Il cantiere dell’Unione Europea (UE) è in piena attività con i due capimastri – Merkel e Macron – che spingono per accelerare la sua mai completa costruzione. Gli operai quando vi hanno accesso, sono alloggiati nelle cantine e al massimo al pianterreno, senza alcuna speranza di poter accedere ai piani superiori. Fuor di metafora: negli ultimi mesi, in un clima di ritrovato slancio dovuto al miglioramento degli indicatori della produzione e dei profitti (non certo quelli dell’occupazione e dei salari) e del pieno controllo sulle trattative del Brexit, le élite dirigenti hanno intrapreso progetti e iniziative con l’intento di rafforzare le istituzioni e l’economia dell’UE, in particolare per i paesi della Zona-euro si vogliono consolidare organi e meccanismi approntati nella gestione della Grande Recessione.
In primo luogo, per portare a compimento l’Unione bancaria la Germania ha posto quale condizione la riduzione dei titoli del debito pubblico negli attivi delle banche così da metterle al riparo dal rischio-Stati, mentre continua la pressione per far scendere i livelli del debito pubblico ‒ soprattutto nei paesi dove risulta molto elevato e in aumento, come l’Italia. Da parte della BCE, con l’Addendum alle linee guida sui crediti deteriorati (ottobre 2017), si chiede alle banche di liberarsi dei ‘non performance loans’ (NPL), non essendo sufficiente la loro svalutazione, e soprattutto di accantonare a loro copertura nuovo capitale di riserva. Lo ha ribadito lo scorso 5 febbraio Mario Draghi quando nella sua audizione al Parlamento europeo (PE) ha evidenziato che i livelli di NPL vanno sì diminuendo, ma per portarli in zona sicurezza rimane ‘da percorrere un notevole tratto di strada’. Questa, invece, è la condizione di Draghi per completare l’architettura dell’Unione bancaria che necessita di un backstop comune a sostegno finanziario del Fondo Unico di Risoluzione e di uno schema europeo di assicurazione dei depositi (il testo su www.ecb.europa.eu). A ciò si vuole aggiungere, su proposta della Commissione, la creazione del Ministero delle Finanze UE e del Fondo Monetario Europeo per fronteggiare le crisi future. Le élite hanno imparato la lezione di Minsky sull’instabilità finanziaria del capitalismo e mettono a punto politiche e meccanismi per affrontarle.
In secondo luogo le élite UE sono determinate, uso l’espressione della cancelliera Merkel, a ‘prendere nelle proprie mani il proprio destino’ sulla scena mondiale con una molteplicità di iniziative nel campo della difesa e della sicurezza. Acquistano particolare rilievo il varo della PESCO, con gli investimenti comuni nell’industria degli armamenti, e la politica dell’immigrazione divenuta ormai parte della politica di difesa dei confini esterni dell’UE e di stabilizzazione militare dei paesi subsahariani.
In terzo luogo, l’UE è impegnata a contrastare la strategia di Trump dell’America first con le sue pulsioni egemonico-protezionistiche, schierandosi a favore del ‘libero scambio’, degli accordi multilaterali e del WTO. L’UE è contro il protezionismo di Trump, vuole certo il libero commercio, per affermare tuttavia il proprio ruolo nei mercati globali, non disdegnando di ricorrere a misure di salvaguardia dei suoi ‘campioni industriali’. Per esempio il ministro dell’Economia Bruno Le Maire, membro del governo francese guidato dal liberoscambista Macron, non esita ad affermare che in Francia non sarebbe mai stata possibile l’acquisizione dell’impresa tedesca Kuka, gigante della robotica, da parte del colosso cinese Midea finanziato dal proprio Stato (Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2018, p. 2). Infatti Macron è ben deciso a difendere l’industria nazionale, e al massimo quella europea: libero scambio quando vantaggioso, altrimenti misure protettive.
