La pubblicazione in Francia di “Pensées décoloniale” di Quiroz e Colin non è solo sintesi storica esaustiva di una corrente di pensiero fondamentale della nostra epoca, ma individua anche nuove piste di ricerca nella critica contemporanea dell’Occidente capitalista
Dobbiamo assumere il pensiero decoloniale come la guida del grande stravolgimento planetario in corso, che lascia presagire le rivoluzioni prossime e già in gestazione. Come il manifesto della battaglia del futuro che s’annuncia al crepuscolo dell’ordine mondiale unipolare?
Secondo l’affermazione della filosofa Sonya Dayan-Herzbrun, « il movimento decoloniale è un movimento mondiale che mette l’accento sugli strumenti e le modalità di cui la colonizzazione si è servita per dominare gli spiriti e gli affetti. Il pensiero decoloniale permette a coloro che sono stati colonizzati di tentare di disfarsi di queste catene, di vedere se stessi in prima persona e diventare cosi’ dei soggetti produttori di conoscenza ».
I rapporti politici, economici e sociali del centro e della periferia sono strettamente legati tra loro e interdipendenti. La dominazione del centro sulla periferia avviene attraverso il drenaggio di surplus, attraverso i vari attori convolti nell’espansione del capitalismo a livello mondiale: “le borghesie “compratrici”, le industrie monopolistiche (dipendenti dal capitale estero e per questa via potenti estrattori di capitale locale), le imprese multinazionali estere, le classi dirigenti asservite e parassitarie”.
Amin teorizza una “strategia dello “sganciamento”, come nuovo percorso per lo sviluppo del Terzo Mondo”. Se il sistema capitalistico necessita della condizione di “sottosviluppo” del Terzo Mondo per la propria crescita incontrollata quantitativa, allora lo sganciamento dei Paesi della periferia permetterebbe di sperimentare un’alternativa di sistema che porti a un reale sviluppo, alla cui base ci sia un trasferimento di potere verso le periferie, ovvero i nuovi centri: “una specie di anti-globalizzazione attiva che è in relazione dialettica con la stessa globalizzazione”.
Tuttavia non è un processo automatico, il delinking ne è una condizione necessaria, ma non sufficiente.
Quindi il delinking è necessario per far sì che il Terzo Mondo esca dal sottosviluppo in cui si trova, ma anche che si indirizzi verso uno sviluppo qualitativo e non basato sulla quantità.
Il capitalismo può essere sconfitto, ma non nel centro, dove il sistema è più forte, bensì nell’anello più debole, ovvero la periferia. Qui il capitalismo opprime le popolazioni, dunque è necessario sviluppare margini di autonomia che, attraverso una transizione socialista, possano irreggimentare il mercato e piegarlo a una funzione di benessere sociale.
Hosea Jaffe si situa certamente nell’alveo della cosiddetta corrente marxista terzomondista del pensare decoloniale , la quale comprende un gruppo eterogeneo di studiosi che hanno affrontato, ognuno con le loro specificità il tema dello sviluppo dei paesi “arretrati”.
Sicuramente i più eminenti tra questi studiosi sono Samir Amin, Grunder Frank, Immanuel Wallerstein, Hosea Jaffe e Giovanni Arrighi, ma possiamo trovare anche David Harvey, che analizza il sistema mondiale soprattutto dal punto di vista geografico territoriale e pensatori indigenisti come Alvaro García Linera.
Per comprendere il pensiero di Jaffe, è altresì importante partire dal suo ultimo libro: Era necessario il capitalismo? Già dal titolo è evidente la provocazione di Jaffe, che risponde negativamente a questa domanda.
Qui, vorrei ricordare come tanti marxisti abbiano interpretato male questo testo, dove in realtà Jaffe dà una grande spinta al rinnovamento del marxismo, scrostandolo da certe impalcature storiciste a sfondo teleologico.
Infatti, da un punto di vista etico, i costi umani del Modo di Produzione Capitalista sono stati così elevati da mettere in dubbio la necessità di questo passaggio, considerato essenziale dai marxisti ortodossi quantomeno per l’accesso a uno stadio dialetticamente superiore: il socialismo.
Secondo Jaffe, il capitalismo non è affatto necessario per due ragioni. Da un lato, rappresenta il più criminale e il peggiore dei modi di produzione, dall’altro, e questo terrei a sottolinearlo, tutte le esperienze di delinking (per usare l’espressione di Samir Amin) e transizione al socialismo hanno avuto luogo in paesi dove il capitalismo non esisteva oppure cominciava appena ad affermarsi.
