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La radice quadrata della transizione. Riflessioni sull’Italia del 4 marzo

C’è una sola cosa peggiore dei risultati elettorali delle forze comuniste ed anticapitalistiche di quest’ultimo decennio: il dibattito sui risultati stessi. Credo che ci sia una questione preliminare di stile e di metodo. È necessario uno stile caratterizzato dall’umiltà e dalla problematicità. La sconfitta politica, sociale, organizzativa si accompagna in tutta evidenza e naturalmente ad una inadeguatezza teorica. Una inadeguatezza teorica che non attiene tanto alle categorie che ci consegna la tradizione comunista (che anzi restano, su molti versanti, di straordinaria utilità) quanto all’uso che di esse viene fatto.

Questa inadeguatezza va superata ma avendo piena coscienza del fatto che sarà compito né breve né facile. In questa condizione giudizi troppo assertivi o peggio liquidatori non fanno fare alcun passo avanti. Dobbiamo lavorare per approssimazioni, valorizzando il nucleo di verità interna che vi è in ogni punto di vista, anche il più lontano. E dircelo.

Sul piano del metodo dobbiamo recuperare le essenziali coordinate spazio-temporali. C’è un problema con il passato, anche quello più recente. La presentificazione della realtà e il culto dell’evento sono tenaci quanto disastrose eredità della globalizzazione capitalistica e del pensiero postmoderno, caratteristiche non solo del senso comune ma anche di tanti interventi nel dibattito della sinistra comunista. Non si può discutere, ricominciando sempre daccapo, rimuovendo quello che è accaduto tre o quattro anni prima o anche qualche mese fa. Va recuperato il senso del processo storico, della stratificazione e dell’accumulazione complessa di forze e fatto uno sforzo di lettura dei dati della realtà (10, 100, 1000 contributi come quello di Francesco Garofalo). E va considerato come decisivo il quadro mondiale.

L’Italia nel mondo.

Le elezioni dal 4 marzo nel nostro paese avvengono in un contesto internazionale straordinario, in spettacolare trasformazione. La crisi della globalizzazione capitalistica (crisi economica, geopolitica, di egemonia) ha investito in pieno la più grande potenza imperialista del mondo, gli Stati Uniti, scatenando una guerra civile all’interno delle élite senza esclusioni di colpi. Per motivi diversi si rafforza il ruolo della Cina e della Russia ed il loro rapporto, pur non privo di problemi, tende a consolidarsi. Il tentativo statunitense di costruire un argine ai nuovi equilibri (le cui caratteristiche sono uno dei terreni di scontro interno delle classi dirigenti USA) connette conflitti interni ed esterni in America Latina ed Africa (con in corso le decisive partite brasiliana e sudafricana) e prova costruire un nuovo assetto di potenze in Asia e nel Pacifico, centrato sul riarmo del Giappone e su una mobilitazione anticinese dell’India. La lotta in ogni area avviene per linee interne e per linee esterne, le rivoluzioni colorate, sono un’arma ormai scoperta e un po’ scarica ma non ancora dismessa, vecchi legami (ideologici e di interessi) tra le classi dirigenti periferiche e quelle statunitensi vengono riattivati nella stagione dei golpe politico-giudiziari. Nelle aree più vicine all’Italia (Europa, Medio Oriente) la situazione è ancora più complessa. Essa è segnata da alcuni elementi essenziali: la violenta politica antirussa (che acquista carattere strategico), un tentativo di rigerarchizzare il campo occidentale in maniera abbastanza brutale da parte degli USA, la crisi dell’Unione Europea e il fallimento della sua politica mediterranea, i nuovi equilibri del vicino oriente determinate dalle guerre nel “Siraq”.

Ci vorrebbe un lungo lavoro di analisi su come ciascuno di questi elementi abbia avuto riflessi politici contradditori e importanti sull’economia, sulla politica estera, sul posizionamento delle classi dirigenti (intese nel senso più ampio del termine dal ceto politico, ai manager, agli intellettuali) e (indirettamente ma pesantemente) sul senso comune del paese. In assenza di questo lavoro (che servirebbe a non fare chiacchiere ma politica su temi come immigrazione, politiche economiche, assetti istituzionali) possiamo almeno dire che solo facendo riferimento a questo contesto si può spiegare il carattere principale della situazione italiana: la transitorietà.

