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La relazione europeismo-corporativismo nei sindacati

Da circa dieci anni l’austerity europea, combinata con la più grave crisi economica dal 1929, sta devastando la società europea. I danni più gravi sono stati sopportati dal lavoro salariato che ha registrato importanti balzi all’indietro a tutti i livelli. Eppure, le mobilitazioni più importanti contro l’austerity europea sono venute soprattutto da movimenti extrasindacali sorti fuori dai luoghi di lavoro, come gli indignados e i gilet gialli, invece che dalle organizzazioni tradizionali dei lavoratori.

Non sono mancate le eccezioni, come in Francia, dove negli ultimi anni si sono avute alcune forti mobilitazioni sindacali, anche recentemente, come nel caso dei ferrovieri. Invece, le mobilitazioni contro l’austerity e le controriforme del mercato del lavoro, delle pensioni, ecc. sono state particolarmente deboli nel nostro Paese, dove persino i provvedimenti del governo Monti, di gran lunga il peggiore almeno dell’ultimo decennio, sono passati senza alcuna opposizione da parte dei sindacati principali.

Le ragioni della particolare debolezza della riposta sindacale in Italia sono molteplici, e vanno dalle massicce delocalizzazioni alla estrema frammentazione contrattuale del lavoro salariato. Ma, almeno in parte, sono da ascriversi alle scelte politiche del sindacato stesso, in particolare al connubio di concertazione, neocorporativismo e filo-europeismo, che ha caratterizzato i tre principali sindacati italiani, compreso il maggiore, cioè la Cgil.

Un appello e una lettura dell’Europa sbagliati

Il recente Appello per l’Europa, firmato congiuntamente da Confindustria e sindacati (Cgil, Cisl e Uil), è la dimostrazione emblematica di questa situazione. L’organizzazione che rappresenta i maggiori beneficiari delle controriforme europee, le grandi imprese internazionalizzate, e le organizzazioni che dovrebbero rappresentare i più penalizzati, i lavoratori salariati dell’industria, firmano insieme un manifesto che riproduce quelle illusioni sull’Europa nelle quali forse si poteva cadere qualche anno fa, ma che ora non ha più senso ripetere. L’Europa è, secondo gli estensori del manifesto, terreno di benessere, pace e democrazia e come tale va difeso.

Il processo di integrazione europeo continuerebbe a favorire “la coesione tra i Paesi” e a garantire “benefici tangibili e significativi”. Eppure, è sotto gli occhi di tutti che i vincoli europei hanno impedito di contrastare la crisi, che i meccanismi dell’euro hanno portato non alla convergenza ma alla divergenza delle economie europee e che l’Europa occidentale è, tra le aree più industrializzate, quella in maggiore difficoltà. Lascia, inoltre, perplessi l’attribuzione di “garanzia di pace” all’integrazione europea, che, invece, sta alimentando nazionalismi, competizione e proxy war tra Stati europei per la conquista di sbocchi economici e materie prime, come accade in Libia tra Italia e Francia. Senza contare che le guerre nei Balcani negli anni Novanta e oggi in Ucraina sono state fomentate anche dalla Ue e dai suoi Stati principali, come la Germania.

Non parliamo poi della democrazia. Questa è la vittima principale della Ue e dell’euro, che determinano il prevalere degli esecutivi e di organismi “tecnici” non eletti, come le Bce e la Commissione europea. In questo modo, i Parlamenti nazionali vengono espropriati della capacità di controllare le scelte di politica economica e sociale, vanificando la sovranità popolare e democratica sancita dalle Costituzioni nazionali.

Infine, di particolare debolezza e astrazione dalla realtà sono le proposte del manifesto. Si propongono alcune misure – investimenti europei finanziati da eurobond, l’esclusione dei cofinanziamenti nazionali dal Fiscal compact, l’aumento degli investimenti pubblici – la cui realizzazione è resa impossibile dai Trattati e dai meccanismi dell’euro oppure che sono già state rifiutate da molti Paesi della Ue, tra cui la Germania, perché non c’è alcuna disponibilità ad accollarsi a livello europeo il debito pubblico di singoli Paesi in difficoltà.

