Bombe, carri armati, immagini strazianti di ospedali attaccati, carovane di sfollati, edizioni speciali in tv e prime pagine dei giornali. E’ tornata “la guerra”. Sarebbe più corretto dire che non se ne è mai andata, ma senza dubbio l’escalation delle ultime tre settimane ha dato un’accelerata senza precedenti anche per quel sanguinoso e infinito conflitto che è in corso in Siria. Guerra vera e propria, così come si è strutturata subito dopo la degenerazione delle prime proteste contro la presidenza Assad e che dura dalla primavera del 2011, la cosiddetta “Primavera araba”, quando in tuttal’area mediorientale e nordafricana si svilupparono movimenti e rivolte popolari con aspirazioni, il più delle volte, represse. Una guerra che, in questi 8 anni, è entrata ed uscita dagli schermi televisivi, dalle colonne dei giornali e a fasi alterne anche dai dibattiti o delle mobilitazioni di movimento, spesso troppo condizionate da una visione della guerra tutta eurocentrica. Una situazione complessa che ci impone -al contrario- di provare a dotarci di strumenti di comprensione e di intervento che ci permettano di emanciparci dai tempi e dai contenuti imposti dal mainestream.
La guerra siriana crediamo sia un conflitto che ci possa dire molto sulla fase storica che stiamo attraversando. Provando ad analizzare le forze in campo, il contesto locale e quello internazionale, le alleanze, gli interessi e i conflitti che lo attraversano, riscontriamo elementi che ci possono aiutare ad orientarci ed agire, come compagni e compagne, da internazionalisti/e, dentro e contro la guerra.
Lo scontro si sta combattendo all’interno dei confini dello Stato siriano, oramai smembrato e suddiviso in aree di influenza e controllo, con dei focolai nelle aree limitrofe: Iraq, Libano, campi palestinesi in territorio siriano e ovviamente le aree a maggioranza kurda in territorio iracheno, turco e iraniano. Le ripercussioni e gli interessi di questo conflitto però, si estendono ben oltre l’area della guerra guerreggiata, assumendo la forma di una guerra per la riaffermazione delle gerarchie, l’egemonia e il controllo delle risorse medio-orientali, che vede come ultima posta in palio un nuovo assetto degli equilibri economico-militari su scala globale.
E’ inoltre evidente il tentativo di ridefinizione dei rapporti di forza fra le due maggiori potenze imperialistiche e militari mondiali, USA e Russia, con il conseguente riassetto degli equilibri fra il blocco NATO e l’asse cheunisce Mosca con Damasco, a sua volta legata al regime sciita di Teheran e agli Hezbollah del confinante Libano.
Ma la “classica” divisione in blocchi fissi ha subito numerose variazioni nel contesto siriano, evidenziando come anche all’interno degli stessi schieramenti, interessi contrapposti dettati dalle contingenze, possono modificare alleanze considerate solide e consolidate.
Uno scontro anche all’interno degli stessi interessi imperialistici talvolta contrapposti, un contesto geopolitico reso di ancor più difficile lettura da uno scacchiere locale complesso come quello medio-orientale, dovegli interessi delle potenze regionali e degli stati nazionali, in alcuni casi, confliggono con le aspirazioni di egemonia neo-coloniale delle potenze internazionali.
La tendenza alla guerra è diretta conseguenza del tentativo, su scala internazionale, di ristrutturazione di un sistema capitalista in crisi. Questo processo porta necessariamente ad un riequilibrio degli assetti di gerarchia e di egemonia economica, politica e militare, in scenari locali mutati, nel corso degli ultimi trent’anni, da potenze emergenti che si fanno avanti per prendersi anche loro un pezzettino di torta, mentre attori un tempo centrali lottano per non perdere posizioni di predominio. Un Risiko giocato tutto nel campo del nostro avversario di classe nella sua tendenza strutturale all’imperialismo, alla guerra e dallo sfruttamento dei popoli e dei territori.