Siamo in presenza di una transizione al quadrato, una transizione che si innesta in un’altra transizione (quella post 89) ancora non approdata ad esiti consolidati. Una transizione in cui contesto internazionale, caratteristiche strutturali e peculiari della società italiana, culture politiche stratificate entrano in cortocircuito. Facciamo un solo esempio ma decisivo: il ruolo dello Stato. Non c’è dubbio che la fase di crisi della globalizzazione richiede (per qualunque progetto politico!) un nuovo ruolo dello Stato, ma questa esigenza entra in cortocircuito tanto con caratteristiche storico-strutturali del paese (l’estrema eterogeneità, a partire dalla faglia nord-sud) quanto con le culture politiche prevalenti (la scelta europeista che storicamente ha segnato le classi dirigenti diffuse, la vulgata liberista). Queste contraddizioni producono risposte variegate ed instabili.

L’Italia di fronte a sé stessa

Torna l’esigenza di fare il punto sull’Italia (tradizione gloriosa quanto dimenticata del comunismo del nostro paese).

Quali sono le tendenze fondamentali si determinano nella struttura materiale del nostro paese? Chi sono le classi dirigenti del nostro paese? Come si compongono le classi subalterne?

Domande (decisive) al momento senza una (decisiva) risposta.

Si possono solo mettere sul piatto alcuni dati, certi ma insufficienti a comporre un quadro organico: il peso ristrutturante della crisi, tanto sul piano qualitativo quanto sul piano quantitativo, su un apparato produttivo ancora, però, di dimensioni ragguardevoli; l’impoverimento del patrimonio di saperi e tecnologia e il declino nel quadro della divisione internazionale del lavoro, conseguenze di lunga durata delle privatizzazioni, dell’avanzata del capitale straniero, della fine, concettuale oltre che pratica, di ogni politica industriale nazionale; l’aumento delle divaricazioni territoriali; l’emergere di criticità profonde su piani diversi quanto decisivi (ambientale, infrastrutturale, formativo, demografico).

Il capitale industriale nelle sue varie componenti (gli eredi del “vecchio” capitalismo italiano, le forze emerse dai distretti industriali degli anni ’80, le forme proprietarie che hanno soppiantato alcune imprese pubbliche) tende, tanto sul piano produttivo quanto su quello finanziario, ad allentare i legami nazionali; emergono gruppi spregiudicati (qualche volta anche “pregiudicati”) portatori di una logica speculativa del mordi e fuggi che impedisce di per sé di consolidare nuove egemonie. Una vasta platea di piccole e piccolissime imprese torna invece a sentire bisogno di protezione statale. La questione fiscale rimane il fronte rivendicativo unificante dei diversi settori padronali.

La redistribuzione verso l’alto della ricchezza, la precarizzazione del lavoro e lo smantellamento dello stato sociale hanno profondamente modificato il quadro materiale e la percezione di sé delle (ex) classi medie e delle classi lavoratrici, in un contesto generale di arretramento (di lungo periodo) di diritti e condizioni di lavoro e di vita.

La scena sociale è caratterizzata da una generale evaporazione delle camere di compensazione, degli spazi di mediazione, del ruolo dei corpi intermedi e delle sedi istituzionali.

Questo grande disagio avviene dentro una fase di assenza, inedita per la sua lunghezza e profondità, di conflitto sociale. Certo non mancano le resistenze e le lotte (anche importanti, dai call center alla logistica) ma esse non riescono mai a conquistare un livello apprezzabile di connessione e visibilità, e nemmeno ad alludere ad una loro unificazione. Significativamente, inoltre, sono le lotte territoriali e non quelle nel mondo del lavoro ad essere maggiormente visibili. Il grande movimento contro la “buonascuola” della primavera del 2015 è stata forse l’ultima occasione di riavviare una mobilitazione generale e nazionale ma anch’essa è stata persa. Emerge in tutta la sua forza il problema del sindacato in Italia, delle sue linee politiche, della sua costruzione materiale, della sua cultura politica di fondo.

In generale il combinato disposto di un disagio sociale, fortissimo e molecolare e di una assenza di conflitto (e quindi di discussione e di partecipazione) è l’elemento di fondo che determina, pericolosamente, il clima del paese e costruisce la base del suo quadro politico.

Scenari politici in Italia.