Si possono fare quattro esempi, che Jaffe aveva ben presenti: le rivoluzioni russa, cinese, cubana e vietnamita hanno avuto successo in realtà in cui permanevano il feudalesimo o perfino forme di comunismo primitivo/dispotismo comunitario.
E inoltre, il capitalismo è peggiore anche rispetto anche al dispotismo comunitario, talvolta indicato erroneamente come dispotismo asiatico, cui gli esempi più significativi possono essere rintracciati nelle grandi civiltà asiatiche e africane, ma non solo. Infatti, anche i grandi imperi degli aztechi e degli inca si fondavano su questa struttura sociale collegata al sistema di produzione comunitario.
Un altro elemento di grande interesse risiede nel fatto che, secondo Jaffe, la schiavitù non era una forma aliena al capitalismo. Prendendo in considerazione il mondo delle colonie, lo studioso sudafricano spiegava che «il modo di produzione adatto alla schiavitù era il modo di produzione borghese»
Secondo Jaffe, il capitalismo non si era affermato con la rivoluzione industriale, ma aveva altresì le proprie fondamenta nella spoliazione e lo sfruttamento delle colonie. La domanda democratica borghese di uguaglianza è futile e irrealizzabile se non si basa in generale sulla decolonizzazione, senza la quale non ci può essere uguaglianza.
Non ha senso applicare la politica della non collaborazione allo Stato neocoloniale senza applicare una politica di decolonizzazione ai capitalisti imperialisti.
La sinistra europea e in generale occidentalcentrica ha mandato in corto circuito la decolonizzazione usando l’argomento dell’uguaglianza.
Non solo. L’imperialismo si accompagnava necessariamente all’oppressione razziale e,come si è visto,all’ipersfruttamento.
Di conseguenza, il pensare « decoloniale » è forza dirompente di destrutturazione del discorso dominante dell’Occidente, ed è ampiamente più avanzato della critica al colonialismo.
Diciamo che il pensiero decoloniale integra (e completa) l’anti-colonialismo, nel senso che definisce la « colonialità » come un processo ben più articolato del colonialismo, fenomeno o rapporto attraverso il quale una società è privata della sua sovranità e delle sue risorse.
Jaffe si concentra sul fatto che la potenza dell’occidente, e quindi il suo essere militarmente ed economicamente dominante, è da far risalire al colonialismo, che ha portato al sistematico depredamento delle risorse degli altri Paesi. Il capitalismo è quindi un sistema che è in evidente contrasto con lo sviluppo umano.
Anche Jaffe quindi, in accordo con le teorie di Amin, riprende la necessità di un distacco. Egli definisce il sistema mondiale come Azienda Mondo, in cui i poli di dominio non sono tanto i Paesi del centro quanto le organizzazioni sovranazionale di cui il sistema si è dotato, come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale etc.
Il capitalismo sviluppa tutta la propria potenzialità non grazie a una superiorità tecnologica o politica, ma solo attraverso lo sfruttamento coloniale, la depredazione di ricchezze, l’importazione di manodopera di schiavi, a costo quasi nullo, e grazie allo sfruttamento indiscriminato delle materie prime.
Fatte queste premesse, la risposta alla domanda posta all’inizio non puo’ che essere positiva. Gli avvenimenti che s’impongono sulla scena internazionale dopo l’inizio della guerra in Ucraina – guerra della NATO contro la Russia – e fino a quelli recentissimi della fine della secolare egemonia francese nel Sahel e dell’insurrezione della resistenza palestinese contro lo Stato colonizzatore e segregazionista d’Israele, alludono a uno spostamento in fieri dei rapporti di forza sul piano internazionale.
L’alba di « una nuova architettura geopolitica planetaria » – espressione coniata dal presidente del Venezuela Nicolas Maduro, figura importante del movimento decoloniale – è ben visibile al di là della cortina fumogena innalzata dalla comunicazione deviante dei media mainstream. I popoli della Terra, quelli che stanno tentando di uscire da cinque secoli d’oppressione, ne sono la forza motrice.
