In occasione del decennale della morte di Alessandro Mazzone, tra alcuni ex-studenti (i “mazzoniani” di un tempo) è nata l’idea di ricordarne la figura e l’importante contributo teorico. Con l’adesione delle figlie è stata fondata un’associazione culturale dal nome “Laboratorio critico” con sede a Siena, città in cui Mazzone ha insegnato per molti anni concludendovi la propria carriera accademica; essa ha tra i suoi obiettivi la valorizzazione del suo lascito teorico e librario.
L’associazione, come suo primo atto concreto, ha deciso di promuovere la pubblicazione di una raccolta di scritti che abbracciano l’ultimo periodo del suo impegno teorico (1999-2012). È stata questa sicuramente una fase delicata della sua vita, segnata da problemi di salute, dalla fine dell’attività universitaria, quindi potenzialmente complessa anche intellettualmente.
Pur tra varie difficoltà egli è riuscito a delineare una serie di nodi problematici che, in qualche modo, davano una dimensione teorico-politica più accessibile alla sua sofisticata teoresi degli anni precedenti.
Questa dimensione più “popolare” – nel senso più nobile del termine – rimane ancora di grande attualità e offre importanti strumenti per comprendere la realtà contemporanea.
Un contatto importante di questa fase fu quello instaurato con la Rete dei Comunisti, alla quale Mazzone non ha mai aderito formalmente ma con la quale ha a lungo dialogato partecipando a conferenze e pubblicazioni da essa promosse; è dunque sembrato giusto coinvolgere questa organizzazione nel progetto editoriale. L’auspicio è che questi scritti possano contribuire alla ripresa di un dibattito teorico-politico di più alto livello, con possibili ricadute pratiche.
Riprendendo punti essenziali della migliore tradizione marxista, Mazzone ne ha operato una articolata e originale sintesi. I contributi raccolti in questo libro riflettono alcuni dei nodi tematici più importanti di questo sforzo.
Esso si articola in tre parti: la prima è dedicata al concetto di classe, alla sua storia, alla sua articolazione nella configurazione contemporanea del modo di produzione capitalistico; la seconda è dedicata alla teoria della storia, con particolare attenzione al concetto di formazione economico-sociale, alle forme del dispotismo del capitalismo attuale e alle possibile strutture di transizione a una ipotetica società futura; la terza parte, infine, affronta questioni più concrete nel quadro delineato nelle parti precedenti, come gli effetti sulla comunicazione, sull’università, sui concetti di democrazia e imperialismo.
A conclusione troviamo un importante contributo che getta un ponte tra la riflessione teorico-politica più diretta e la possibilità di un approfondimento di tipo più formale legato alla dimensione filologica della nuova edizione storico-critica delle opera di Marx ed Engels (la Marx-Engels-Gesamtausgabe – MEGA2), dove Mazzone stesso cerca di mostrare la rilevanza non solo accademica, ma storico-culturale – e quindi a fortiori politica – di questo tipo di operazione.
Prima di procedere a una ricostruzione a grandi linee dei principali nodi tematici affrontati da Mazzone, vorrei offrire un breve spaccato dell’esperienza intellettuale vissuta con lui negli anni della nostra frequentazione.
1. La mia frequentazione diretta con Alessandro Mazzone è durata quasi venti anni1. Con lui ebbi la mia prima lezione universitaria nell’ottobre del 1992; si trattava di un corso di Filosofia della storia in cui si leggeva la Filosofia del diritto di Hegel.
Inutile negare che tutti noi studenti, per lo più al primo o al secondo anno, subimmo il fascino di un professore molto diverso dagli altri che avevamo o avremmo conosciuto. Eravamo giovani e ingenui, ma avevamo la chiara sensazione che, grazie a quelle lezioni, venivamo introdotti nel mondo rarefatto e sofisticato della vera filosofia, vale a dire del pensiero capace di pensare le cose.
Non era come negli altri corsi, dove si faceva il conto dei libri per l’esame, tot pagine dal manuale, tot dal seminario, ecc., delle fotocopie fatte in copisteria senza la bibliografia per risparmiare i soldi. Era una cosa molto diversa.