Prendere coscienza della tendenza mondiale alla guerra che si sta dispiegando sotto i nostri occhi è importante per fissare un primo fondamentale punto di riferimento nella nostra azione politica: il nostro coerente NO ALLA GUERRA. Oggi in Siria, come lo fu ieri per Libia, Iraq, Afghanistan, Libano, Yugoslavia, così come da sempre ci schieriamo e denunciamo la lunga mano imperialista, d’ingerenza e di aggressione neocoloniale in Africa, nel Maghreb, in Latino America -dal Venezuela all’Equador- passando per l’isola cubana. È importante rimettere al centro del dibattito il “No alla guerra e all’imperialismo”, nonostante per alcuni possa sembrare obsoleto se si mette a confronto la mobilitazione e il dibattito attuale alle milioni di persone scese in piazza nei primi anni duemila sotto lo slogan “No alla guerra, senza se e senza ma”.
Il nostro opporci alla guerra e agli interessi imperialistici deve esser centrale nella lotta al sistema capitalista, qualunque sia il paese che se ne faccia portatore.
Oggi, invece, una parte del dibattito a sinistra si divide tra chi èsolito usare condizionali o pregiudiziali di partenza, e chi riduce la complessità dello scenario descritto sopra, a qualche miope e rassicurante categoria “geopolitica”. Un approccio, quest’ultimo, fuorviante e parziale che spesso banalizza il dibattito riducendolo a scontro tra “tifoserie” inneggianti all’una o all’altra bandiera. Un approccio che il più delle volte ci induce ad un atteggiamento totalmente passivo in quanto osservatori di una partita giocata da altri, mandandoci completamente fuori strada rispetto al ruolo che ci compete come compagni/e che credono e praticano l’internazionalismo.
La lente con cui dobbiamo osservare questo conflitto è quella che ci parla della società e delle contraddizioni in cui viviamo noi stessi/e ogni giorno. Dovremmo dunque innanzitutto cercare qui da noi gli strumenti per contrapporci alla guerra, ai suoi meccanismi, ai suoi interessi. Dobbiamo metterci nelle condizioni di saper intrecciare la mobilitazione internazionalista con le lotte di lavoratori, studenti e disoccupati, con le battaglie per l’ambiente e la difesa dei territori, contro la repressione e il controllo sociale. Solo forti di questa consapevolezza potremo essere in grado di individuare e comprendere gli interessi contrapposti e in conflitto fra loro, in ogni contesto specifico in cui la guerra e gli interessi degli Stati si trovino in uno scenario di scontro aperto, oltre a trovare i mezzi e modi per agire contro questo sistema e per la costruzione di una società diversa.
L’attacco turco al Rojava e alla Siria del Nord, su internazionalismo e solidarietà
Con la mossa di Trump di ritirare il contingente USA dal Nord della Siria, in particolar modo delle zone kurde autogovernate al confine con la Stato Turco, si è, senza mezzi termini, dato il via libera all’operazione “Sorgente di Pace” (Sic!) che Erdogan stava preparando ormai da mesi. La Turchia del Sultano, dunque, decide di giocarsi la carta della guerra per muoversi dentro il complesso scenario di cui dicevamo in precedenza, dispiegando tutto il “sistema guerra” con tutto ciò che esso comporta: dare una risposta alla crisi economica, dare respiro ai mercati e ai capitali interni, tentare di reagire al continuo crollo della lira turca, rispondere all’erosione di consensi al partito di governo AKP. Ecco dunque la mobilitazione patriottica per una guerra che assume tutte le caratteristiche di una “Guerra santa”. Tutti i partiti (ad eccezione della coalizione della sinistra popolare kurda e turca dell’HDP) si sono allineati a favore dell’intervento, chiare indicazioni sono state date ai principali muezzin per dedicare la preghiera ai soldati al fronte, si imbandierano le vie e le piazze, la squadra nazionale di calcio si rivolge al proprio pubblico con il saluto militare in mondovisione. Tutta la società turca viene indotta ad arruolarsi e il comparto civile viene direttamente coinvolto nelle vicence belliche: un meccanismo che vediamo perpetuarsi ogni qualvolta la carta della guerra viene giocata da chi ci governa.
