritto privato: le garanzie non sono più da attuare nelle aziende, ma sul mercato; non c’è più il diritto all’occupazione ma ‘politiche attive’ per l’occupabilità. Nell’epoca della delocalizzazione e del decentramento produttivi la manodopera deve adattarsi ai bisogni del mercato e dell’organizzazione dell’impresa. È il nuovo ordine sociale del workfare, teorizzato fin dal 2006 nel Libro Verde sulla modernizzazione del diritto del lavoro della Commissione UE, e legittimato dalle sentenze della Corte di Giustizia Europea, giunta con le sentenze Viking e Laval, del 2007, a subordinare gli scioperi e le altre forme di azione sindacale alla libertà di movimento e stabilimento delle imprese, così da piegare i diritti collettivi dei salariati alle libertà economiche delle imprese.
Ciò che sta a cuore a CGIL-CISL-UIL è il loro potere, che la disintermediazione di Renzi voleva limitare se non proprio cancellare, e la conservazione del monopolio della rappresentanza che si vuole perpetuare attraverso l’Accordo interconfederale del 10 gennaio 2014.
Che tutto questo possa significare la mutazione del sindacato da agente contrattuale a erogatore di servizi, è accettato di fatto dalla CGIL, che si allinea alle teorizzazioni della CISL. Nel Patto per la Fabbrica non è casuale il riferimento alla bilateralità in quanto da anni CGIL-CISL-UIL sono attive, chi più che meno, nell’intermediazione del lavoro, nella formazione (spesso con l’uso clientelare delle risorse pubbliche), nella gestione degli istituti dell’integrazione del reddito, nella promozione del welfare aziendale.
La CGIL con il Patto per la Fabbrica accetta di porre come vincolo della dinamica salariale la produttività e il recupero ex post dell’inflazione conteggiata secondo i parametri IPCA, la cui contestazione l’aveva spinta a non sottoscrivere l’Accordo del 22 gennaio 2009. La CGIL, come è già successo altre volte nella sua storia, fa propria con qualche ritardo l’impostazione della CISL che in questi anni ha praticato l’azione sindacale come strumento per sostenere la competitività delle aziende. Guido Baglioni l’ha definita, approvandola, ‘modalità adattiva’1.
2. La coalizione sociale
Con la sigla del contratto nazionale dei metalmeccanici, pure la FIOM ha attuato questa pratica adattiva, seguendo la strategia negoziale della FIM di Bentivogli con cui per anni, soprattutto nella vicenda FIAT-FCA, si era scontrata. Ciò che più colpisce del contratto dei metalmeccanici non è solo la parte salariale – di fatto il mancato aumento con il solo recupero ex post dell’inflazione e i meccanismi di assorbimento –, quanto le misure di welfare. Queste sono un insieme di flexible benefits – così recita l’Accordo – a sostituzione degli aumenti salariali, e poi sussidi per l’assistenza sanitaria e la previdenza complementare, che surrogano i beni pubblici necessari per la fruizione dei diritti alla salute e alla previdenza. Ciò significa legittimare il ricorso al mercato per la produzione e l’acquisizione di questi beni, cancellando lotte decennali per ottenere che essi fossero prodotti in forme pubbliche, distribuiti universalmente a tutti i cittadini, e pagati attraverso la fiscalità generale. Vi è l’ulteriore conseguenza di legare le prestazioni di welfare, necessarie alla fruizione dei diritti universali, al lavoro: si può godere dei servizi sanitari, previdenziali e scolastici solo se si lavora e per quanto si lavora, visto che sono dei benefit; se precario o disoccupato ne sei privato, dovendo ricorrere ai servizi pubblici ormai ridotti all’osso, o erogati ‘a livello essenziale’ (come recitano le leggi in materia).