La consapevolezza che stavamo vivendo un’esperienza per molti aspetti unica ci spinse a tenere duro quando ci spaccavamo la testa sulle sottigliezze concettuali hegeliane; capivamo la differenza fra ripetere a pappagallo le formule trinitarie e comprendere la dialettica intrinseca della cosa nel suo svolgimento.
Accettammo di studiare per un solo esame quanto altri non studiavano nemmeno per la tesi. Si creò in questo modo la comunità dei “mazzoniani”, un gruppo di strani personaggi innamorati della filosofia marx-hegeliana (ma anche aristotelica, spinoziana, lukacsiana, gramsciana e via dicendo), guidati da quella singolarissima figura che era Alessandro Mazzone. Difficile spiegare l’effetto delle sue lezioni a chi non vi abbia assistito.
Era forse la percezione della incredibile profondità del suo sapere a impressionarci; come la sua capacità di leggere, parlare e scrivere in cinque o sei lingue (per noi che a stento parlavamo italiano). Ci sembrava, in poche parole, che il sapere stesse personificato di fronte a noi e che noi avessimo la grande occasione di parlare con lui guardandolo negli occhi.
Con Mazzone abbiamo, tutti noi, imparato a studiare; abbiamo capito che senza una solida base teorica non si ha la strumentazione per capire un granché; che educazione popolare non significa banalizzare le cose difficili, ma fornire i mezzi per capirle. Così siamo cresciuti; abbiamo cercato di imparare le lingue, di leggere i classici, di pensare – pur con tutti i limiti personali – in grande.
Questo è l’insegnamento umano e di metodo che Alessandro Mazzone ci ha dato.
Nei primi anni novanta, i momenti tragici del “crollo”, continuare a studiare Marx “nonostante tutto” non fu uno sterile esercizio nostalgico, bensì un atto di coerenza e onestà intellettuale; non di acritica e irrazionale fedeltà alla bandiera, ma di utilizzo di un metodo investigativo e scientifico, per il quale era chiaro che solo con la strumentazione marx-hegeliana si poteva dare conto di ciò che era successo, comprenderlo, digerirlo e impararne, nel bene e nel male, la grande lezione storica.
Si trattava di un terreno scivoloso che, per essere affrontato, aveva bisogno non di slogan ma, di nuovo, di strumentazione scientifica. La cultura e l’attività politica non erano quindi una cosa “pratica” nel senso più banale del termine.
Ci appariva molto chiaro come il fare senza il sapere – la cultura dell’immediato, si diceva – era il modo migliore per fare altro rispetto a quelle che erano le nostre pur sincere e disinteressate intenzioni; farsi strumentalizzare, fare il gioco del “nemico”.
La pratica del sapere, degli educatori che devono essere educati, della prassi che deve essere pensata per non essere mero spontaneismo inconcludente (o “concludente” per altri) erano per noi acquisizioni importanti, che ponevano una distanza tanto dall’attivismo anarcoide, condito in diverse salse, quanto dal disfattismo della sconfitta assoluta, per cui si butta via tutto cadendo nella disperazione di chi scopre che la propria fede non è quella vera. No, Mazzone ci ha insegnato che se si è sbagliato, si cerca di capirne il perché con gli strumenti della ragione.
Altro caposaldo del suo insegnamento, anch’esso decisamente marxiano, è il senso del limite e un’autocritica spietata. Questo perfezionismo esasperato era dettato da una rigorosa serietà scientifica e dal rispetto per la disciplina filosofica. Ciò suona particolarmente strano oggi, dove il sistema universitario incoraggia la pubblicazione a ogni costo.
Mazzone ha pubblicato relativamente poco; i suoi testi però, per chi li abbia letti, sono di una densità sorprendente. Non sono stati scritti per avere una pubblicazione da aggiungere in coda ad altre, ma per tentare di mettere un mattoncino nel grande muro del sapere. In questo ambito sono da ricordare i suoi studi sulla teoria dell’ideologia e sul feticismo del capitale. Particolarmente acuta la sua riflessione sulla teoria del modo di produzione su cui dirò qualcosa più in dettaglio in seguito.