L’avventura renziana (come definirla altrimenti?) è stato un tentativo di trovare una forma politica possibile a questa Italia, una volta esaurita l’altra avventura berlusconiana (con cui si stabiliva più di un filo di continuità) e dopo la sanzione definitiva che il prodismo (anche senza Prodi, come nella versione bersaniana del 2013 e nella triste evocazione di LeU) è una forma di utopia borghese, una specie di sogno europeo di settori minoritari di classi dirigenti, efficace solo nel rendere definitiva la subalternità della parte maggioritaria della ex sinistra. Il renzismo è stato un tentativo serio (sia pure povero ed eclettico nella cultura politica) di chiudere la transizione italiana all’insegna dell’americanizzazione della politica, di una riduzione degli spazi di democrazia e di un nuovo equilibrio tra poteri forti (italiani e stranieri) e settori emergenti di capitalismo speculativo. Il tutto in un quadro di forte allineamento con gli USA e con una presenza inquietante di interessi israeliani.

Al di là dei numerosi errori tattici (che in una fase di incertezza sono più facili e più condizionanti) Renzi si schianta perché il compito di riunificare le classi dirigenti è troppo complesso in una situazione di scontro mondiale, perché sbaglia gli interlocutori d’oltreoceano, perché sottovaluta la difficoltà di ricostruire una egemonia su una società italiana così segnata dalla crisi. Renzi alla fine funziona da catalizzatore ma al contrario, sommando tutte le opposizioni…

Le elezioni del 4 marzo non potevano che ratificare questa sconfitta.

Più complesso capire l’articolazione del campo dei vincitori. Il Centrodestra è sfigurato: il perno berlusconiano è indebolito elettoralmente ed alle prese con un difficilissima fase di transizione (quella del Partito-azienda aspetto di quella dell’azienda vera e propria!); Salvini registra successi notevoli (vince il confronto interno con Forza Italia, mobilita meglio della Meloni istinti razzisti e persino settori neofascisti, si estende al Centro-Sud) ma anche notevoli sono le contraddizioni nella piattaforma, nelle base sociale, contraddizioni che possono lacerare il gruppo dirigente e il corpo della Lega. Il punto di forza (sottovalutato) del centrodestra è l’insediamento nelle aree più avanzate e nelle classi dirigenti diffuse. Questo insediamento può costituire la base di una egemonia nazionale e di una mediazione con l’Europa (considerando che parti consistenti degli apparati produttivi lombardi e veneti sono ben dentro le filiere tedesche). È possibile, che con le dovute garanzie a Germania (e Usa) si consenta all’Italia di aggiungersi all’Europa di Visegrad? È possibile trasformare l’Italia in una Polonia mediterranea (che tra l’altro svolga lo stesso ruolo antirusso che il regime clerico-fascista polacco svolge nel Baltico)? Sono interrogativi aperti.

È banale ma necessario dire che sul Movimento 5 stelle abbiamo un grave deficit di analisi e di conoscenza. Bisogna mettersi a studiare. Studiare innanzitutto la connessione profonda che esso ha stabilito con settori vastissimi della società, assai eterogenei per interessi e culture.

