Migliaia di persone sono accampate da giorni nei boschi in cui il filo spinato segna il confine tra Bielorussia e Polonia. Stando a quanto riportato dalla Croce Rossa di Minsk, i morti tra le persone arrivate in Bielorussia per tentare di raggiungere l’Europa occidentale sarebbero già almeno dieci.
La Polonia sembra rifiutare qualunque assunzione di responsabilità che non riguardi la militarizzazione del lato della propria frontiera e la reazione violenta ad ogni tentativo di sconfinamento, vietando a civili – ergo, a giornalisti e membri di organizzazioni umanitarie – di avvicinarsi legittimamente al confine.
L’atteggiamento dei vertici di Varsavia sembra ignorare in toto i risvolti dell’emigrazione che nel corso degli anni novanta ha portato decine di migliaia di polacchi a trasferirsi all’estero, ed in particolare in Italia: del resto, è ben noto come Varsavia rifiuti di condividere gli oneri della politica migratoria con i paesi dell’Unione Europea più esposti ai flussi – come l’Italia – benché il suo bilancio polacco tragga enormi benefici dal sostegno economico di questi.
La crisi rappresenta l’ultimo atto della frizione cronica tra Minsk e Varsavia: una contrapposizione riemersa sin dagli anni novanta con il collasso dell’Unione Sovietica.
A dare man forte alle forze armate polacche sarebbero arrivati dall’Ucraina almeno 150 paramilitari dell’organizzazione neofascista “Corpo Nazionale”: il loro arrivo sarebbe stato coordinato tra le autorità ucraine ed il Ministero degli Esteri di Varsavia.
Medycy na granicu (in polacco: Medici sulla Frontiera), tra le principali organizzazioni non governative attive nel sostegno umanitario a ridosso del confine polacco, denuncia di essersi visto negato il permesso di lavorare regolarmente da parte delle autorità polacche e di aver subito sabotaggi ed intimidazioni ad opera di ignoti.
La reazione dei vertici bielorussi al tentativo di isolamento politico e di soffocamento economico è stata risoluta, e a tratti spregiudicata: facilitare l’arrivo di alcune migliaia di siriani, afghani, curdi, iracheni in Bielorussia ha permesso a Minsk di toccare i nervi dell’Unione Europea, palesando nuovamente le evidenti contraddizioni di quest’ultima, anche sul tema dei flussi migratori e della gestione di questi.
Il momento in cui questa crisi si apre è tutt’altro che casuale: a poche settimane dal G20, mentre ancora la nuova condotta del gasdotto North Stream 2 attende il nulla osta – politico – per cominciare a pompare gas russo verso la Germania senza attraversare l’Ucraina.
Un momento in cui la Germania si trova a fare i conti con la fine dell’era Merkel sospendendo una decisione già presa – quella del North Stream 2 -. Mentre gli Stati Uniti si uniscono alle accuse di Bruxelles contro Minsk e Mosca, Vladimir Putin alza le spalle, suggerendo all’Unione Europea di confrontarsi direttamente con Lukashenko per risolvere la controversia.
La crisi di Bialowiza potrebbe finire per coinvolgere in modo rilevante anche le poco distanti Lituania e Ucraina, quest’ultima già alle prese con una pesantissima situazione sul piano economico, politico e militare.
La Lituania, con il sostegno dell’Unione Europea, già sul finire della scorsa estate aveva provveduto a blindare massicciamente il proprio confine con la Bielorussia.
Nei confronti di Minsk, rea secondo Bruxelles di aver costruito a tavolino la crisi migratoria, sono in arrivo nuove sanzioni da parte dell’Unione Europea, sanzioni alle quali Minsk conta di rispondere simmetricamente.
Lo scorso maggio Minsk costrinse un volo Ryanair che stava attraversando il proprio spazio aereo ad un atterraggio non previsto con l’obiettivo di arrestare un paramilitare neonazista, descritto in Occidente come un oppositore democratico.
Questa scelta è valsa alla Bielorussia un pesante inasprimento delle sanzioni che già le erano state imposte a seguito delle elezioni presidenziali dell’agosto 2020. Tra queste, il divieto di sorvolo totale sullo spazio aereo dell’Unione Europea per la compagnia di bandiera Belavia e l’isolamento pressoché totale della piccola repubblica ex sovietica nei rapporti con l’Occidente.
Solidarizzando con Varsavia, l’Unione Europea ammette che i flussi migratori – siano questi prevalentemente fisiologici o prevalentemente indotti – possono costituire uno strumento di guerra ibrida.
Malgrado ciò, la Turchia è stata massicciamente finanziata da Bruxelles per limitare l’accesso alle proprie frontiere a milioni di siriani, iracheni, afghani intenzionati a raggiungere l’Europa occidentale: un trattamento difficilmente sovrapponibile con quello riservato alla Bielorussia.
In una certa misura, la crisi giova ai vertici polacchi sia sul piano interno che sul piano internazionale: nelle spoglie di vittima delle trame di Minsk e Mosca, Varsavia punta a migliorare ulteriormente la propria rendita di posizione.
Poche settimane prima dell’inizio della crisi di Bialowiza, il Tribunale costituzionale polacco ha dichiarato illegittime alcune disposizioni del Trattato dell’Unione Europea, in quanto incompatibili con la costituzione polacca.
Di risposta, Ursula Von der Leyen ha minacciato di tagliare il sostegno economico dell’Unione Europea a Varsavia, scatenando una reazione scomposta da parte del primo ministro Mateusz Morawiecki.
Mentre i risvolti della crisi di Bialowiza restano incerti, la Polonia e l’area baltica si confermano, insieme all’Ucraina, pilastri della strategia statunitense volta a dividere lo spazio continentale, mantenendo costante l’instabilità sul limes russo-americano.
Una strategia favorita dal rinnovato tentativo di Bruxelles di isolare un paese-cerniera dello spazio continentale come la Bielorussa: un tentativo che trascina lo spazio continentale e mediterraneo nel vicolo cieco dei doppi standard e della logica suicida dei meccanismi sanzionatori.
* da La Fionda
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