L’UE ha raggiunto la consapevolezza di dover superare la sua minorità politica, essendo da tempo divenuto un gigante economico. È portata avanti con determinazione la sfida con gli USA e con gli altri blocchi regionali, come chiama i grandi spazi economici Peter Dicken (Global Shift, London-Thousand Oaks- New Delhi 20044, pp. 145-47 e. 449)
Alla base di questa molteplicità di intenti e di progetti c’è il disegno di rafforzare le industrie, il perno dell’economia UE, e la loro capacità di innovazione da potenziare ulteriormente con le politiche di Industria 4.0. In questo campo sono attive anche le associazioni nazionali degli industriali sia centralmente a Bruxelles con Business Europe (guidato da Emma Marcegaglia), sia con accordi bilaterali.
La Commissione ha presentato un insieme di proposte, con una loro scansione temporale, elencate in una Comunicazione al PE, al Consiglio Europeo, al Consiglio e alla BCE il 6 dicembre 2017. Il documento della Commissione così, testualmente, le riassume:
“entro la metà del 2018:
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adozione degli atti giuridici necessari per completare l’Unione bancaria, compreso il pacchetto sulla riduzione dei rischi del novembre 2016 per rafforzare la resilienza delle banche dell’UE. In parallelo, occorre proseguire i lavori sulle proposte relative all’Unione dei mercati dei capitali;
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accordo su un sostegno comune (backstop) per il Fondo di risoluzione unico affinché sia operativo entro il 2019;
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adozione della proposta di modifica volta a raddoppiare le attività del programma di sostegno alle riforme strutturali entro il 2020;
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adozione delle modifiche mirate del regolamento sulle disposizioni comuni per sostenere l’attuazione delle riforme nazionali;
entro la fine del 2018:
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adozione della proposta relativa al sistema europeo di assicurazione dei depositi;
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formalizzazione delle prassi di dialogo tra il Parlamento europeo e la Commissione;
entro la metà del 2019:
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adozione delle proposte relative 1) alla creazione del Fondo monetario europeo,
2) all’integrazione del trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nel diritto dell’Unione e 3) all’istituzione di una rappresentanza unificata della zona euro nel Fondo monetario internazionale;
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intesa comune sul ruolo del ministro europeo dell’Economia e delle finanze all’interno della prossima Commissione; l’Eurogruppo accetterebbe di eleggere il ministro come suo presidente per due mandati consecutivi;
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conclusione delle discussioni sulle proposte pendenti volte a migliorare il funzionamento della zona euro e ad adottare, nel contesto del prossimo quadro finanziario pluriennale: 1) proposte per il sostegno alle riforme strutturali, 2) uno strumento di convergenza specifico per gli Stati membri non appartenenti alla zona euro, 3) una funzione di stabilizzazione;
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finalizzazione di tutte le iniziative legislative pendenti relative all’Unione dei mercati dei capitali, cioè la revisione delle autorità europee di vigilanza, tutte le modifiche del regolamento relativo all’infrastruttura dei mercati europei e il prodotto pensionistico paneuropeo” (COM (2017) 821 final).
Dovrei scriverlo alla fine, ma voglio farlo subito, e provare ad argomentare nel prosieguo questa conclusione: a contrastare i progetti delle élite UE sono solo le forze di destra, che con le loro ideologie populiste propugnano un sovranismo nazionalista e xenofobo, giunto fin nei vertici dei governi come in Austria e degli Stati, come nei paesi dell’Unione di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia).
1.