Altrettanto illusoria è la proposta di rafforzare la politica estera europea che, fino ad ora inesistente, è stata definitivamente affossata dal recente Trattato di Aquisgrana, che dimostra l’aspirazione dell’asse franco-tedesco a svolgere un ruolo egemonico nelle istituzioni europee e ad agire autonomamente al di fuori dell’Europa. Tuttavia, definire quest’appello un errore sarebbe sbagliato, perché esso è la logica conseguenza di un percorso ormai piuttosto lungo dei maggiori sindacati italiani, che ha visto il saldarsi di nuove forme di corporativismo – il principio della concertazione ad esempio – con l’accettazione dei vincoli esterni europei.

Le origini del “male”, l’accettazione della politica dei sacrifici e il vincolo esterno

L’origine di questo connubio è da far risalire alla metà degli anni ’70. Era quello il periodo del “compromesso storico” del Pci1, che nel 1976 organizzò, attraverso il Cespe (il centro studi di politica economica del Pci), un convegno sul tema della crisi, del costo del lavoro e dei condizionamenti internazionali dell’Italia2. Nel convegno fu presentata la posizione di Modigliani, che proponeva la cancellazione della scala mobile e la moderazione dei salari, alla cui crescita, a seguito della imponente stagione di lotte tra ’69 e primi ’70, era imputata l’alta inflazione.

La tesi di Modigliani è la stessa che abbiamo sentito negli ultimi decenni: flessibilità (ovvero moderazione salariale per gli occupati) in cambio di nuova occupazione. È quella che sarà chiamata “politica dei sacrifici”, grazie alla quale ottenere la piena occupazione, il riequilibrio dei conti con l’estero e la riduzione dell’inflazione, che era ritenuta il principale problema dei lavoratori dal sindacato e dal Pci. Per Modigliani il vincolo esterno, cioè il mercato mondiale, doveva fungere da regolatore dei salari, attraverso la liberalizzazione degli scambi internazionali. Questa posizione fu osteggiata da altri economisti, tra i quali Caffè, che, invece, riteneva che la difesa degli interessi dei lavoratori passasse attraverso un maggiore controllo statale sulle importazioni e sui movimenti di capitale collegato alle politiche di investimento pubblico e alla pianificazione.

I massimi esponenti della Cgil dell’epoca si espressero a favore di Modigliani e contro le posizioni di Caffè. Luciano Lama, segretario generale della Cgil, bollò le proposte di Caffè come protezioniste, e, in quanto tali, generatrici “di una rapida uscita dell’Italia non solo dal serpente monetario europeo3 ma anche dal novero dei paesi industrializzati”, mentre Trentin, responsabile della Fiom, accettò di moderare le rivendicazioni dei salariati in cambio della “possibilità offerta alla classe operaia di partecipare alla gestione dei suoi sacrifici.”

Il Pci e con esso la Cgil finì per sposare le tesi di Modigliani secondo cui, dato che il vincolo esterno era ritenuto inamovibile, l’Italia non avrebbe potuto affrontare la crisi se non tagliando occupazione e salari. Nella relazione di Eugenio Peggio, responsabile del Cespe e deputato del Pci, si accetta la necessità di allineare il costo del lavoro ai paesi concorrenti, come condizione per continuare a stare in una economia aperta senza dover introdurre elementi protezionistici. Dunque, è sulla base di queste considerazioni che il Pci appoggiò le politiche di compressione salariale e deflazionistiche varate dal governo Andreotti nel 1976.

Nonostante la buona fede del segretario del Pci, appare evidente che la “teoria dell’austerità”, presentata da parte di Berlinguer come lotta al consumismo, costituì la giustificazione sul piano ideologico delle misure di compressione salariale. Il cedimento del Pci fu veramente grave perché aprì il fianco alla strategia del capitale – esemplarmente sostenuta da Giudo Carli4 – in base alla quale le difficoltà dei conti con l’estero e dell’inflazione venivano usate come pretesto per attaccare il movimento operaio nel suo momento di maggiore forza. Queste posizioni portarono alla cosiddetta svolta dell’Eur (1978) in cui il sindacato accettava di perseguire la moderazione salariale. La filosofia dietro la svolta è illustrata con chiarezza da Lama in una intervista, rilasciata il 24 gennaio 1978 a Eugenio Scalfari su la Repubblica:

“…la politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta, i miglioramenti che si potranno chiedere dovranno essere scaglionati nell’arco dei tre anni di durata dei contratti collettivi, l’intero meccanismo della Cassa integrazione dovrà essere rivisto da cima a fondo. Noi non possiamo più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la Cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. Nel nostro documento si stabilisce che la Cassa assista i lavoratori per un anno e non oltre, salvo casi eccezionalissimi che debbono essere decisi di volta in volta dalle commissioni regionali di collocamento (delle quali fanno parte, oltre al sindacato, anche i datori di lavoro, le regioni, i comuni capoluogo). Insomma: mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza.”