In questa densa elaborazione teorica, uno dei grandi meriti, direi quasi “storici”, di Alessandro Mazzone resta senz’altro l’introduzione in Italia degli studi filologici su Marx ed Engels sulla base della nuova
edizione storico-critica delle loro opere, la Marx-Engels-Gesamtausgabe.
Questa grande opera mette per la prima volta a disposizione degli studiosi un’ingente massa di scritti inediti dei due autori, in particolare concernenti Il capitale, ma non solo, che cambiano non semplicemente l’interpretazione, ma la stessa base testuale sulla quale essa viene ricostruita.
Non mi dilungo qui sulle novità apportate dal grande progetto e rimando a un’importante raccolta curata proprio da Mazzone; mi preme solo ribadire, a chi non lo ricordasse o non lo sapesse, che a lui va attribuito questo merito, insieme a pochi altri, e che esiste ed è esistita in Italia una tradizione di studi sulla MEGA che affonda le sue radici addirittura negli anni settanta.
2. La riflessione teorica di Alessandro Mazzone negli ultimi venti anni si era sviluppata intorno a temi di grande attualità e di vitale importanza per la teoria del Materialismo storico. I contributi raccolti nel libro riflettono alcuni dei nodi tematici più importanti di cui si è occupato e li articolano cercando di inquadrarli in una dimensione di teoria politica che, alla fine, prospetta delle ricadute pratiche più precise.
a. Processo storico. La nozione chiave intorno alla quale ruota la ricerca di Mazzone, dalla quale poi si dipanano come conseguenza necessaria tutta una serie di complesse categorie secondarie, è quella di processo storico.
È fin troppo popolare l’ingenua idea che tutto è storico, ovvero che tutto passa; quello che c’era ieri non c’è più oggi, quello che c’è oggi non ci sarà domani, ecc. Questo è quello che già Luporini chiamava “storicismo invertebrato”, ovvero il susseguirsi di momenti diversi, ma sostanzialmente indefiniti.
Il cambiare degli individui non implica necessariamente storia vera e propria; singole diversità non implicano necessariamente differenza. Se in Toscana per es. per settecento anni circa l’agricoltura è stata organizzata in base al sistema della mezzadria, migliaia di contadini si sono avvicendati a zappare la terra, ma la storia complessiva è sempre stata la stessa: settecento anni di mezzadria. Diverse storie individuali della stessa Storia.
Processo storico significa invece elaborare una teoria che cerchi di spiegare come funziona la logica di un determinato periodo nel suo complesso. Allo stesso modo è diverso studiare la mezzadria in Toscana e le modalità di funzionamento del sistema mezzadrile (che poi in Toscana avranno avuto una loro particolare attuazione), similmente è diverso studiare il capitalismo inglese dell’Ottocento, oppure italiano, oppure contemporaneo, e cercare invece di sviluppare una teoria che cerchi di spiegare quali sono in generale le regole di funzionamento del capitalismo (che poi sarà più specificamente coniugato in realtà storiche e geografiche particolari).
Quindi, pensare il processo storico non significa semplicemente tener conto del cambiamento dei singoli momenti; significa piuttosto trovare le leggi per cui possiamo dire che un determinato periodo è identificabile come qualcosa di unitario e ricostruire la logica per cui questo qualcosa di unitario non è immobile e stazionario, ma ha delle tendenze per cui si modifica internamente e determina uno sviluppo che, a un certo punto, può culminare in un cambiamento qualitativo.
Qui cambiamento significa che quello che verrà dopo non sarà riconducibile alle leggi di ciò che c’era prima; esso funziona e si sviluppa in base a nuove leggi complessivamente diverse. Non è quindi semplicemente un istante successivo al precedente, ma una nuova fase storica, perché quell’istante successivo ubbidisce a logiche diverse.
b. Natura e fasi storiche. Per sviluppare una simile teoria Mazzone, sulla scia di Marx e Hegel, cerca di tenere insieme due fili, continuità e discontinuità, a più livelli: fra natura e storia, fra diverse fasi storiche.