Se si vuole difendere e sostenere sul mercato globale le imprese UE (uno dei grandi spazi economici del mondo), è necessaria una politica di potenza. Vale per gli USA, per la Cina, per il Giappone, per l’India, e vale per l’UE. A questo fine è stata istituita una cooperazione strutturata permanente conosciuta con l’acronimo inglese di PESCO. Il 23 novembre 2017, 23 Stati membri hanno inviato all’Alto rappresentante Federica Mogherini, e al Consiglio, una Joint Notification on Permanent Structured Cooperation nell’area della difesa e della sicurezza, resa possibile dal Trattato di Lisbona (articolo 46 TEU), allo scopo di sviluppare capacità difensive, investire in sistemi comuni d’arma e incrementare la prontezza operativa delle forze armate. Fra i 23 paesi troviamo naturalmente Germania, Francia, Italia, Austria, Belgio, Olanda, Spagna, Svezia, Polonia e gli Stati baltici. Prioritario è l’incremento degli investimenti nel campo degli armamenti da attuare con una crescita costante in termini reali del budget della difesa. Questi propositi si inquadrano nella Strategia Globale della Politica Estera e di Sicurezza, per rispondere alla situazione geopolitica sempre più minacciosa tanto da richiedere eserciti più forti per operazioni militari comuni. La differenza di questa Cooperazione Strutturata Permanente è la sua natura ‘obbligatoria’ e il carattere specifico del processo decisionale, che rimarrà sempre nelle mani degli Stati aderenti. Sottolineo che viene ribadita la piena responsabilità degli Stati nella gestione della politica estera e della difesa, svuotando però ulteriormente i parlamenti delle competenze nelle politiche di pace e guerra, perché ciò che verrà deciso a livello PESCO, date le caratteristiche obbligatorie una volta preso parte a questa cooperazione rafforzata, non potrà essere messo in discussione a livello nazionale dai parlamenti. Infatti la struttura della governance prevede:
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il livello del Consiglio, composto dai rappresentanti degli Stati aderenti, responsabile della complessiva direzione politica e, si noti, del meccanismo di valutazione sull’ottemperanza degli impegni da parte degli Stati;
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il livello dei Progetti, gestiti dagli Stati membri che vi partecipano.
L’11 dicembre 2017, quando il Consiglio ha adottato la decisione di istituire la PESCO, si sono aggiunti Irlanda e Portogallo portando il numero dei paesi a 25, e sono stati varati 17 progetti nel campo dell’assistenza medica, dell’addestramento militare, del cyber-sicurezza, della sorveglianza marittima (l’insieme dei documenti sono consultabili su www.consilium.europa.eu/eu/press/press-releases/2017/11/13/defence-cooperation-23-member-states).
Che l’UE voglia ‘prendere nelle proprie mani il proprio destino’ è scopo evidente della PESCO in quanto rafforzerà la sua autonomia strategica permettendole di agire da sola quando necessario e con gli alleati quando possibile. La PESCO è guidata dall’idea che la sovranità può essere meglio esercitata agendo insieme a livello sovranazionale, tuttavia i governi nazionali potranno continuare a impiegare le forze armate in altri contesti operativi dove agiscono la NATO e l’ONU. Il controllo delle forze armate e della politica di difesa rimane a livello nazionale, solo che ne vengono esclusi i parlamenti perché in ambito NATO e PESCO a decidere sono i governi.
2.
Ho descritto, proprio su questa rivista, la formazione dell’oligarchia UE, risultato della fusione delle forze economico-finanziarie, della tecnocrazia e dei governi, e il suo ruolo di decisore ultimo dell’insieme delle politiche che condizionano la vita quotidiana di quasi 500 milioni di persone. Essa, pur attraversando fasi di instabilità, è riuscita a portare avanti il disegno di fondo dell’UE: l’istituzione e la gestione del mercato unico europeo. Né la Brexit né, prima, la Grande Recessione hanno frenato l’oligarchia UE dal perseguire questo disegno; anzi, forte dell’insegnamento di Monnet, nelle crisi ha sempre colto l’occasione per proseguire nell’azione di unificazione dei mercati giungendo a creare il grande spazio economico europeo in competizione con le altre grandi aree capitalistiche.
Si parla con toni critici, per esempio da parte di Habermas, della forma politica dell’UE qualificata ‘executive federalism’, un federalismo esecutivo, da intendere più appropriatamente come federalismo degli esecutivi. Per cogliere la specificità di questo federalismo conviene paragonarlo al più consolidato esempio di federalismo in un grande spazio economico, quello degli USA. Ricorda Federico Fabbrini che negli USA in 35 Stati si prevede una qualche sorta di ‘equilibrio di bilancio’, tuttavia solo 14 hanno l’obbligo di assicurarlo, mentre in Europa i 25 Stati aderenti al cd Fiscal compact hanno l’obbligo di inserire nella propria normativa l’obbligo del pareggio di bilancio e la Commissione è chiamata a farlo rispettare mediante le procedure del Semestre europeo. Al pari dell’UE, il governo federale USA non può attuare politiche di bail-out in caso di default del debito dei singoli Stati, ma, se è vero che esso ha un penetrante potere nelle politiche macroeconomiche dato il rilevante budget di cui dispone, è altrettanto vero che “la sovranità fiscale che gli Stati USA godono nei confronti del governo federale contrasta con l’interferenza diretta che le istituzioni UE hanno nelle politiche di bilancio degli Stati membri”. È impossibile che il governo federale possa imporre agli Stati “l’incorporazione di specifiche regole di bilancio nelle rispettive costituzioni” e possa chiedere alle assemblee legislative di sottoporre il draft della legge di bilancio per una “preventiva approvazione di Washington”. Nell’UE, invece, questa centralizzazione delle politiche di bilancio è avvenuta in forma estrema con l’istituzione del Semestre europeo (Federico Fabbrini, Economic Governace in Europe, Oxford 2016 , pp. 51-56).