In testa all’Accordo dei metalmeccanici c’è poi l’impegno ad “allineare e armonizzare le prescrizioni contrattuali con quelle del Testo Unico del 10 gennaio 2014”, decidendo per questo di istituire una commissione ad hoc. Il Testo Unico sulla rappresentanza afferma una concezione proprietaria di CGIL-CISL-UIL, e delle loro Federazioni, nei confronti dei lavoratori dato che sono esse a selezionare i possibili soggetti della contrattazione collettiva. Chi non accetta le clausole del Testo unico è escluso dalla formazione della rappresentanza e dunque dai tavoli contrattuali, ed esse rendono ‘esigibili’ i contratti e stabiliscono sanzioni in modo da impedire il ricorso a qualsiasi forma di lotta, mettendo così in discussione la stessa libertà di sciopero. Il Testo Unico è un’espropriazione del diritto di tutti i lavoratori a eleggere la propria rappresentanza e uno strumento per rendere marginale il sindacalismo di base. La democrazia sindacale e il protagonismo dei lavoratori sono evidentemente buoni per i comizi, non rivendicazioni da far valere ai tavoli contrattuali.
Un altro aspetto, con risvolti più generali, della strategia della FIOM suscita stupore. Contro la FIAT-FCA essa ha perseguito la linea di ampliamento del ‘fronte di lotta’ per rafforzare la sua mobilitazione nelle fabbriche attraverso alleanze con associazioni, movimenti sociali e territoriali, giuristi. Per contrastare le politiche dei vari governi, anche di quelli sostenuti o emanati dal PD, apertamente schierati con Marchionne, la FIOM si è fatta antesignana di una coalizione sociale. Nel documento di convocazione dell’assemblea del settembre 2015, a cui parteciparono ben 70 associazioni, si proclamava “il diritto alla salute, all'istruzione, alla cultura, alla casa, alla pensione e all'assistenza” da assicurare a tutti attraverso “un sistema pubblico ed efficiente per costruire l'uguaglianza nella cittadinanza”, e si poneva l’accento sulla necessità di ridurre le disuguaglianze attraverso la garanzia di un reddito per mettere “le persone al riparo dalla povertà”. Proprio sulla questione dei diritti sociali universali il contratto dei metalmeccanici del 2016 contraddice la piattaforma della coalizione sociale. Anzi, il contratto dei metalmeccanici si confà all’ideologia di Tiziano Treu, perché talune voci salariali invece che in denaro sono in ‘moneta welfare’, che avrebbe a suo parere più valore in quanto defiscalizzata. Treu esalta la ‘moneta welfare’ perché avrebbe addirittura caratteristiche ‘comunitarie’, in quanto consente al lavoratore di ‘ricevere servizi di welfare’ da organizzazioni non statali, sia private sia del terzo settore, che li offrono al posto delle istituzioni pubbliche2. L’erogazione privata di prestazioni ‘sociali’, per meglio dire la distruzione del welfare pubblico, è stata legittimata dalla previsione della sussidiarietà orizzontale, introdotta con la revisione dell’articolo 118 della Costituzione approvata dal centrosinistra nel 2001.
La coalizione sociale, constatata la rotta dei partiti e partitini della sinistra, aveva l’ambizione di riunificare lavoro, nonlavoro, movimenti sui territori per dare nuovo vigore alla lotta per la cittadinanza politica e sociale, per i diritti individuali e la democrazia. Certamente coglieva l’esigenza di declinare in forme nuove la relazione tra sfera sociale e sfera politica, tra la società civile e le sue rappresentanza attraverso l’attivizzazione di una pluralità di soggetti sindacali e associativi. Di tutto ciò non si è sentito più parlare. Dopo l’assemblea del settembre 2015, la coalizione sociale si è dissolta nel nulla. Perché questa fine ingloriosa? Solo la lotta contrattuale in cui è stata impegnata la FIOM ne ha impedito lo sviluppo?
