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La parabola teorico-politica di Mario Tronti, padre dell’”operaismo italiano”

La parabola di Mario Tronti, scomparso pochi giorni fa, può essere riassunta in un titolo: “dalla ‘rude razza pagana al voto favorevole sul Jobs Act”.

Ovvero dall’individuazione di un soggetto spontaneamente rivoluzionario (che non trovava più nel Pci, e nel relativo sindacato, una  rappresentanza all’altezza della sfida) al killeraggio legislativo delle sue residue conquiste storiche (l’art. 18, soprattutto), ai tempi del governo Renzi.

O, più precisamente, dall’immaginare un’altra via per la rivoluzione nei paesi avanzati all’applicazione subalterna della ristrutturazione “europeista” contro il lavoro salariato.

Alfa e omega, come si vede, si contraddicono senza mediazione possibile. Così come la “militanza” di Tronti, faro dell’”operaismo” per tutte le manifestazioni accademiche od organizzative di questa corrente di pensiero, ma pervicacemente sempre all’interno del gotha Pci-Pds-Ds-Pd.

Non da “militante di base” spaventato dalla pochezza delle alternative, insomma, ma da dirigente in grado di legittimare anche le decisioni più indifendibili.

Com’è ovvio, in questi giorni abbiamo ricevuto diverse proposte di obituary sul suo percorso, ma nessuna ci è apparsa davvero convincente nello spiegare questa apparente schizofrenia tra affabulazione teorica e  azione politica pratica.

Abbiamo naturalmente la nostra opinione, piuttosto tranchant su entrambi i versanti, parecchio diversa dalla condiscendente “comprensione” di molta sinistra comunista o ex.

Questo contributo, niente affatto “definitivo”, ci è parso quello che più di altri ha almeno provato a dar conto di uno iato – quello tra teoria e pratica – altrimenti inspiegabile, riconnettendo le pessime pagine da parlamentare con i “rovesciamenti audaci” nell’interpretazione soggettivistica di categorie spesso solo nominalmente attribuite a Marx.

Perché non di schizofrenia si deve parlare, secondo noi, ma di – una per molti versi inevitabile – resa dei conti di una teoria deficitaria con la realtà dei rapporti di produzione.

Buona lettura.

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La parabola teorico-politica di Mario Tronti, padre dell’operaismo italiano

La morte di Mario Tronti alla venerabile età di 92 anni, avvenuta il 7 agosto scorso, offre l’occasione opportuna per delineare e valutare i due momenti più significativi della parabola teorico-politica di questo importante filosofo romano: quello iniziale che corrisponde all’operaismo, di cui Tronti è considerato il fondatore, e quello successivo che corrisponde alla cosiddetta “autonomia del politico”.

Naturalmente dal nulla non nasce nulla e per comprendere la genesi dell’operaismo non si può prescindere dalla novità della elaborazione e dell’esperienza di ricerca che un intellettuale socialista, Raniero Panzieri, promosse attraverso la rivista Quaderni rossi.

Il periodo che vede nascere questa rivista (1961) è infatti caratterizzato da un notevole sviluppo della conflittualità operaia che, esplosa a livelli inediti sia per estensione che per contenuti rivendicativi nel 1960 e culminata nelle lotte contrattuali dei metalmeccanici nel 1962, confermava, per la prima volta nel secondo dopoguerra e in virtù del grande flusso migratorio dal Sud al Nord del paese, l’esistenza di una situazione del mercato del lavoro più favorevole alla classe operaia.

Il tratto comune a queste lotte è un nuovo protagonismo della classe operaia, ossia la tendenza a incidere nel meccanismo stesso dello sviluppo capitalistico.

La ricerca e l’analisi dei Quaderni rossi, se si collocano in questa situazione concreta, non prescindono peraltro dal dibattito, che era centrale all’inizio di quel decennio nel movimento operaio e tra le forze politiche, sul tipo di sviluppo economico e sociale, sulle prospettive di tale sviluppo e sulle correlative ricadute ideologiche alla luce della tematica allora emergente della “programmazione” e del “piano”.