Dunque dalle parole di Federico Fabbrini, un ‘europeista convinto’, emerge una realtà istituzionale ben diversa da quella delineata dall’articolo 10 del TUE dove si afferma che il funzionamento dell’UE “si fonda sulla democrazia rappresentativa” in quanto i cittadini sono rappresentati dal PE, mentre gli Stati membri sono “rappresentati nel Consiglio europeo dai rispettivi capi di Stato o di governo e nel Consiglio dai rispettivi governi, a loro volta democraticamente responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o dinanzi ai cittadini”.
Non è vero affatto che i ‘capi di governo e di Stato’ sono responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o dinanzi ai loro cittadini. Non lo sono perché ad essi, in sede di Consiglio europeo, sono riservate le grandi scelte strategiche dell’UE senza risponderne né al PE né ai rispettivi parlamenti, e soprattutto per il fatto che il Consiglio dell’Unione europea, composto dai rappresentanti degli esecutivi nazionali, è nelle sue diverse formazioni co-legislatore per le normative UE. Che esponenti degli esecutivi nazionali partecipino al processo legislativo è una grave lesione sia del principio della divisione dei poteri sia delle competenze dei parlamenti nazionali, nonostante le procedure ascendenti, stabilite nel Trattato di Lisbona. Queste, infatti, si limitano a concedere ai parlamenti nazionali la facoltà di formulare un ‘parere motivato’ sugli atti legislativi della UE o di esercitare il controllo del rispetto del principio di sussidiarietà (si vedano il Protocollo 1, artt.3 e 4, e Protocollo 2 artt.5 e 6, annessi al Trattato di Lisbona). In Italia, per esempio, la legge 234 del 2012, all’articolo 4, dispone l’illustrazione alle Camere della posizione che il governo intende assumere in sede UE, e “ tiene conto degli eventuali indirizzi” da esse formulati; mentre al secondo comma dell’articolo 7 si precisa che nel caso in cui “il Governo non abbia potuto attenersi agli indirizzi delle Camere, il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro competente riferisce tempestivamente ai competenti organi parlamentari, fornendo le adeguate motivazioni della posizione assunta ”. Insomma, se il governo concorda con gli indirizzi delle Camere, vi si attiene, se non concorda se ne discosta senza subire alcuna conseguenza politico-istituzionale, essendo chiamato semplicemente a fornire alle Camere le spiegazioni della mancata ottemperanza.
Tuttavia il vero colpo di maglio ai parlamenti nazionali è stato inferto con le procedure del Semestre europeo che ha sottratto ad essi le decisioni di bilancio, la determinazione da parte degli organi rappresentativi delle spese e delle entrate, senza essere state attribuite al PE. Inoltre, nel campo dell’armonizzazione fiscale, che si vuole attuare proprio in questi tempi, è il Consiglio, con il vincolo del voto unanime e secondo una procedura legislativa speciale e dopo una semplice consultazione con il PE e del Comitato economico e sociale, ad adottare le disposizioni relative “alle imposte sulla cifra d’affari, alle imposte di consumo ed altre imposte indirette nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno ed evitare le distorsioni della concorrenza” (Articolo 113 TFUE).