Sottolieneiamo i « popoli » e non solo gli Stati, poiché la crisi che appare irreversible della vecchia struttura delle relazioni internazionali è l’inevitabile retaggio di un lungo corso storico apertosi alla fine del 15esimo secolo e inveratosi nella negazione radicale dell’identità, e della stessa esistenza, di un gran numero di popolazioni facenti parte di almeno tre quarti del genere umano.
Ci riferiamo al movimento decoloniale e non solo al pensiero decoloniale, dato che i due vanno di pari passo. La critica decoloniale, nella sua genesi, non è infatti un processo meramente intellettuale, opera di coscienze individuali. Essa si sviluppa negli anni ’90 e più precisamente nel 1992, con l’opposizione massiccia dei popoli autoctoni dell’America del Sud alle commemorazioni del quinto centenario della « scoperta dell’America ».
Questa puntualizzazione non mette in discussione, al contrario, l’importanza della circolazione delle idee di base di questa corrente di pensiero, comunque iscritta in un movimento di genti e di società situato alla soglia di un combiamento epocale dei rapporti di forza sullo scacchiere internazionale. Tanto più che, in Europa in particolare, la volontà di ridurre al minimo l’udienza del discorso decoloniale nei mezzi di comunicazione ufficiali è lampante.
E’ percio’ fatto rilevante la recente pubblicazione in Francia del libro Pensées décoloniales. Une introduction aux théories critique d’Amérique latina (Pensieri decoloniali. Un’introduzione alle teorie critiche d’America latina, febbraio 2023, Edizioni La Découverte).
L’opera può essere assimilata a un vero manuale, iniziatico ed esaustivo. I due autori, Lissel Quiroz, d’origine peruviana, storica e professore di studi latino-americani a CY Cergy Paris Université, e Philippe Colin, docente di Civiltà dell’America Latina all’Università di Limoges, hanno passato in rassegna tutti gli aspetti della colonialità, sottoponendoli alla critica puntuale del « mito eurocentrico della modernità » e a una meticolosa analisi di destrutturazione teorica: colonialità del potere, del sapere, dell’essere, del genere, della natura…
Nell’introduzione presentata sulla copertina del testo leggiamo che « La teoria decoloniale costituisce uno dei discorsi-faro del nostro tempo. Lontano dalle imprecisioni di cui è spesso oggetto, quest’opera, prima sintesi in francese della sua origine latino-americana, propone una geografia e una cartografia di un continente di pensiero misconosciuto in Europa.
Riunendo descrizioni storiche, profili di teorici (tra cui Gloria Anzaldua, Arturo Escobar o Anibal Quijano), estratti di testi non ancora tradotti, esegesi di concetti-chiave, questo libro offre un’introduzioen chiara, ricca d’informazioni e stimolante di uno dei filoni di pensiero più fecondi della teoria critica contemporanea.
La conquista dell’America, scena inaugurale della modernità capitalista, fu anche l’atto di nascita dei nuovi rapporti coloniali di dominazione che hanno strutturato una gerarchia planetaria dei popoli secondo dei criteri razziali, sessuali, epistemologici, spirituali, linguistici ed estetici.
Ora, questa colonialità del potere non è stata eliminata dalla decolonizzazione. Se se ne vuole uscire, bisogna (ri)conoscere le esperienze vissute da quelle e quelli che hanno resistito alle coercizioni di questi regimi, i saperi prodotti dai soggetti segnati dalla ferita coloniale»…
In sintesi: il pensiero decoloniale è la critica globale dell’Occidente-Mondo che si è costituito a partire dal 15esimo secolo con l’arrivo dei colonizzatori nelle Americhe. Un’impresa coloniale non limitata – come altre operazioni di colonizzazione precedenti o presenti a quell’epoca – all’invasione delle terre altrui e alla predazione delle risorse dei popoli che hanno subito questa invasione.
Essa è correlata, accompagnata e legittimata da un’operazione di egemonia totale sul piano intellettuale e culturale, tale da produrre « una gigantesca mutazione epistemica e geopolitica » (pagina 27).
Le cui procedure investono tutti i campi del sapere per imporre, a partire dal livello mentale, un modello di società e di cultura unico ed esclusivo. Tale modello ha per scopo, più o meno dissimulato, la dominazione etnica e razziale delle poplazioni assoggettate.
Gli autori fanno notare (pagina 38) come « la decolonizzazione avendo lasciato intatte le multiple relazioni razziali, etniche, sessuali, epistemiche, economiche che fondano l’asimmetria Nord / Sud… » sia necessaria la transizione a una seconda decolonizzazzione o, meglio, a mettere in atto un’operazione di decolonialità.