Ovviamente, la repressione e il controllo del fronte interno diventano pedina essenziale di una guerra che si dispiega anche dentro i propri confini, tutta a vantaggio di interessi di classe, reazionari e patriottici. Si stringono ancora di più le catene ai polsi dell’opposizione organizzata nell’HDP, si controllano giornalisti nelle tv e si “spiano” i tweet dei freelance, si ascoltano le lezioni dei professori all’università e si monitoranole interviste di scrittori e intellettuali. Si contano centinaia di perquisizioni e mandati di arresto per chi ha osato criticare, anche con toni blandi, l’operazione militare. Nelle terre del Kurdistan Bakur (area kurda entro i confini turchi) torna il coprifuoco, si intensifica la militarizzazione del territorio così come aumentano gli attacchi alle aree montane controllate dalla guerriglia PKK. Le città kurde in Turchia sono dunque completamente occupate preventivamente per evitare non solo ogni atto di solidarietà con la popolazione del Rojava, ma anche minime manifestazioni di contrarietà all’intervento.
Mentre si dilatano i confini all’esterno, si fortifica l’occupazione all’interno. La politica estera aggressiva è necessaria ad un accentramento di poteri, ad una stretta repressiva, alla mobilitazione generale interna. E quale miglior capro espiatorio dei “terroristi kurdi del PKK”, nemico interno per eccellenza, per riaccendere gli istinti nazionalistici e soffiare sulle aspirazioni neo-ottomane di una Grande Turchia che spadroneggi in Medio Oriente -da Istanbul a Mosul- schiacciando gli “infedeli” e “comunisti” kurdi, smembrando la Siria e sottomettendo anche le ali più indipendenti del governo curdo iracheno.
La Turchia, dunque, come principale aggressore dell’esperienza del Rojava, che proprio al di là del confine, si stava consolidando come un esperimento politico, sociale, economico in evidente contrapposizione sia con le aspirazioni turche, sia con gli interessi delle potenze imperialistiche in tutta l’area.
Come può svilupparsi nel cuore del Medio Oriente, dentro una guerra che vede impegnate tutte le potenze mondiali, un progetto dichiaratamente rivoluzionario? Come è possibile che si sia affermato? Dove fonda le radici, come è si è difeso dai nemici interni e dai condizionamenti dalle ingerenze e interessi esterni? Com’è stato possibile pensare il suo radicamento e la sua difesa?
Non è possibile comprendere quanto stia accadendo in Rojava, e dunque rispondere alle domande che ci siamo posti, senza capire come un processo rivoluzionario – di per se stesso- vada inteso nella sua evoluzione e dimensione storica, dunque come un processo in divenire, che ha delle radici, che attraversa delle fasi offensive ed altre di ripiego, e che dovrà difendersi, avanzare e resistere nel tempo.
La storia del movimento rivoluzionario kurdo sotto la guida del PKK, una storia che continua da oltre quaranta anni, si lega indissolubilmente con quella delle terre del Rojava, nome kurdo che definisce i territori più occidentali delle terre abitate storicamente dal popolo kurdo. Negli anni della durissima repressione militare e della sollevazione popolare kurda in Turchia, non solo diversi profughi e perseguitati politici fuggirono nella Siria di Hefez Al Assad (padre dell’attuale presidente Bashar), ma lo stesso PKK riuscì ad instaurare il proprio comando politico, campi di addestramento ed una certa agibilità politica e d’azione concessa da Damasco in chiave anti-Ankara.
Tutto questo nonostante la Repubblica Siriana sotto la guida del Baath di Assad abbia negli anni comunque perpetuato una politica repressiva nei confronti della popolazione kurda (ma non solo) nel tentativo di assimilazione, di negazione dei diritti fondamentali e di “de-kurdizzazione” delle aree rurali del Rojava. Questo per favorire un processo di emigrazione nelle città industriali indirizzato ad avere manodopera operaia e più facilmente controllabile.
Nel Rojava dove oggi germogliano le idee rivoluzionarie di giustizia sociale, uguaglianza e convivenza etnica e religiosa, affondano radici profonde seminate con la lotta del popolo curdo e con l’incessante lavoro politico di Ocalan e dei/delle partigiani/e PKK.