Nel corso della Grande Recessione il potere fiscale si è concentrato nelle mani della Commissione e del Consiglio, attraverso l’armamentario del Six Pack e del Two Pack che regolamentano tempi, modi e contenuti del Semestre europeo, cioè dell’elaborazione e del varo delle leggi di bilancio degli Stati membri. A questo si accompagna il cd Fiscal Compact che, seguendo il dettato del suo ultimo articolo (il 16°), la Commissione propone di trasporre nei prossimi mesi nel corpus normativo dell’UE tramite una direttiva, elaborata sulla base di una consultazione con i governi. La direttiva, una delle proposte del pacchetto della Commissione prima richiamato, rafforza le procedure del Semestre europeo e, sancendo ancora una volta il vincolo all’obiettivo di medio termine delle politiche di bilancio, introduce due novità di rilievo. La prima: per garantire il raggiungimento del pareggio di bilancio si propone di introdurre una disciplina specifica delle spese, indicandone un tetto coerente con l’obiettivo di medio termine. La seconda novità è l’attribuzione di un potere di controllo sulle ‘autorità di bilancio’ agli organismi indipendenti costituiti proprio in base al Fiscal Compact. In Italia l’organismo indipendente è l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, il cui nome non deve trarre in inganno perché di ‘parlamentare’ ha solo la sede ‒ la Camera dei deputati.
Nella Relazione che accompagna la proposta di direttiva, la Commissione sostiene che se deve esservi un ancoraggio a medio termine del bilancio, la sua programmazione deve “comprendere un percorso della spesa a medio termine al netto delle misure discrezionali in materia di entrate e coerente con l’obiettivo a medio termine o con il percorso di avvicinamento ad esso”. Dato che i parlamenti nazionali hanno comunque ancora la titolarità del voto finale della legge di bilancio, la si usa per fissare il percorso di spesa “per l’intera durata della legislatura stabilita dall’ordinamento costituzionale nazionale, non appena si insedia un nuovo governo”, obbligando gli eventuali successivi governi a rispettarlo “per tutto il periodo interessato”.
Inoltre, le istituzione indipendenti avrebbero il compito di controllare le ‘autorità di bilancio’, perché, scrive in burocratese la Commissione, l’esperienza “dimostra che regole di bilancio dotate di meccanismi di monitoraggio indipendenti sono associate a maggiore trasparenza, migliori risultati di bilancio e riduzione dei costi di finanziamento del debito sovrano. Per questo motivo la direttiva proposta prevede di coinvolgere le istituzioni di bilancio indipendenti nel monitoraggio dell’osservanza del quadro di regole di bilancio numeriche, anche mediante la valutazione dell’adeguatezza dell’orientamento di bilancio a medio termine, nonché nel monitoraggio delle modalità di attivazione e applicazione del meccanismo di correzione. Qualora constatino deviazioni significative dall’obiettivo a medio termine o dal percorso di avvicinamento ad esso, le istituzioni di bilancio indipendenti dovrebbero invitare le autorità di bilancio nazionali ad attivare rapidamente il meccanismo di correzione e dovrebbero valutare le misure correttive previste e la loro attuazione” (COM (2017) 824 final).
Poiché le ‘autorità di bilancio’ continuano formalmente ad essere i parlamenti, con questa nuova direttiva si completerebbe l’opera di svuotamento del loro potere fiscale, che per secoli è stata la più importante delle competenze delle istituzioni rappresentative. Le politiche di bilancio sono ormai appannaggio della Commissione e del Consiglio (nella sua formazione di ECOFIN), ora si mira a rafforzare le ‘istituzioni indipendenti’ nazionali che dovranno mettere sotto controllo le residue competenze dei parlamenti ‒ discussione e voto finale su un testo ‒ , in modo che se si dovessero determinare degli ‘scostamenti’ dagli obiettivi del bilancio frutto delle intese tra governo e Commissione, le istituzioni indipendenti li possano richiamare all’ordine secondo il principio ‘esegui o giustificati’. Se aggiungiamo a tutto ciò le prerogative dei governi nel campo della politica estera e della difesa (ulteriormente rafforzate con l’istituzione della PESCO), si può ben vedere che governi e Commissione hanno instaurato a livello UE poteri sovrani riservandosene l’esercizio esclusivo.
3.
L’attivismo della Commissione gode del sostegno degli Stati più significativi, per potenza economica e politica, e delle forze imprenditoriali. In prima fila troviamo la Francia di Macron, la Germania della Merkel, e l’Italia di Gentiloni.