Guardando alle possibili soluzioni nel Terzo Mondo, secondo Jaffe il socialismo si può (e si deve) realizzare senza “passare” dal capitalismo, perché laddove c’è stato non si è avuta alcuna transizione al socialismo, cosa che invece è successa in zone povere del mondo, zone colonizzate e periferie del sistema borghese.
Inoltre il capitalismo non può aiutare la transizione perché responsabile dello sfruttamento del Terzo Mondo: perfino il proletariato occidentale, sostiene Jaffe, è corresponsabile e non sarebbe in grado, in caso di un conflitto mondiale, di schierarsi contro il proprio governo. Le stesse India e Cina, pur non avendo praticato lo schiavismo (che semmai hanno subito) sono cresciute sul colonialismo.
Jaffe inoltre teorizza la cosiddetta Azienda Mondo, ovvero un sistema capitalistico non più nazionale o globale, ma un sistema dominato dalle organizzazione sovrannazionali di cui egli stesso si è dotato come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, etc.
Il Terzo Mondo non può quindi chiedere aiuto all’Occidente, ma deve organizzarsi autonomamente, limitando ogni dipendenza neocoloniale.
Jaffe si concentra sul fatto che la potenza dell’occidente, e quindi il suo essere militarmente ed economicamente dominante, è da far risalire al colonialismo, che ha portato al sistematico depredamento delle risorse degli altri Paesi. Il capitalismo è quindi un sistema che è in evidente contrasto con lo sviluppo umano. Anche Jaffe quindi, in accordo con le teorie di Amin, riprende la necessità di un distacco. Egli definisce il sistema mondiale come Azienda Mondo, in cui i poli di dominio non sono tanto i Paesi del centro quanto le organizzazioni sovranazionale di cui il sistema si è dotato, come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale etc.
E’ evidente, per tutto quello che è stato affermato sin qui, che questa nuova sequenza della decolonizzazione -non certo riducibile ai movimenti statuali sovranisti, come quelli nel Sahel- deve mettere l’accento sull’aspetto culturale ( qui gli insegnamenti di Gramsci sono d’indispensabile supporto) e sulla decolonialità della natura.
Queste tematiche sono affrontate nelle parti finali del libro di Quiroz e Colin. Se nel capitolo consacrato al sapere, che fa riferimento ai lavori di Quijano negli anni ’90, si definisce la colonialità culturale come l’«inferiorizzazione delle forme d’espressione, di conoscenza e di apprendimento del mondo dei vinti del 1492», quello intitolato Approches décoloniales de l’écologie politique, ed in particolare il paragrafo su La colonialité de la nature: deux approches pionnières, apre degli enormi spazi di ricerca e d’azione pratica su un soggetto che s’impone con sempre maggior forza nel dibattito teorico e politico: la critica della concezione antropocentrica e l’urgenza de « la reintegrazione della natura nell’analisi delle dinamiche globali del capitalismo».
Un altro elemento di grande interesse, presente nell’ultimo libro di Jaffe Era necessario il capitalismo?, che Amin non ha fatto a meno di rilevare, era l’importanza che Jaffe aveva dato alla rivolta Taiping. Secondo Samir, Hosea l’aveva letta per quello che era, nonostante essa fosse «trés généralment ignoré», ossia l’antesignana della grande rivoluzione di Mao.
Si tratta di spunti di grande interesse, che effettivamente sprovincializzano il marxismo e lo rendono più attento alla complessità e alle traiettorie delle diverse esperienze umane.
Come abbiamo visto, nonostante le critiche e le incomprensioni di cui Jaffe fu vittima, segnatamente nell’ultima parte della sua ricca vita, Hosea non rinnegò mai Marx e, come si è detto, Lenin. La questione dell’imperialismo – sulla cui logica Jaffe ha scritto un volume insieme all’autore di quest’articolo e Henrike Galarza Prieto si accompagna nell’opera di Hosea ai temi del plusvalore negativo e delle teorie del valore in ambito coloniale.
Hosea era, del resto, consapevole che il fenomeno attuale della globalizzazione neoliberista e finanziaria.