Nonostante gli auspici dei leader sindacali, la classe lavoratrice finì per essere colpita su due fronti, oltre che su quello dell’inflazione anche su quello della disoccupazione. Intanto, le singole confederazioni della Cgil cercavano in tutti i modi di ottenere miglioramenti salariali, dimostrando a governo e Confindustria che la Cgil e il Pci non avevano il pieno controllo della spontaneità operaia. Del resto, il Pci e la Cgil finirono per scavare un solco tra loro e diversi settori popolari, specialmente giovanili, che alimentarono il movimento del ’77 e sfociarono nella contestazione di Lama all’Università di Roma. Inoltre, il Pci, a causa della sua politica di cedimento verso l’austerity, registrò un calo di voti alle elezioni del 1979. Ovviamente non possiamo confondere il Pci, neanche quello del compromesso storico, con i partiti che nasceranno dalla sua dissoluzione, Pds, Ds e Pd, né Berlinguer è paragonabile con D’Alema o con Bersani, tantomeno con Zingaretti.

Ma sarebbe anche storicamente e politicamente onesto riconoscere che la fine del Pci nonché l’evoluzione dei suoi succedanei e del sindacato dai primi anni ’90 ad oggi non cadono direttamente dal cielo ma hanno cause storiche precise. Tanto che si rimane impressionati da come i temi al centro del dibattito politico siano, dagli anni ’70 ad oggi, più o meno sempre gli stessi: lo scambio tra diritti (flessibilità e salario) e occupazione/crescita (perennemente tradito), il vincolo esterno e la paura dell’inflazione come nemico principale da battere, resi sempre più stringenti attraverso i vari trattati (da Maastricht in poi fino al Fiscal compact) e dall’introduzione prima dello Sme e poi dell’euro.

Dopo la parentesi degli anni ‘80, caratterizzata da un relativo indebolimento delle lotte, lo stesso atteggiamento che nel 1976-1977 troviamo nel sindacato, e in particolare nella Cgil, lo ritroviamo anche negli anni ’90, ma evoluto in peggio. Infatti, il Pci si è ormai sciolto, dividendosi in due tronconi, e, quindi, non c’è più una sponda politica che possa, sebbene in modo limitato, offrire un argine allo smottamento a destra delle posizioni del sindacato. Anzi, il 1992 è l’anno del Trattato di Maastricht, che viene votato anche dal partito più grande che proviene dall’esperienza del Pci, il Pds, mentre l’erede più piccolo, Rifondazione comunista, è il solo partito (o quasi) a votare contro il trattato che inciderà in modo pesante sui rapporti tra capitale e lavoro a favore del primo.

Proprio la debolezza politica dei partiti, usciti ridimensionati, quando non completamente distrutti, da “Mani pulite”, accentua la tendenza del sindacato, cioè di Cisl, Uil e soprattutto Cgil, a svolgere una funzione di supplenza politica, che si estrinseca nella cosiddetta concertazione. Il sindacato è la controparte diretta, insieme alla Confindustria, del governo nella definizione di accordi generali su aspetti importanti di politica economica e sociale, stabilendo così una forma di neocorporativismo.

È una novità in Italia, dal momento che la triangolazione Stato-imprese-sindacati era storicamente appannaggio di Paesi del Centro e del Nord Europa come la Germania e la Svezia. Con la giustificazione delle difficoltà italiane ad allinearsi ai criteri di Maastricht, accentuate dalle crisi economiche e dalla crescita del debito tra i primi anni ’80 e i primi anni ’90, il sindacato, a partire dalla Cgil, cede pezzi sempre più importanti delle precedenti conquiste dei lavoratori. Fra l’altro, mentre il sistema dei partiti è indebolito, al governo vanno i cosiddetti “tecnici”, che non devono rispondere all’elettorato e pertanto sono i più adatti a implementare politiche restrittive, anticipando quanto sarà svolto, grazie all’euro, nel periodo della crisi del debito dopo il 2011, in specie durante il governo di un altro tecnico, Mario Monti.

A quella fase possono essere fatti risalire gli accordi tra governo e sindacato del 1992-1995. In primo luogo, quello del luglio 1992 (accordo Amato), che stabilisce “di riconvergere verso i parametri dell’accordo di Maastricht” e la necessità “di recuperare piena credibilità internazionale” (temi che saranno il leitmotif degli ultimi vent’anni fino a diventare il nocciolo del dibattitto politico dopo la crisi del debito sovrano), impegnando le parti sociali, e in particolare i sindacati, a comportamenti coerenti per uscire dalla crisi, come risulta chiaramente dal passaggio seguente.