Il movimento di Grillo raccoglie con tutta evidenza, i frutti della devastazione sociale di quasi quattro decenni di rivoluzione conservatrice nel nostro paese (sceglierei come data iniziale la sconfitta alla FIAT) e ne diventa interprete privilegiato in quella situazione di assenza di conflitto cui prima accennavamo.   Questa affermazione va colta in tutta la sua complessità: il movimento 5 stelle raccoglie la protesta contro gli effetti materiali della rivoluzione conservatrice (impoverimento netto ed impotenza politica di grandi parti della società italiana, precarizzazione, egemonia di gruppi speculativi e di circoli affaristici a più livelli ecc.) ma lo fa declinandolo nel quadro concettuale e nell’alfabeto di quella medesima rivoluzione conservatrice. Questo significa, in particolare, declinare la protesta all’unico livello di espressione possibile: l’atomizzazione individualista e spoliticizzata. Siamo dentro un meccanismo molto particolare di veicolazione di domande popolari (anche proletarie, anche operaie) attraverso una versione radicalizzata della cittadinanza liberale, radicalizzata in quanto completamente disincarnata dalla condizione sociale e di classe. Una condizione che ha come quadro (presupposto e conseguenza) un disagio sociale che non trova espressione politica, che produce lotte frammentate e prive di un qualunque orizzonte di unificazione. In questo quadro l’unificazione politica possibile avviene solo nel cielo (ideologico) della politica (liberale) dell’“uno vale uno”, della “repubblica dei cittadini”. Interessante sarebbe approfondire anche la forma organizzativa che assume il movimento. Due mi sembrano gli elementi essenziali: uno sempre citato ma non sufficientemente indagato (la rete), l’altro completamente trascurato (il ruolo degli eletti). La rete per funzionare, per organizzare “individualità alla tastiera” necessita di un riferimento gerarchicamente sovraordinato, (oltreché di una ideologia che si fa senso comune), la discussione su Grillo e sulla Casaleggio andrebbe depurata da un po’ di complottismo e rafforzata da uno studio sistematico e “sistemico”. Il consenso nato sulla rete (canale fondamentale ma non esclusivo del massaggio dei 5 stelle) ha però bisogno di una sua fisicità che gli assomigli. Una fisicità media e leggera, ma decisiva. Questa fisicità sono gli eletti, a tutti i livelli. Poco mi sembra si rifletta come il partito “antipolitico” sia un partito essenzialmente di eletti. Attraverso gli eletti passa non solo la “rappresentazione” delle scelte ma larga parte dell’organizzazione concreta, le scelte territoriali ecc. Come si evolverà questo aspetto nella nuova fase politica, a quali tendenze interne darà vita? Sono questioni decisive della nuova fase (ed anche un possibile elemento di crisi). C’è comunque un dato che vorrei infine sottolineare, la parte grande d’Italia (ed in particolare i settori popolari) che elettoralmente (ma anche ideologicamente) è occupata dal movimento 5 stelle non è “parcheggiata”, pronta ad essere riconquistata da una sinistra “rinnovata”. Quell’occupazione è frutto di processi profondi e gigantesco dovrà essere il lavoro per cambiare scenario.

Potere al popolo.

Di fronte ai problemi di queste dimensioni è chiaro che il ragionamento sulle scelte della sinistra comunista italiana appare poca e difficile cosa. Eppure abbiamo il dovere di farlo e, persino, di provare a farlo in un’ottica non residuale o testimoniale.

Io trovo non solo ingenerosi ma privi di fondamento alcuni ragionamenti che si fanno sul risultato di Potere al Popolo. In particolare l’accostamento alle esperienze compiute dalle maggiori forze comuniste (PRC e PdCI) nelle precedenti elezioni politiche del 2008 e del 2013, Arcobaleno e Rivoluzione Civile, sono chiaramente sbagliate. L’Arcobaleno raggruppava forze che disponevano di potenti gruppi parlamentari, di strutture e di risorse e Rivoluzione civile vedeva tra le sue fila un partito (difficilmente definibile di sinistra) come Italia dei Valori, anch’esso presente in parlamento e dotato di risorse, ampiamente impiegate in campagna elettorale. Se si tengono presenti queste elementari considerazioni un confronto va tutto a vantaggio del (piccolo) risultato di Potere al Popolo. Ma soprattutto va a vantaggio di Potere al Popolo l’analisi del profilo politico e programmatico che, sia pure lontano dalla perfezione, è assai più dignitoso di quelle esperienze. E, aggiungerei, assai migliore di quello della “lista Tsipras”.

Più seria mi sembra la critica di eterogeneità e limiti nelle culture politiche che hanno dato vita all’esperienza di Potere al Popolo, e che in essa sembrano prevalere. Ma questa più che una critica a Potere al Popolo è una critica (giusta e necessaria) al panorama della sinistra di classe nel nostro paese e, volendo esser sinceri, è ancor di più un’autocritica dei comunisti, sulla nostra azione e sulla nostra efficacia. Noto solo che si scelgono (positivamente) due parole Potere e Popolo aspramente vilipese dalla vulgata negriana come d’altra parte, certo, alcune motivazioni del rifiuto della proposta del PCI di inserire falce e martello nel simbolo hanno un indubbio sapore di nuovismo subalterno.

Il punto però vero da discutere mi sembra un altro ed è un punto politico decisivo di fase. È necessario un campo di forze dentro il quale si sviluppi l’iniziativa dei comunisti? E se sì qual è il perimetro che esso deve avere? E come deve essere organizzato questo campo?