Per verificarlo si possono leggere in fila i discorsi di Macron alla Sorbonne il 26 settembre 2017 e nell’ultimo World Economic Forum a Davos il 25 gennaio 2018, quello della Merkel sempre a Davos (il 24 gennaio), il documento redatto al termine dei Colloqui esplorativi per la formazione del governo in Germania e il testo finale del Patto di coalizione CDU, CSU e SPD (rispettivamente del 12 gennaio e del 7 febbraio). Da essi fuoriesce un disegno, i cui capisaldi sono:
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l’UE deve divenire un ‘player nel mondo’ (Merkel a Davos);
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occorre rifondare un’UE sovrana, unita e democratica, intendendo con ‘sovranità’ la sua potenza economica e monetaria in concorrenza con la Cina e gli USA, con il fine di costruire un’economia integrata e globalizzata (Macron alla Sorbonne e a Davos);
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si deve rispondere al ‘protezionismo’ del presidente Trump riaffermando il multilateralismo e il libero commercio ‒ salvo difendere i ‘campioni europei’ e le industrie strategiche a partire da quelle a tecnologia innovativa (Merkel e Macron a Davos);
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è giunto il tempo di completare l’unione del mercato dei capitali e l’Unione bancaria, e di costruire il mercato digitale (Merkel a Davos);
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è necessario organizzare la difesa comune dei confini esterni anche con interventi in Africa (Macron alla Sorbonne e Merkel a Davos);
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serve un sistema formativo rispondente alla formazione del ‘capitale umano’ in grado di soddisfare le esigenze dell’innovazione tecnologica, specificamente dei piani Industria 4.0 (Macron alla Sorbonne);
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occorre proseguire nelle ‘riforme strutturali’, seguendo l’esempio tedesco, in particolare per quanto riguarda il mercato del lavoro (Macron a Davos);
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‘politica’ ed ‘economia’ devono dialogare per evitare la regressione verso un ‘capitalismo primitivo’ e per sostenere le classi medie in modo da favorire i ‘più’ e non i ‘pochi’‒ è la ricetta per un ‘capitalismo durevole’ (Merkel ha ripreso lo slogan di Corbin a Davos, e Macron alla Sorbonne e a Davos);
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è necessaria una ‘sorta di avanguardia’ per dar vita a un’UE a più velocità evitando che i processi di integrazione entrino in fase di stallo (Macron alla Sorbonne).
Quelle che ho elencato sono intenzioni, e potrebbero rimanere tali se non fosse che sono stati già compiuti atti da parte della Merkel e di Macron che sono, ricordiamolo, leader di governo. Mi riferisco innanzitutto ai Risultati dei Colloqui esplorativi di CDU, CSU e SPD, pubblicati il 12 gennaio 2018, in vista della formazione in Germania del governo di coalizione. Per il capitolo dedicato all’Europa il Patto di coalizione, che è stato siglato il 7 febbraio e che sarà sottoposto al voto referendario degli iscritti alla SPD, riprende il testo dei Colloqui esplorativi, affermando che per la Germania “un’Europa forte e unita è la migliore garanzia per un futuro prospero in pace, libertà e benessere”, per questo sono necessari “un rinnovamento e una nuova partenza”. Si correggono le politiche di accoglienza sottolineando che occorre combattere le cause delle migrazioni nei paesi dove originano e rafforzare i confini esterni dell’UE, ribadendo così le scelte della PESCO in relazione all’intervento nelle aree critiche per la stabilità dell’UE. In tema di competitività e investimenti si vuole preservare il ruolo della Germania quale forza trainante dell’industria europea. Si pone l’accento sulla “partnership con la Francia” per riformare la Zona-euro, e a questo fine si afferma per prima volta da parte tedesca che “saranno prese in considerazione le proposte degli Stati membri e della Commissione”, mentre finora il governo Merkel ne ha sempre avanzato di sue proprie e spesso in dissonanza con quelle dei partner. Basta menzionare il piano presentato da Schäuble nell’ottobre 2017 nella sua ultima riunione dei ministri della Zona-euro dove si proponeva di sottrarre alla Commissione il controllo dei bilanci nazionali per affidarlo a un ente autonomo quale l’ESM. Esplicitamente, ora, si afferma la volontà di prendere in considerazione l’istituzione di un Fondo Monetario Europeo al posto dell’ESM, senza intaccare le competenze della Commissione. Ricordo infine che, nel Patto di coalizione, si prospetta la necessità di rinsaldare il rapporto bilaterale con la Francia rinnovando il Trattato dell’Eliseo siglato nel 1963 da De Gaulle e Adenauer ( i due testi sono consultabili su www.csu.de).