Il Governo ritiene che, per conseguire apprezzabili risultati nell’abbattimento dell’inflazione, rafforzare la competitività dei nostri prodotti sui mercati internazionali e garantire la stabilità del cambio, occorra rendere coerente la dinamica delle retribuzioni unitarie e del costo del lavoro con l’inflazione programmata.”5

Si tratta di una scelta che avvantaggia le imprese, perché, essendo l’inflazione programmata inferiore a quella reale, ciò significa una riduzione dei salari reali a fronte di prezzi e quindi di profitti più alti. All’accordo Amato seguono quello del luglio 1993 (accordo Ciampi), che stabilisce formalmente la concertazione e quello del 1995 (accordo Dini), sulla riforma del sistema pensionistico, che introduce il sistema contributivo al posto di quello retributivo e la previdenza complementare. Ovviamente, tutti questi accordi sono inseriti nel solco dei provvedimenti indirizzati a stare all’interno del processo di convergenza definito dai trattati europei e finalizzato all’entrata nell’euro.

L’ultimo periodo della CGIL, la crisi dei corpi intermedi e la necessità della politica nel sindacato

Tra gli anni ’90 e il primo decennio del nuovo secolo, Uil, Cisl e Cgil in particolare continuano a svolgere un ruolo di supplenza nei confronti della politica. Ciò accade soprattutto durante la segreteria di Cofferati, che diventa una delle personalità più di spicco del Paese, tanto da far sperare che la sinistra possa ricostruirsi attorno alla sua figura. In realtà, terminato il suo mandato alla segreteria Cgil, Cofferati finirà per passare in secondo piano, dopo un deludente periodo ai vertici del comune di Bologna. Il sindacato non è riuscito a rinnovare la politica italiana, malgrado abbia fornito numerosi dirigenti ai partiti.

L’opera del sindacato è caratterizzata dal completamento della sua trasformazione da organizzazione di lotta a soggetto della concertazione e a gestore di servizi, anche attraverso gli enti bilaterali. Questi rappresentano, insieme alla concertazione, un pilastro del neocorporativismo sindacale, essendo un importante momento di collaborazione con le associazioni imprenditoriali per la gestione di fondi e l’erogazione di pezzi di welfare e di attività di formazione. Sul piano politico, la Cgil in particolare ha svolto un ruolo, in alcuni casi determinante, di contrasto ai governi Berlusconi.

Viceversa, l’atteggiamento nei confronti dei governi Prodi è stato di appoggio attraverso il legame che la Cgil ha mantenuto con il Pds-Ds e in misura inferiore con il Pd grazie anche al passaggio di una serie di dirigenti e funzionari dal sindacato al partito. Il sindacato in questo periodo ha cercato di difendere il suo ruolo nella concertazione, fino ad arrivare a rimettere in discussione alcune decisioni, paradossalmente più avanzate (sulla previdenza), del governo Prodi II.

La crisi del 2007-2009 e la successiva crisi del debito sovrano nel 2011 sconvolgono, insieme all’assetto sociale, anche il ruolo dei sindacati nella definizione delle politiche sociali e economiche, che è reso sempre più marginale. Infatti, la politica economica e sociale è sempre più stretta nei vincoli europei e qualunque deviazione viene rintuzzata dalla Bce e dalla Commissione europea. Anche il sindacato subisce per certi versi la tendenza all’indebolimento che investe tutti i corpi intermedi.

Ne è dimostrazione l’inazione di fronte ai provvedimenti dei governi di questi anni, a partire dalla riforma Fornero durante il governo Monti, che passa quasi senza colpo ferire da parte di Cgil, Cisl e Uil, e la cui contestazione è egemonizzata più di recente dal M5s e dalla Lega. Tuttavia, mentre i nuovi partiti riescono a sopravvivere sulla base del riflesso mediatico e come espressione degli interessi economici dominanti, pur mutando il loro carattere da quello di partito di massa e radicato sul territorio a quello di partito basato sulla comunicazione e sulla leadership carismatica, il sindacato rimane ancorato alla sua base sociale e territoriale anche grazie al servizio, che, sebbene in modo corporativo, svolge dentro e fuori i posti di lavoro.