L’essere umano fa parte della natura, è un animale. La storia umana è elemento integrante della storia naturale. Tuttavia ha delle sue particolarità specifiche che ne fanno qualcosa di qualitativamente diverso rispetto agli altri animali: l’essere umano è un momento del processo lavorativo.
Su questa sua specificità si costruisce la sua peculiare vicenda, che tuttavia non è altro che uno dei tanti modi della natura. Questa è la base “materialista” del pensiero marxiano. È questa, fra l’altro, terra di confine con lo studio dell’evoluzione della specie, della preistoria, ecc.
Stabilita la continuità/discontinuità fra essere umano e natura, si tratta adesso di capire che l’essere umano in generale non esiste. L’astrazione dell’essere umano in generale è un prodotto stesso della vicenda umana che ha generato questa nozione astratta solo di recente, mentre in precedenza si avevano, per stare agli esempi classici, greci e barbari, liberi e schiavi, ecc. A non esistere era proprio l’idea che greci, barbari, schiavi e cittadini fossero tutti uguali in quanto esseri umani.
La cosiddetta natura umana, tanto cara a molte versioni antropologiche del marxismo, è un terreno molto delicato dove si rischia spesso di cadere in braccio alle ideologie più reazionarie.
Infatti, il problema è stabilire quali siano le caratteristiche astratte da attribuire a questo umano transtorico. Marx in realtà indica poche e precise cose, ovvero la capacità di lavorare e gli elementi che interagiscono con l’uomo nel processo lavorativo (mezzo e oggetto di lavoro; il processo, guidato dalla posizione di scopo, ha esito in un prodotto esterno, altro rispetto alla fisicità stessa dell’uomo che lo realizza).
Si ha invece spesso la tentazione di aggiungere a questo rarefatto mondo dell’astratto ulteriori caratteristiche, solitamente di carattere esistenziale, di solito legate alla temperie culturale del momento. Facili le ironie di Marx su tutto ciò.
Leggere l’alienazione in termini prettamente esistenziali è la versione teoretica più nobile di questo errore basilare che è in realtà l’opposto di quello che Marx si prefigge, vale a dire sviluppare una teoria del farsi dell’umanità, del processo attraverso il quale l’effettiva esistenza di un soggetto umano collettivo, umano in astratto, diventa possibile nella storia (non è certo un punto di partenza bell’e fatto a cui regredire).
c. Modo di produzione e teoria delle classi. Da questi assunti deriva una interessante teoria delle classi. Esse non si definiscono in base ad una descrizione empirica o sociologica di gruppi di persone che agiscono in un atelier, in una fabbrica e via dicendo; e tanto meno dal modo in cui le persone interessate si autodefiniscono o si percepiscono.
Si tratta piuttosto di una definizione funzionale. Dato il modo di produzione capitalistico, è altrettanto data una modalità specifica in cui gli elementi del processo lavorativo si uniscono; questi elementi non sono astratte essenze, ma sono “interpretati” da persone in carne ed ossa. Il lavoro vivo è potenziale nella corporeità del lavoratore libero dai mezzi di produzione.
Questa condizione non è un mero dato di fatto, ma ciò che lo definisce come forza-lavoro nel mondo capitalistico: non avere la disponibilità dei mezzi di produzione e quindi essere nella condizione di doversi vendere per poter dar vita al processo lavorativo.
Le altre condizioni materiali del processo (mezzo ed oggetto di lavoro) compaiono di fronte a lui personificate in un individuo, il capitalista. Non si tratta quindi di caratteristiche della personalità o dell’indole di questo o quell’individuo, ma della funzione oggettiva che essi hanno nel processo. Questa funzione si determina dal ruolo che i singoli si trovano ad avere al suo interno.