Questi problemi ricevono, all’interno del quadro teorico della rivista, una peculiare torsione nella misura in cui essi sono investiti e, per così dire, ‘decifrati’ da un’analisi che tende a ricomprenderli attraverso un apparato concettuale nuovo, orientato dalle categorie totalizzanti del “piano”, del “dispotismo” e della “razionalità” capitalistici, al cui uso è sottesa una particolare interpretazione di Marx e la cui applicazione comporta un accentuato indirizzo sociologico della ricerca.

All’inizio Tronti collabora coi Quaderni rossi e con Panzieri, più tardi se ne separa, mosso dall’intenzione di costruire un’esperienza politica alternativa e di verificare su questo terreno la possibilità di uno sbocco tendenzialmente rivoluzionario delle lotte operaie della prima metà degli anni Sessanta.

Semplificando il discorso, si può dire che Tronti sposta il fuoco dell’analisi teorica e della proposta politica dal tema della “totalità capitalistica” nel rapporto fabbrica-società, così come era stato definito da Panzieri, al tema della “totalità operaia”, individuato quale vettore di una nuova fase della lotta di classe.

In questo senso, il filo rosso di questi saggi è costituito, per l’appunto, da una proposta politica, già segnalata dal titolo del libro, che coglie nella contraddizione tra operai e capitale, quale si verifica nei ‘punti alti’ del sistema, il momento esaustivo e risolutore dello scontro di classe.

Scrive Tronti in Operai e capitale (1966): «Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia. A livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione».

È questo il nocciolo teorico fondamentale dell’operaismo. Emergono in questa posizione teorica sia l’influsso di György Lukács, forse il maggior pensatore marxista del Novecento, sia l’influsso, sul terreno del metodo e della interpretazione di Marx, della importante corrente filosofica italiana rappresentata da Galvano Della Volpe e da Lucio Colletti.

Queste componenti fanno dell’esperienza di Tronti, assieme ad uno stile aforistico e ad una raffinata eleganza espositiva, un fatto fortemente originale e ricco di suggestione tanto nella storia del marxismo italiano quanto, come si vedrà, nella cronaca delle sue degenerazioni.

Alla luce di quella che sarà chiamata la “rivoluzione copernicana operaista”, Tronti definisce pertanto «la classe operaia come articolazione positiva dello sviluppo capitalistico, come molla propulsiva di esso, come suo fondamento dinamico: la classe operaia come motore mobile del capitale».

Modellare il movimento operaio sul grado di globalità raggiunto dal capitale era stato invece il nocciolo del pensiero di Panzieri. Dal canto suo, Tronti elaborava in Operai e capitale una concezione che si presentava come l’inversione di quella togliattiana.

Partendo da Lenin, Tronti registrava la distinzione tra lotta economica (lotta per migliorare la situazione economica degli operai) e lotta politica (lotta per la democrazia e per l’estensione dei diritti del popolo). Il marxismo di Lenin, egli scriveva, «ha poi unito in un tutto indissolubile questi due momenti della lotta operaia, e, senza Lenin, i due momenti sono tornati a dividersi; divisi sono entrati in una doppia crisi, che è la crisi di oggi della lotta di classe, intesa in senso leninista come ‘organizzazione’ e ‘direzione’ di questa lotta.

Presa alla lettera, quella distinzione vuole infatti un ‘sindacato di classe’ e un ‘partito di popolo’; una realtà ‘italiana’ che abbiamo tutti sotto gli occhi, una forma di opportunismo che non ha avuto bisogno di rompere i ponti con il leninismo.

Due conseguenze: un sindacato che si trova a gestire le forme concrete della lotta di classe senza neppure parlare di un loro sbocco politico, e un partito che esaurisce la sua funzione nel parlare di questo sbocco politico senza il minimo riferimento e il più lontano legame con le forme concrete di lotta di classe».

Sennonché, partendo dalla premessa secondo cui il fattore prioritario e determinante è “la classe operaia come motore mobile del capitale”, la conseguenza logica cui si giunge è che la contrapposizione fra operai e capitale non è più vista come scontro fra una classe dominante, quella dei borghesi, ed una classe dominata e sfruttata, la classe operaia.