Il punto più basso del coinvolgimento del sindacato nella definizione delle politiche pubbliche e, di conseguenza, nel suo rapporto con il centro sinistra e il Pd avviene durante la segreteria Renzi. Questi, infatti, teorizza la “disintermediazione”, cioè l’eliminazione dei corpi intermedi, che viene sancita nella sua proposta di riforma costituzionale. La sconfitta di Renzi al referendum costituzionale dimostra, però, che il sistema non sopporta mutamenti così bruschi, che, dal punto di vista del capitale, non sono neanche così necessari, vista la funzione neutralizzante della sovranità democratica da parte dei vincoli esterni rappresentati dai trattati europei e dall’euro. Al contrario, il sindacato può trovare una collocazione nella sua forma corporativa nell’attuale assetto istituzionale basato sulla combinazione tra Stato nazionale e organismi sovrannazionali.

L’elezione di Landini a segretario della Cgil appare come un tentativo di rilancio del ruolo del sindacato, appannatosi dopo le vicende degli ultimi anni. Fra l’altro l’elezione di Landini è avvenuta quasi in concomitanza con quella di Zingaretti a segretario del Pd, e può rappresentare il ritorno a una qualche forma di collaborazione tra Pd e Cgil. Del resto, il carisma della figura di Landini può poco per mutare l’indirizzo del sindacato, se non si prendono di petto i nodi dirimenti centrali, che sono la concertazione, ossia la collaborazione con le imprese e con Confindustria, e i vincoli europei. Invece, l’Appello per l’Europa dimostra, come abbiamo visto, che la Cgil rimane nel solco della tradizione ormai pluridecennale europeista e di collaborazione con le organizzazioni datoriali. La mancanza di una mobilitazione spontanea in Italia, a differenza di quanto accaduto nei principali Paesi europei – Spagna, Francia e Regno Unito – dipende, tra le altre cose, dalla relativa forza che il sindacato concertativo continua ad avere e dal suo ruolo come ammortizzatore/anestetico del disagio sociale.

Per questa ragione è bene riprendere in mano la questione sindacale, che assume un nuova centralità in quanto è uno dei nodi per la ripresa dell’antagonismo di classe. Secondo una interpretazione corrente, il sindacato e il partito agiscono su terreni diversi, il primo nella sfera dell’economia e il secondo in quella della politica. In realtà, queste due sfere sono sempre state strettamente intrecciate. Nel corso della storia del movimento operaio, il sindacato ha spesso deciso o contribuito a decidere l’orientamento del partito di riferimento. In sostanza è stato sì “cinghia di trasmissione”, ma spesso non dal partito ai lavoratori, bensì dai centri dirigenti del sindacato nei confronti del partito.

L’esito di tale condizionamento è stato più frequentemente di segno negativo, permettendo di sconfiggere la sinistra interna ai partiti operai, come la storia tedesca della Spd e della Seconda internazionale tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo dimostra. Tuttavia, qualche volta è stato anche di segno positivo, favorendo la sinistra del partito, come avvenuto di recente con l’elezione inaspettata di Corbin a segretario del Labour party. Ne consegue che l’approccio al tema del sindacato non può che essere politico. È vero che il sindacato è la forma immediata e quindi più facile di organizzazione del lavoro, rappresentando il primo gradino nella partecipazione attiva dei lavoratori. È, però, altrettanto vero che non si può separare il sindacato e la sua azione da una critica politica più generale, pena il ricadere sotto l’egemonia delle compatibilità con l’esistente, cioè con il capitalismo nelle forme che esso di volta in volta assume.

1 Il compromesso storico fu un tentativo, attraverso un accordo con la Dc, di rompere la conventio ad excludendum che impediva al Pci di partecipare ai governi della Repubblica.

2 L’episodio e il suo contesto storico sono ben ricostruiti da Thomas Fazi nel suo “Sovranità o barbarie” pp.90-98.

3 Il Serpente monetario europeo fu un accordo che imponeva un margine di fluttuazione limitato tra le valute di Italia, Germania, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo.

4 Guido Carli, governatore della Banca d’Italia per 15 anni e ministro del Tesoro nei governi Andreotti VI e VII, fu uno dei principali fautori del vincolo esterno europeo per costringere il Parlamento ad accettare politiche restrittive di bilancio.

5 Protocollo 31 luglio 1992 tra Governo e Parti sociali – Politica dei redditi, lotta all’inflazione e costo del lavoro.

*da Laboratorio 21

 

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