Per queste ragioni, la riproduzione sociale complessiva, l’estrinsecazione stessa delle potenzialità vitali dell’individuo, si realizza come momento della riproduzione del capitale. La direzione stessa e le finalità complessive, sociali di questo processo si manifestano come volontà e pratica del capitale.
I modelli di processo storico dialettici come quello del modo di produzione capitalistico non implicano il semplice ripetersi meccanico degli stessi fenomeni. Il processo ha una tendenzialità interna che progressivamente porta a delle fasi in cui si danno nuovi equilibri e nuovi assetti che, ad un certo punto, implicano delle modifiche essenziali degli stessi punti di partenza del sistema.
Questa dinamica comporta che il modo di produzione capitalistico generi, produca, esso stesso dei risultati epocali senza i quali non sarebbe possibile pensare non solo il nostro mondo contemporaneo, ma una possibile società futura.
Sulla scia di Marx, secondo Mazzone il primo risultato storico del modo di produzione capitalistico è la creazione di una produttività “incondizionata”; ciò significa che essa è, da una parte, molto elevata, potenzialmente superiore ai bisogni umani.
In secondo luogo essa è libera per quanto riguarda l’obiettivo del produrre; il modo di produzione capitalistico svincola, infatti, la produzione dalla soddisfazione del bisogno (ovvero dalla sua “naturale” funzione), in quanto mira al plusvalore; questa apparente distorsione è in realtà la via verso la libertà: lavorare per soddisfare il bisogno è un’azione eterodiretta, l’appropriazione di plusvalore cancella questa necessità.
La società futura dovrà far tesoro di questa possibilità creata nel capitalismo, ovviamente non per produrre plusvalore, ma per decidere liberamente quali scopi porre alla produzione (dato appunto il “superamento” del bisogno).
Si direbbe che si tratta della hegeliana negazione della negazione. Si deve negare la prima negazione, ma conservandone il contenuto: va conservata la negazione dell’eterodirezione dello scopo operata dal modo di produzione capitalistico, vale a dire che non si lavora più solo perché bisogna mangiare; ma bisogna negare la natura capitalistica di questa “liberazione”, vale a dire la produzione di plusvalore. La libera società deve porre lo scopo, ormai libero, della produzione.
Il concetto di essere umano in generale in astratto (le nozioni giuridiche di libertà ed eguaglianza connesse al concetto di libero scambio, per cui i contraenti debbono essere liberi e uguali) è uno dei tanti portati del modo di produzione capitalistico, quanto la realtà dell’umanità come soggetto contraddittoriamente unitario.
Questo è quanto nella vulgata passa sotto il nome di “globalizzazione”, distorsione ideologica e strumentale di un processo in atto per cui la riproduzione del singolo individuo in ogni canto del mondo è interconnessa con quella di ogni altro individuo in un’altra parte.
Questo implica decisioni mondiali per quanto riguarda la vita di ogni individuo: l’umanità non è più una mera astrazione (astrazione prodotta essa stessa dal modo di produzione capitalistico), ma un fatto pratico ed organizzativo. Pone problemi globali e richiede risoluzioni globali.
Queste sono acquisizioni epocali senza le quali non è possibile il passaggio ad una fase superiore, più sviluppata, della riproduzione umana. Questo implica che per Marx è utopistico ed inconsistente un “ritorno alle origini”, siano esse intese come essenza antropologica sia come storica produzione precapitalistica.
L’umanità associata è un prodotto potenziale del modo di produzione capitalistico [mpc]. Esso stesso, ad un certo punto del suo proprio decorso storico, crea una situazione per cui uno sviluppo ulteriore non è più possibile all’interno del sistema (ed è lo stesso sistema che ha posto quelle condizioni): il mpc crea il concetto astratto di essere umano e lo nega di fatto con lo sfruttamento del lavoro salariato; crea le condizioni di una produttività incondizionata, ma permette di produrre solo ciò che valorizza il capitale; pone la possibilità di svincolare la produzione dal bisogno, ma permette di produrre solo ciò che crea plusvalore; crea un mondo unico, ma concepisce l’interazione solo come sfruttamento imperiale e colonialistico.