Non è un caso dunque, che proprio il paradigma politico e l’orizzonte del Confederalismo Democratico proposto dal Movimento di liberazione kurdo si proponga come alternativa e modello praticabile in una zona ed in un contesto come quello del Rojava e della Siria del Nord.
Questa proposta politica, frutto del pensiero di Ocalan – leader riconosciuto per milioni di kurdi in Medio-Oriente e della diaspora in Europa e nel mondo – è stata dibattuta e discussa dal Partito e dal Movimento tutto in anni di confronto e analisi interna. Un’esigenza che rispondeva al bisogno di dare uno strumento concreto per uscire dalla guerra permanente, per far fronte alla repressione feroce, per raggiungere una soluzione politica duratura al conflitto, mantenendo salvi i principi fondatori di un movimento rivoluzionario.
Anche in questo caso, non si può e non si deve fare l’errore di giudicare la proposta politica del Confederalismo Democratico senza inserirla nella sua dimensione storica, senza considerare i bisogni a cui risponde e conoscere il contesto in cui si dispiega, le congiunture internazionali e la dialettica ad esse collegata. Soprattutto, non dobbiamo cadere nel tranello giudicante, tipico del privilegio di chi troppo comodamente si può permettersi di farlo, di atteggiarsi a censori o dispensatori di “etichette” e “patentini” di autentici rivoluzionari dal comodo pulpito di casa nostra.
Troppo facile erigersi a dispensatori di quanto e come un movimento è rivoluzionario o non lo è, mentre c’è chi subisce e risponde ad una guerra, alle torture e alla distruzione sulla propria pelle. Così come è ugualmente errato pensare di poter riportare tale e quale nella nostra realtà un paradigma nato in seno ad un movimento e ad un contesto specifico e con il quale si può, invece, confrontarsi dialetticamente rispetto ad un più ampio orizzonte di azione.
Non possiamo non masticare amaro pensando a quanto di così poco rivoluzionario sia in gioco al momento alle nostre latitudini, nel nostro agire politico e nelle nostre relazioni e al quale invece dovremmo con fatica e umiltà tendere e lavorare. Anche a questo dovremmo rispondere e farci carico, anziché adottare modelli politici con genesi propria e applicarli ai nostri spazi che colpevolmente lasciamo vuoti o sono politicamente spuntati e troppo marginali, così come è inaccettabile la posizione di chi attacca o mette in dubbio il lavoro politico di compagni e delle compagne che in un contesto del genere aprono una prospettiva di alternativa radicale alla lunga mano degli interessi imperialistici, neocoloniali, al fondamentalismo, all’oscurantismo, all’odio etnico, sessista e sciovinista, alle logiche di dominio, saccheggio e profitto nel cuore di un medio-oriente stretto fra il confessionalismo, soluzioni autoritarie e i servi del capitali occidentale.
A questi compagni siamo debitori di aver rimesso in moto un percorso di liberazione, di protagonismo diretto e di emancipazione della donna, oltre che di aver rimesso al centro del dibattito la salvaguardia delle risorse e del pianeta nel superamento del capitalismo, della gestione del potere e del territorio e dalla sua autodifesa. Quando guardiamo al Rojava, dobbiamo tenere presente la capacità di questi compagnidi aprire una breccia in uno scenario di guerra, dove forti sono gli interessi dell’imperialismo e di aver saputo respingere la barbarie del fondamentalismo religioso e dell’oppressione jihadista.
Per questo ogni forza in campo, dal regime di Assad sino agli Stati Uniti passando per la Russia di Putin, è stata costretta “a fare i conti” con il Rojava, i suoi combattenti e le sue strutture politiche. Chiunque ha provato ad indebolirla, a trarne vantaggi, a destabilizzarla ed a minarne le basi rivoluzionare per i propri interessi, ma tutti gli attori sono stati costretti a relazionarcisi.
Dall’altro lato, per quanto riguarda le scelte dei compagni curdi, in un contesto di assedio vero e proprio, è innegabile la necessità di stringere legami tattici utili alla sopravvivenza. L’esperienza Rojava ha, però, nonostante le pressioni e il contesto sfavorevole, posto le basi per una società radicalmente alternativa a quella delle potenze coinvolte nel conflitto.