Nella pratica politica delle maggior parte delle forze comuniste del mondo questo nodo mi sembra oggi risolto, tanto dove esse sono le forze maggiori di aggregazioni più ampie (Portogallo, India) quanto dove da posizioni di minoranza portano contributi importanti a fronti politico-sociali variegati (Brasile ed altre esperienze latinoamericane) ed anche in situazioni intermedie più complesse (Sudafrica, Spagna).

La costruzione di un campo di forze alternative, diverse per cultura politica e forma organizzata, ma unificate da una piattaforma e capaci di costruire mobilitazione non episodica è una necessità, che attiene non solo ad un minimo di efficacia nell’azione politica quotidiana ma anche alle stesse modalità della ricostruzione di una significativa presenza comunista.

Non possiamo prescindere dalla situazione che ci consegna la fase mondiale post ’89 e la nostra specifica storia nazionale che ha visto prima la crisi e la liquidazione del più grande Partito Comunista d’occidente e poi, nell’ultimo decennio, la marginalizzazione assoluta delle forze che, in qualche modo, a quella liquidazione avevano provato a resistere.

Non si può immaginare una ricostruzione separata e attendista di una forza comunista, che al contrario può rinascere solo nel vivo di un impegno politico quotidiano nel confronto dialettico con ogni soggettività critica. Solo in questo confronto, solo in questo lavoro politico, culturale e organizzativo possiamo provare a trovare le forze che siano in grado di farsi carico della ricostruzione comunista.

In quest’ottica io credo che l’esperienza di Potere al Popolo possa essere un quadro di riferimento importante. Per tre ragioni fondamentali:

1)   Essa nasce libera da una serie di ipoteche di collocazione politica che avevano estenuato le forze a sinistra del PD (e più o meno direttamente anche le maggiori forze comuniste). La scelta di piantare una bandiera sulle macerie del Brancaccio segna oltre che una tempestività tattica (qualità non disprezzabile) la volontà di segnare un discrimine necessario.

2)   Vi è, al di la di alcuni problemi di linguaggio, una scelta di classe e di centralità della dimensione sociale rispetto a quella civile che è un requisito fondamentale.

3)   Emerge una componente giovanile, non giovanilistica, che ha di sé una immagine militante. È questo un elemento nuovo e necessario.

L’invito a valutare le potenzialità dell’esperienza di Potere al Popolo non significa certo avere un atteggiamento acritico. I comunisti debbono assumere questo processo come una possibilità di iniziativa politica, come il terreno (in questo momento oggettivamente il terreno principale) di una loro azione unitaria ma anche come terreno di aperto confronto politico.

I nodi da sciogliere sono numerosi e complessi, ne cito solo alcuni:

1)   Va costruita una scelta prioritaria (nella pratica politica e non solo nelle enunciazioni) di impegno contro la guerra. Questa scelta porta con sé una discussione non facile di analisi (concreta) della scena internazionale e apre, inevitabilmente, contraddizioni con idee che si sono sedimentate in larghe parti della sinistra (spesso anche per grave deficit di conoscenze).

2)   È particolarmente urgente definire una posizione chiara e mobilitante (ancora lontana) sull’Unione Europea. Una posizione che rappresenta un elemento essenziale della fase politica, anche in vista delle elezioni del Parlamento Europeo.

3)   L’identità di classe va declinata in un ragionamento più articolato sulle forme di organizzazione ed intervento. In particolare evitando semplificazioni sul Sindacato e avviando esperienze di unificazione politica delle lotte.

4)   È necessario costruire un’analisi e una proposta politica sulla fase successiva al 4 marzo, superando un atteggiamento propagandistico.

5)   Va esplicitamente sconfitta ogni tentazione di trasformare Potere al Popolo in un partito. Va invece riconosciuta l’autonomia politica ed organizzativa delle diverse forze e costruita con pazienza e responsabilità una capacità d’iniziativa e di approfondimento comune, valorizzando le diverse pratiche e puntando a mediazioni alte sulle questioni politiche decisive.

Tutto il ragionamento fin qui sviluppato pone seri problemi di riflessione autocritica e di prospettiva rispetto all’esperienza che abbiamo condotto negli ultimi anni, nel tentativo di ricostruire una forza comunista. Di questo dovremo parlare nei prossimi mesi.

*segreteria nazionale del Pci

da Marx21.it

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