È questa la classica lettura di Marx, il quale collega strettamente la possibilità della rivoluzione al necessario e ciclico esplodere delle contraddizioni fra rapporti di produzione capitalistici e forze produttive sociali.

Gli operaisti, dal canto loro, non accettano la concezione di questa contrapposizione elaborata da Panzieri, secondo cui capitalisti ed operai finiscono con l’essere due poli autonomi e paritetici: da una parte l’oggettiva razionalità capitalistica, dall’altra l’irriducibile insubordinazione operaia.

Gli operaisti radicalizzano invece il discorso di Panzieri: per loro capitale e classe operaia non sono realtà autonome, bensì sono le lotte operaie a determinare lo sviluppo capitalistico.

Il ragionamento di Marx viene letteralmente e consapevolmente rovesciato.

Ma allora a che cosa si riduce per gli operaisti il “potere operaio”, la denominazione che ha dato il nome alla più radicale formazione politica operaista degli anni Settanta? La risposta è che, in buona sostanza, si riduce ad una gestione politica degli operai all’interno del sistema.

Certamente, una gestione politica di natura conflittuale, legata alle lotte, ma pur sempre una gestione politica, per giunta progressivamente crescente in quanto collegata all’illimitato sviluppo politico della classe operaia.

Se infatti le lotte operaie determinano lo sviluppo del capitale, se la classe capitalistica è di fatto subordinata a quella operaia, perché il suo sviluppo è funzione di queste lotte, e si configura quindi come un tentativo costante di controllo e di adeguamento alle spinte operaie, appare evidente che gli operai posseggono di fatto nel capitalismo un potere enorme, sempre crescente, in rapporto alla crescita politica delle loro lotte.

La conclusione è che siamo di fronte ad una versione, originale quanto si vuole, di gradualismo riformista, in cui si perde la dimensione dello sviluppo come crescita del comando capitalistico sul lavoro e come aumento del grado di sottomissione degli operai al capitale.

È da notare, fra l’altro, che Tronti è rimasto sorprendentemente sempre interno al PCI e alle metamorfosi di esso in senso liberaldemocratico e riformista successive al 1991, rappresentate dal PDS, dai DS e dal PD,

Tornando allora al tema del gradualismo riformista, va detto che per Tronti (e si badi bene che siamo di fronte qui al Tronti del 1967, prima cioè della spaccatura dell’operaismo in un’ala moderata e in un’ala radicale, laddove quest’ultima farà capo a Toni Negri) questa possibilità di dominio della classe operaia su tutta la società richiede due condizioni.

La prima, come affermerà Tronti codificando sul piano teorico la politica collaborazionista del movimento operaio, è «una pratica della lotta di classe condotta questa volta dal vertice del potere. La seconda è un “uso operaio della socialdemocrazia”».

Questa «alleanza tattica della classe operaia con lo sviluppo capitalistico» anticipa e ci fa comprendere la parabola politica di chi l’ha sostenuta. Che Mario Tronti, massimo teorico dell’operaismo prima e dell’“autonomia del politico” dopo, sia diventato un senatore del PD e in questa veste abbia votato in parlamento a favore del ‘Jobs Act’, ossia di un provvedimento che ha pesantemente limitato le tutele dei lavoratori dipendenti, può apparire una lamentevole singolarità solo se non si tiene conto di queste premesse teoriche.

Altrettanto singolare, ma in realtà già implicita nella visione quasi teologica dell’autonomia operaia, può apparire la qualifica di “marxista ratzingeriano” che, a buon diritto, gli verrà attribuita per le sue progressive convergenze politiche, etiche e spirituali con il cattolicesimo.

Tuttavia, se una costante vi è in questi ‘passaggi ad alta quota’ di Tronti, è indubbio che essa vada individuata in una miscela di nietzschianesimo, ‘ritorni d’anima’ ed elitismo.

Tale miscela rappresenta il contributo politico, ideologico e culturale che Tronti, svelando la matrice di destra prima dell’operaismo e poi della cosiddetta “autonomia del politico”, ha recato al processo di destrutturazione della sinistra nel nostro paese.

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1 Commento


  • Leonardo bargigli

    Contributo inappuntabile. Grazie!

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