Penso che la costruzione di un ampio schieramento di alleanze da parte della FIOM nella lotta contro la FIAT-FCA sia stata una scelta efficace contribuendo, grazie anche alle pronunce giudiziarie e della stessa Corte costituzionale, al successo del ritorno della FIOM ai tavoli della trattativa da cui Marchionne l’aveva esclusa. La proiezione di quello schieramento nella coalizione sociale ha avuto, però, una debolezza di fondo – la mancanza di un progetto di un nuovo sindacalismo. La FIOM ha creduto che si potessero sommare le vecchie pratiche sindacali con quelle di altri attori della società civile, ruotanti grosso modo nell’area che sta tra il PD e la CGIL, con la conseguenza di agire più nelle lotte di potere interne alla CGIL e tra questa e il PD di Renzi. La coalizione sociale ha di fatto svolto un ruolo di stimolo per la rinascita del centrosinistra delle origini contro la deriva centrista del PD, senza rendersi conto che proprio sulle questioni sociali, e specificamente sulle politiche del lavoro, tra centrodestra e centrosinistra non ci sono differenze, perché ambedue sono guidati dal pilota automatico predisposto dall’UE. E questa è stata la seconda debolezza della coalizione sociale – la mancanza di un progetto alternativo al centrosinistra e al PD. La coalizione sociale è sparita dall’orizzonte quando hanno preso il sopravvento le dinamiche interne alla CGIL e al PD – la successione alla Camusso e lo scontro tra Bersani e Renzi. La coalizione sociale ci ha fatto assistere a una delle tante scene di democrazia recitativa, di cui parla Emilio Gentile: i richiami alla ‘società civile’ sono serviti per posizionarsi entro le organizzazioni politiche o sindacali, nel PD o nella CGIL, che sono tra gli artefici principali dello scadimento della politica a lotta per il governo e della riduzione delle forze sociali a movimenti di opinione. Gli elementi di ‘democrazia recitativa’ si possono riassumere nell’uso retorico delle parole d’ordine perché senza alcun effetto pratico: si declamano senza articolare proposte di conflitti e mobilitazioni. Non a caso l’assemblea del settembre 2015 si è rivolta solo ed esclusivamente ad associazioni, evitando di coinvolgere altri soggetti attivi, quando non protagonisti, delle mobilitazioni sindacali e sui territori. Non un esponente dei NO TAV, non un esponente delle lotte per la casa, non un esponente del sindacalismo di base era presente: la coalizione sociale è stata una pluralità senza differenze. Questo un altro motivo del suo fallimento.
3. Il sindacalismo sociale
La tematica dell’innovazione delle pratiche politiche attraverso il ‘sindacalismo sociale’ è portata avanti da varie formazioni, alcune delle quali avevano anche aderito alla coalizione promossa dalla FIOM. Sono le formazioni che hanno dato vita allo Strike Meeting nel settembre 2014 a Roma, rivoltosi a studenti, precari, lavoratori autonomi, disoccupati, ‘partite IVA’. Sulla sua onda fu organizzato uno ‘sciopero sociale’ il 14 novembre 2014 con la rivendicazione del salario minimo europeo, del reddito di base e del welfare universale. Seguì una manifestazione transnazionale, il 18 marzo 2015, contro la BCE a Francoforte a cui presero parte Ver.Di, IG Metall e FIOM, con il proposito di forgiare una coalizione a livello europeo per sperimentare una nuova forma di sciopero, chiamato sociale. Questo progetto si è vanificato, e, probabilmente le cause sono da rinvenirsi nell’impossibilità di individuare un percorso segnato da una strategia di conflitti con sindacati che in Germania, di fatto, hanno cogestito i provvedimenti Hartz e le riorganizzazioni produttive delle fabbriche, a cominciare dalla Volkswagen. Sindacati, inoltre, che fanno parte della CES, protagonista di primo piano nella costruzione dell’UE e nella gestione delle sue politiche. A questa pratica di relazioni con soggetti sindacali integrati nelle politiche dell’UE fanno da contraltare costruzioni ideologiche ardite derivate dall’analisi, ispirata dalle teoria della biopolitica, della riorganizzazione produttiva indotta dalla rivoluzione informatica. Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi, proprio sulla base dell’analisi del capitalismo cognitivo, della precarizzazione dilagante della forza lavoro metropolitana, delle povertà crescenti, avanzano la proposta di un ‘sindacalismo sociale’. Questo vuol nominare le esperienze di lotta che mirano a ‘forzare il blocco’ del conflitto sociale e la pacificazione ‘agita, per debolezza o per scelta, dalle forme sindacali tradizionali’, con cui comunque non disdegnano di collaborare. In concreto il sindacalismo sociale fa riferimento alle occupazioni degli spazi sociali e delle abitazioni, ai conflitti per la riappropriazione democratica delle istituzioni del welfare, al nuovo mutualismo e all’organizzazione del lavoro autonomo e precario. L’esigenza del sindacalismo sociale nasce dalla “crisi della forme della riproduzione sociale innescata dallo smantellamento delle istituzioni del welfare state e dalla destrutturazione della relazione salariale” 3. Si è fortemente critici verso le derive oligarchiche dell’UE, si è consapevoli dei guasti della flexisecurity ma si fa affidamento ad un ‘uso politico delle riforme’, ad un ‘uso non keynesiano del keynesismo’, con una proposta di lotta contro l’euro ma ‘dentro l’euro’, formulazioni che molto ricordano quelle di Tronti sull’uso operaio del PCI….