Occorre ricordare in questo contesto la lungimiranza di Jaffe, il quale fu profetico nella sua critica alla costruzione dell’Unione Europea, accusando la Germania di aver avuto un ruolo oppressore nei confronti dei Paesi mediterranei, obbligandoli ad avere determinati parametri economici di sviluppo che avrebbero sicuramente influito sulle politiche sociali.
La colonizzazione e la dipendenza, infatti, è presente tanto nelle periferie del Sud globale quanto nell’aree (volutamente) “arretrate” del centro. Per questo motivo, l’ALBA Euro–Afro–Mediterranea (che prende a modello l’Alleanza Bolivariana per i popoli di Nuestra America, siglata tra i comandanti eterni Fidel Castro e Hugo Chávez) deve essere identificata
In questo senso, il progetto dell’ALBA Euro–Afro- Mediterranea si richiama tanto all’egiziano Samir Amin che all’africano Hosea Jaffe, i quali hanno compreso, meglio di altri, l’impossibilità di fare compromessi con la globalizzazione capitalista in quanto essa si basa sull’ipersfruttamento e la colonizzazione.
La categoria dei Sud – che in questo caso raccoglie tanto i PIGS, le considerate dai poteri forti come cicale del Sud Europa, quanto i paesi del Nord Africa – indica la necessità di partire dai subalterni e dagli ultimi, i quali vivono in prima persona e sulla propria pelle gli effetti più brutali dello sfruttamento.
La sfida dell’ALBA Euro–Afro-Mediterranea è quella dell’abbandono, del distacco dalle forme di democrazia rappresentativa borghese per intraprendere il percorso della democrazia politica ed economica partecipativa di base verso la transizione al socialismo.
La creazione di un’area che metta insieme le due sponde del Mediterraneo consentirebbe di rompere la gabbia dell’Unione Europea, che riduce, tramite la deindustrializzazione e l’indebitamento, i paesi del Sud Europa a riserve di servizi, vuoi agricoli, vuoi turistici, ancorando la dinamica dell’accumulazione a beneficio dei paesi del Nord.
Le piste da esplorare sono molteplici. Una è quella relativa alla Grande Separazione, sulla quale importa citare la suggestione dell’antropologo francese Philippe Descola: «Nessun altra cultura, a parte quella occidentale, ha fatto ricorso a una tale separazione, tra umani e non-umani, tra natura e cultura, o ancora tra natura selvaggia e società».
Da cui la classificazione delle discipline è, secondo il dottor Heinrich Rickert, uno dei passaggi decisivi di questa grande separazione e marca l’avvento delle scienze della cultura.
Su questo terreno della ricerca sono interessanti i lavori della filosofa Séverine Kodjo-Granvaux, secondo la quale è proprio la concezione di un’ecologia fondata sulla separazione ontologica uomo-natura il nodo da sciogliere per uscire dalla crisi planetaria, che la stessa modernità occidentale ha causato.
Si tratta al contrario di ripartire dal Cosmo e riscoprire l’interdipendenza e l’appartenenza dell’uomo al Tutto-Vivente. Questo approccio è peraltro peculiare delle tradizioni gnoseologiche africane, secondo le quali gli eesseri umani sono parte del Tutto, articolazioni dell’insieme connettivo del Cosmo.
Nella maggior parte dei casi infatti, le cosmologie africane, sudamericane, amerindiane, asiatiche e oceaniche condividono un rapporto simbiotico con il Cosmo, da cui si deduce che la separazione natura e cultura è una specificità occidentale.
Per concludere: la lettura del libro della Quiroz e Colin è indispensabile non solo per l’excursus storico dettagliato in cui si riassumono la genesi e il divenire dei «pensieri decoloniali» con i loro più importanti teorici, ma anche per il suo essere stimolante nel suggerire molteplici linee di ricerca per nuovi sviluppi della critica contemporanea dell’Occidente capitalista.
Noi pensiamo che tali approfondimenti siano necessari soprattutto sugli aspetti della colonialità della cultura e, ancor più, della natura. Essi aprirebbero la strada ad altri interrogativi e riflessioni.
Ci si chieda per esempio: che genere di « civiltà » è quella sorta sulla più grande catastrofe ecologica della storia e su i due più grandi crimini contro l’umanità che sono il genocidio degli Amerindiani e la Tratta degli Africani?
L’impressione è che le risposte a venire seguiranno il corso di avvenimenti relativi al movimenti dei popoli che da più di un anno e mezzo stanno mettendo in discussione l’ordine unipolare del mondo.
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