A questi impegni sono subito seguiti fatti come la partecipazione di Schäuble, attuale presidente del Bundestag, alla seduta dell’Assemblée nationale in occasione del 55° anniversario del Trattato dell’Eliseo e la pubblicazione di una Dichiarazione franco-tedesca per rinnovarlo. Qui vi sono ripetuti gli obiettivi strategici enunciati nei discorsi alla Sorbonne da Macron e a Davos dalla Merkel, con la sottolineatura che la Francia e la Germania, per continuare ad essere ‘i pilastri fondamentali dell’integrazione europea’, devono assumere posizioni e linee politiche comuni in seno all’UE.
In tema di accordi diplomatici conviene ricordare che anche l’Italia si è attivata, e pur non mettendo in discussione il ruolo guida di Germania e Francia, ha con quest’ultima avviato i lavori per definire il cd Trattato del Quirinale al fine di realizzare una ‘cooperazione strutturata’ nei campi dello spazio, della difesa, della microelettronica e nella cantieristica dove pure si erano avute forti frizioni per il controllo della Stx da parte di Fincantieri. Anzi intorno a questo nuovo gruppo internazionale si muovono piani di sviluppo nel campo degli armamenti coinvolgendo il colosso francese Thales e l’italiana Leonardo. Da ultimo, a livello politico-militare, ricordo che l’Italia ha intrapreso a fianco della Francia la missione militare in Niger e, senza timori di pestare i piedi a Parigi, ha continuato nella sua politica di ingerenza in Libia per arginare i flussi migratori con accordi finanziari con tribù locali e con il ‘governo’ di al-Sarraj.
A muoversi non sono solo i governi, in prima linea nella gestione degli affari europei troviamo industriali e banchieri a riprova di quel che dice la cancelliera Merkel, secondo cui ‘economia’ e ‘politica’ hanno il compito di cooperare. Mai come in questa fase storica esse sono in sintonia, anzi – lo si è visto a Davos ‒ i leader politici sono chiamati a dar conto delle loro strategie ai rappresentanti dell’industria e della finanza, divenute la loro constituency politica.
Da sette anni tra la Confindustria e la BDI, la sua omologa tedesca, è in atto una stretta collaborazione per trattare questioni comuni relative sia alla catena del valore italo-tedesca, cioè al funzionamento delle reti produttive tra aziende italiane e tedesche, sia alle tematiche dell’UE. Ora a questa collaborazione transnazionale si è aggiunta quella tra la francese MEDEF e Confindustria, sancita con la Dichiarazione congiunta il 26 gennaio 2018, sottoscritta anche dalla FeBAF (associazione di banche, assicurazioni e finanza italiane). I lavori per il cd Trattato del Quirinale, che incorporerà nei campi sopra richiamati obiettivi e progetti elaborati direttamente dalle associazioni imprenditoriali, sono stati accelerati con l’incontro Macron-Gentiloni l’11 gennaio. Riguardo alle politiche dell’UE, MEDEF e Confindustria sono schierate a sostegno di quelle delineate dalla Commissione ‒ prima dettagliatamente elencate ‒ e concordano con la BCE perfino sul problema degli NPL, per i quali si ribadisce la necessità di una sua radicale soluzione anche se il costo per le banche italiane dovesse rivelarsi pesante.