Alla fine, il capitale è, coerentemente con la sua natura più intrinseca, il limite di se stesso. Negati e superati i propri punti di partenza, non riesce a dare pieno sviluppo a quelle potenzialità epocali cui esso stesso dà vita, anzi, le blocca. È il momento del conflitto obiettivo, che prima che politico è logico.
Gli elementi funzionali che fino ad un certo punto, sempre in maniera contraddittoria e certamente non armonica, hanno determinato un avanzamento obiettivo del sistema entrano in conflitto tra di sé; il loro rapporto è adesso non più solo individualmente, ma oggettivamente conflittuale, vale a dire che non produce più un avanzamento nel sistema stesso, ne blocca anzi ogni ulteriore potenziale sviluppo.
Ciò non implica, come si è erroneamente ritenuto in passato, né un passaggio automatico a una società futura in virtù dei meri meccanismi della storia, né un necessario collasso del capitalismo.
La finitezza logica di un modello definisce una struttura teorica che nella realtà non esiste mai perfettamente; essa si complica e articola con ulteriori variabili e circostanze che certo non ne permettono una teorizzazione totale. Entra qui in gioco l’elemento preponderante dell’azione dei soggetti politici organizzati che, dato quel quadro strutturale, giocano la loro partita.
Il passaggio a una nuova società più giusta e razionale richiede dunque un’ulteriore elaborazione del concetto di classe che permetta di precisare alcuni passaggi in precedenza solo accennati. Classe, lo si è visto, ha una sua fondazione obiettiva, ovvero non dipende dall’autodefinizione soggettiva degli attori, ma dalla loro funzione obiettiva nel processo stesso.
Le modalità con cui oggettivamente la produzione va organizzandosi determinano un’egemonia di classe nella conduzione del processo stesso.
Qui egemonia, categoria di evidente ispirazione gramsciana, non va intesa nel senso limitatissimo di influenza delle idee di Tizio su quelle di Caio; tale riduzionismo tutt’ora in voga è ben altra cosa. Qui egemonia significa che l’organizzazione fattuale della riproduzione sociale complessiva, pur sempre all’interno delle dimensione capitalistica, include molti elementi di autoregolazione razionale, come ad es. la co-gestione dei lavoratori, le cooperative (di una volta), il relativo controllo/pianificazione da parte dello stato di vasti settori fondamentali dell’economia.
Questi elementi di socialismo nel capitalismo, man mano che si sviluppano e generalizzano, ne trasformano la natura e determinano una progressiva socializzazione della produzione, un’egemonia di classe.
Esiste naturalmente un risvolto autocoscienziale di questo processo obiettivo, per cui la dimensione soggettiva praticata può più o meno corrispondere alla dimensione oggettiva. Questo compito di trasformazione delle coscienze non è marginale ed è esso stesso momento del processo obiettivo e può essere od entrare in contraddizione con la pratica.
3. Pubblicare i testi di Alessandro Mazzone non è una mera operazione commemorativa. La difficile situazione politica e culturale, la crisi profonda che sta attraversando la società borghese occidentale a causa della fase crepuscolare del capitalismo pone domande ed interrogativi ai quali le scienze sociali faticano a trovare risposta.
Dopo un periodo di rimozione, il pensiero dialettico – che ha avuto in Marx e Hegel due dei suoi rappresentanti di spicco – è tornato in auge, proprio per la sua capacità di fornire una strumentazione non solo utile ma insostituibile.
Questa nobile tradizione ha visto in Mazzone non solo un erede, ma un degno continuatore. L’associazione Laboratorio critico, i saggi qui raccolti, un più ampio dialogo tra forze in grado di promuovere approcci critici e alternativi costituiscono non solo un segno della vitalità di questa tradizione, ma un contributo concreto per comprendere il mondo e, auspicabilmente, per trasformarlo.
*docente Università di Siena, da Marx. Dialectical Studies
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Marina Pierani
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