Il territorio è visto come sede di ricomposizione dei diversi soggetti sociali sfruttati o emarginati dal capitalismo cognitivo globalizzato, e i progetti di costruzione dal basso del mutualismo si accompagnano alla proposta del reddito di base universale e incondizionato. Le pratiche di mutualismo sono senza dubbio uno strumento di difesa dei livelli di esistenza minacciati dalla distruzione del welfare, ma l’esperienza storica dimostra che esso non può sostituire i diritti sociali universali garantiti da istituzioni pubbliche.
Nelle variegate teorizzazioni del ‘sindacalismo sociale’, il quadro di riferimento è l’UE. Di questa si mettono in luce le derive oligarchiche e il suo ruolo propulsivo nelle politiche attive del lavoro, cioè nella distruzione del diritto del lavoro e nella precarizzazione dilagante; nella BCE si individua uno strumento del dominio del capitalismo transnazionale. Nonostante queste giudizi demolitori, gli esponenti del sindacalismo sociale ritengono che si possano utilizzare le istituzioni dell’UE per combatterla come se essa costituisse uno spazio neutro, adatto a qualsiasi politica compresa quella per costruire welfare universale, reddito di cittadinanza e democrazia transnazionale. Se l’orizzonte strategico è l’UE, il disegno del sindacalismo sociale è destinato a rimanere imbrigliato in alleanze multiple di breve momento con soggetti che non hanno alcuna intenzione di usare l’UE contro l’UE e di abbandonare le vecchie pratiche concertative per nuovi approdi. La strategia di lotta del sindacalismo sociale è una versione europeizzata dell’uso politico del PCI contro il PCI.
4. La nuova confederalità
Il territorio è lo spazio sociale individuato dall’Unione Sindacale di Base per costruire esperienze di confederalità sociale sia attraverso organismi ad essa affiliati come l’Associazione Inquilini e Abitanti, ASIA, sia con la partecipazione a movimenti come la Carovana delle periferie di Roma. Questi movimenti hanno negli ultimi tempi accelerato la ricerca di modalità di coordinamento a livello nazionale, oggetto di dibattito nelle assemblee svoltesi a Napoli il 9 luglio e il 3 settembre, e in Val di Susa il 16 e 17 luglio 2016. L’organizzazione di una rete social-sindacale – comprensiva dei sindacati di base, centri sociali, movimenti territoriali – è il programma specifico della Carovana delle periferie che vi vede la via maestra per costruire un movimento anticapitalistico.
Già nel 2013, con le due giornate del 18-19 ottobre, un insieme di forze sindacali, di movimenti territoriali e di partiti intraprese il tentativo di dare una prospettiva politica ai conflitti sociali, che si arenò a causa della scelta di formare la Lista Tsipras per le elezioni europee del 2014.
Il 21 ottobre 2016, l’USB, l’UNICOBAS e altri sindacati di base hanno compiuto un atto di forte significato politico indicendo uno sciopero contro la legge di bilancio e contro la deforma costituzionale, partecipando nel pomeriggio alla acampada di Piazza San Giovanni a Roma e alla manifestazione del giorno successivo (promosse dalla Piattaforma NO sociale). Da decenni non si convocava uno sciopero con connotazioni immediatamente politico-istituzionali, e questa scelta ha consentito ai sindacati di base di entrare in rapporto con i Comitati del NO, contribuendo a quella vasta opera di alfabetizzazione costituzionale che ha diffuso i valori della Carta del 1948 tra milioni e milioni di persone trasmettendoli alle giovani generazioni.
La prospettiva in cui si muovono queste esperienze è quella della confederalità sociale. La ‘confederalità’ sta a significare, a mio avviso, che le relazioni tra i diversi soggetti sono alla pari così da improntarle a un criterio di democraticità. Relazioni alla pari significano, poi, che non si istituisce una gerarchizzazione tra i diversi conflitti sociali, tra quelli del mondo del lavoro e quelli in ambito territoriale, con l’intento di superare il concetto gramsciano di egemonia che pur sempre implicava l’instaurazione del primato degli interessi e dei valori della classe operaia e del suo partito nel blocco anticapitalistico.