Crediamo, dunque, che il sostegno al processo rivoluzionario, alla resistenza popolare, all’autodifesa, alle strutture politiche del Rojava e della Siria del Nord siano ancor di più necessarie e imprescindibili proprio quando essa viene messa sotto attacco diretto. La solidarietà internazionale deve affilare la lama dell’appoggio concreto alle strutture popolari del Rojava, deve indicarne i nemici, le complicità e gli interessi congiunti di chi sta tentando di aggredirla, deve riuscire ad estendere e moltiplicare le iniziative di sostegno e supporto ai valori e alle pratiche che sono i pilastri del processo rivoluzionario, senza retorica, con umiltà ma con impegno militante.
Se non ci ponessimo nella prospettiva di saper praticare la solidarietà sul terreno di una lotta concreta, faremmo l’errore di confonderla con una più innocua “carità” dettata da una spinta morale, spesso dettata anche da bisogni e interessi che si riducono al nostro piccolo orizzonte.
Porci al fianco di chi resiste in Rojava oggi, significa sentirsi parte di una comune lotta e dentro la stessa guerra, seppur nella disparità dei contesti in cui agiamo. Allo stesso modo dobbiamo rifuggire dal vittimismo che descrive “i kurdi” come mero oggetto passivo, da difendere e proteggere, in balia talvolta dell’una o dell’altra potenza mondiale e poi vigliaccamente “traditi”. E’ un errore grave e politicamente nocivo dal quale dobbiamo rifuggire.
La solidarietà non è il proseguimento della diplomazia con altre forme.
E’ riconoscerci come compagne e compagni di chi da altre parti sta combattendo dalla nostra stessa parte, soggetti attivi in un processo reciproco di relazione, di mutuo appoggio, di liberazione e di accrescimento collettivo.
Siamo convinti che la solidarietà debba dunque stare lontana dagli appelli agli Stati, ai Governi, ai Padroni. In primo luogo perché lo consideriamo un approccio sbagliato, che ci pone come subalterni a decisioni altrui alle quali dovremmo mendicare qualcosa oggi, che magari ci verrà tolto domani, ma soprattutto, ribaltando di nuovo la prospettiva, perché sono i nostri compagni e le nostre compagne in Kurdistan che ci indicano la strada da percorrere. “Noi sappiamo che i nostri alleati non sono governi, Stati o eserciti, ma tutte le donne che si mobilitano e lottano in ogni parte del mondo per rovesciare il patriarcato. Nostre alleate sono le forze che giorno per giorno costruiscono un mondo diverso e si impegnano per la sua difesa“, scrivono le donne curde del TJK-E nel suo appello per l’attuale mobilitazione.
Crediamo che riconoscere la guerra, i suoi interessi, i suoi affari come il principale nemico dei popoli e come strumento di controllo, repressione e sfruttamento delle classi subalterne sia il primo passo per una concreta lotta internazionalista. Dobbiamo affinare le capacità di denunciare, attaccare, e colpire chi nei nostri territori fa accordi e affari con il “sistema guerra”, chi fa accordi e affari con i nemici della resistenza kurda. Attaccare le collusioni del padronato italiano, dei nostri governanti, dei banchieri e delle istituzioni, che nella guerra si arricchiscono, che con affari e accordi con dittatori, sceicchi e guerrafondai svolgono il loro compito di sanguinosi affaristi.
Allo stesso modo dobbiamo allargare la mobilitazione a sostegno dei/delle compagni/e kurdi/e, diffondendo il loro esempio rivoluzionario dai banchi di scuola ai posti di lavoro. Dobbiamo dire con forza che senza la liberazione di Ocalan e il riconoscimento del PKK come interlocutore politico legittimo, non ci può essere pace e giustizia per la Turchia, la Siria e tutto il Medio Oriente.
Se vogliamo essere all’altezza dello scontro in atto, per uscire dalla passività o dall’auto-rappresentazione, dobbiamo saper alimentare la lotta contro la guerra per praticare la nostra solidarietà a chi resiste e lotta oggi in Rojava, in Siria, in Turchia, in Kurdistan e tutto il Medio Oriente.
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