Per vedere cosa c’è dietro il ‘riformismo’ e il nuovo ‘contratto mondiale’, declamati da Macron alla Sorbonne e a Davos, si può leggere cosa ne ha detto Pierre Gattaz, presidente del MEDEF, in occasione delle discussioni che hanno accompagnato la stesura della Dichiarazione del 26 gennaio. Naturalmente esprime il suo entusiasmo per il riformismo di Macron tanto da ricordare che la ‘fiducia tra gli imprenditori francesi è ai massimi’ per la semplificazione del codice del lavoro, per la riforma della fiscalità (cioè la tassazione dei capitali), per il rinnovamento della formazione professionale e dell’apprendistato. In cosa consista il ‘riformismo’ è ben presto spiegato: “[ …] abbiamo finalmente elementi di flessibilità nel mercato del lavoro […] le aziende con meno di 50 dipendenti non devono per forza ricorrere al sindacato per raggiungere un accordo salariale: potranno negoziare direttamente con i dipendenti”. Prima il tetto era a 10 dipendenti, ora si avranno molti più accordi senza azione collettiva, cosicché ogni padrone imporrà livelli salariali e forme di organizzazione del lavoro senza intralci sindacali. Si è razionalizzata la rappresentanza che prima prevedeva 4 tipi di organismi per ambiti diversi: la sicurezza, i delegati del personale, quelli sindacali e il comitato di impresa. D’ora in poi ci sarà solo un ‘consiglio sociale ed economico’ e delegati sindacali aziendali. Per i licenziamenti sono stati stabiliti due soglie: per chi ha 10 anni di anzianità una mensilità all’anno; per chi ha fino a 30 anni di anzianità, mezza mensilità per anno, fino a venti mensilità complessive. Così è più facile licenziare dati i ridotti costi economici. Per la tassazione le misure già in vigore sono l’abolizione della patrimoniale (nota con la sigla ISF), e una flat tax per i capital gain; si sta procedendo alla riduzione della spesa pubblica che, essendo al 57%, risulta per i padroni assolutamente insopportabile (si veda Il Sole 24Ore, 27 gennaio 2018, p. 2). Pierre Gattaz ha svelato l’arcano del ‘nuovo contratto sociale’, che per di più Macron vorrebbe stipulare a livello mondiale: i padroni vogliono l’austerità per lavoratori e settori popolari, e per le imprese il sostegno pubblico in termini di imposte e sovvenzioni, e la costruzione di infrastrutture materiali e immateriali per innalzare la loro competitività. Emerge dai fatti elencati da Gattaz che non esistono spazi di mediazione sociale come al tempo del cd compromesso keynesiano: i padroni vogliono tutto. E hanno la forza, purtroppo, di ottenerlo.
Ho scritto all’inizio che, disgraziatamente, a contrastare queste aggressive politiche delle élite economiche, finanziarie, politiche e tecnocratiche si sente solo la voce delle destre nazionaliste; in Europa la voce delle sinistre anticapitalistiche era alquanto debole fino alle elezioni presidenziali in Francia e al referendum sulla Brexit, ora è completamente afona. A preoccupare le élite sono le destre xenofobe e nazionaliste, soprattutto quando giungono al governo come in Austria o nei paesi dell’Unione di Visegrad. Questi si oppongono a qualsiasi politica di accoglienza dei migranti, chiedendo l’innalzamento di muri per sbarrare a loro l’accesso perché non si vuole “la creazione di comunità musulmane” in paesi che “hanno radici cristiane” (sono parole di Robert Fico, premier slovacco); respingono ulteriori forme di integrazione sovranazionale perché “un’Europa forte e integrata deve essere basata su Stati nazionali sovrani e non su una federazione sempre più centralizzata” (lo sostiene Mateusz Morawiecki, premier polacco, Il Sole 24 Ore 27 gennaio 2017, p. 5). Se, infine, ci si ricorda che Milos Zeman, ammiratore del regime di Putin, è stato rieletto presidente della Repubblica ceca, e l’Ungheria è nelle mani di Viktor Orban che sta sperimentando una ‘democrazia illiberale’ e si è trasformato da oppositore democratico del socialismo reale in un nazional-populista angosciato dalla domanda se “l’Europa rimarrà il continente degli europei”, ci si rende allora conto che il destino, e, quel che è ben più importante, la vita quotidiana dei popoli europei sono nelle mani di forze oligarchiche e/o reazionarie.
*Da Alternative per il socialismo, n. 49
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