Le esperienze di confederalità sociale sono caratterizzate da una posizione di netta contrapposizione all’UE e all’euro e, in sintonia con la piattaforma di Eurostop, optano per una scelta di rottura dell’UE e per la fuoriuscita dell’Italia dall’euro. L’UE è giudicata ‘irriformabile’ e l’euro è visto come uno strumento di lotta di classe dall’alto. Una seconda caratteristica è la costruzione di strette connessioni tra sindacalismo di base e movimenti che si battono nei territori contro le devastazioni ambientali e per il diritto all’abitare, o contro la privatizzazione dei servizi pubblici per la difesa dei diritti di cittadinanza.
Le giornate del 21 e del 22 ottobre 2016, avendo per obiettivi il NO alla controriforma costituzionale e la difesa del lavoro e dello Stato sociale, ha visto la partecipazione di una pluralità di forze – dai lavoratori della logistica, che, durante un picchetto pochi giorni prima, avevano vissuto l’assassinio del proprio compagno di lotta Abd Elsalam, ai lavoratori del pubblico impiego, del commercio e di significative fabbriche metalmeccaniche, ai migranti, agli occupanti delle case, ai NO TAV e ai NO Corridoio, ai Comitati del NO al referendum costituzionale.
Le forze capitalistiche hanno costruito, grazie al mercato unico europeo, ‘catene del valore’ transnazionali che, attraverso una nuova divisione del lavoro, hanno ridisegnato la geografia produttiva e sociale dei territori. Esse perseguono una complessiva strategia, i cui capisaldi sono l’innovazione produttiva con rinnovate filiere della subfornitura legate ai nuclei forti delle industrie tedesche, la flessibilizzazione del mercato del lavoro per mantenere bassi i salari, l’aziendalizzazione della contrattazione collettiva chiamata a sostenere i processi di riorganizzazione delle imprese, la privatizzazione dei servizi pubblici. Ciò richiede, a livello politico, lo slittamento del potere decisionale dalle istituzioni rappresentative verso i governi e organi tecnocratici, che hanno il mandato imperativo di far funzionare i mercati delle merci e dei servizi, dei capitali e del lavoro. La strategia delle forze capitalistiche europee tiene insieme fabbrica, società e istituzioni, mentre le classi subalterne e le loro organizzazioni hanno oscillato tra lotte di categorie e movimenti di opinione. La connessione tra conflitti sindacali e movimenti sui territori, nel quadro di una lotta per la rottura dell’UE consente di costruire una linea politica in grado di contrastare quella strategia e di sviluppare lotte per il superamento del capitalismo.
Il ‘territorio’ diviene lo spazio per dar vita a movimenti sociali in grado di affrontare l’insieme della condizione di lavoro e di nonlavoro, per mettere in relazione le lotte sul salario, sul reddito di cittadinanza, sui servizi universali e quelle contro le devastazioni del territorio e per politiche ambientaliste, le lotte per un nuovo welfare pubblico e quelle per i beni comuni e meritori. Legando le rivendicazioni nei luoghi di lavoro con i molteplici movimenti sociali si possono dar vita a progetti di come e cosa produrre in funzione delle persone, dei loro bisogni e delle loro scelte di vita. È questo il terreno di sfida con il capitalismo, perché questi movimenti mettono al centro i diritti delle persone al posto degli imperativi dei mercati, e si propongono di trasformare le istituzioni, in modo che queste operino per “ rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
* Forum Diritti Lavoro e attivista di Eurorostop
NOTE
- Guido Baglioni, La lunga marcia della Cisl, Bologna 2011, p. 291;
- v. L’Impresa, maggio 2016, p. 9;
- per i riferimenti v. Sindacalismo sociale, a cura di Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi, Milano 2016,pp. 20-21 e 27-28
Il presente saggio è pubblicato anche su Alternative per il socialismo, n. 43
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Daniele
No, un momento: se gli operai, primi bersagli della controriforma sociale, non stracciano le tessere di CGILCISLUIL, alora si vede che come vanno le cose gli sta bene; da perte mia ho strappato la tessera di quel merdaio della CGIL nel 1992, quindi…….