Il rapporto tra spontaneità e coscienza nell’epoca dello “sdoppiamento”
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Il rapporto tra classe sociale e organizzazione politica
La storia dell’epoca borghese dimostra che l’analisi teorica e l’organizzazione pratica della lotta di classe tanto più tendono ad avvicinarsi e a fondersi, quanto più diviene stretto il nesso fra spontaneità e coscienza, fra classe sociale ed organizzazione politica.
Può accadere allora – come accade nella fase attuale – che il rapporto fra classe sociale ed organizzazione politica, tanto per la borghesia quanto per il proletariato, anche se in termini radicalmente diversi, essendo per l’una un problema vitale di conservazione del potere e per l’altro un problema vitale di conquista del potere, diventi un nodo storico che deve essere sciolto politicamente nel breve periodo, a partire sia dallo stato presente dei rapporti sociali sia dal grado attuale di sviluppo delle forze soggettive.
Nell’epoca dell’imperialismo e delle rivoluzioni proletarie, nel periodo del revisionismo e del crollo dei regimi socialisti da esso diretti, ma anche, per quanto concerne l’Italia, nel momento attuale, in cui si manifestano i tipici connotati di una crisi organica delle classi dominanti, un discorso sul partito capace di coniugare il rigoroso modello leniniano con le soluzioni organizzativi offerte dal presente può incidere con forza sulla coscienza politico-ideologica del proletariato e sulla stessa disarticolazione del potere borghese.
La premessa da cui occorre muovere nell’inverare la prospettiva generale, che emerge dalla crisi mondiale del capitalismo, è la distinzione, stabilita da Lenin, tra la lotta economica (che è la lotta contro i singoli capitalisti o contro i singoli gruppi di capitalisti per migliorare le condizioni di lavoro degli operai) e la lotta politica (che è la lotta contro il governo per affermare ed estendere i diritti delle masse lavoratrici).
Tale premessa teorica è stata poi concretizzata, attraverso la prassi marxista-leninista della lotta di classe, in una unità indissolubile tra i due momenti. È quindi un chiaro sintomo del distacco fra la teoria della rivoluzione e l’azione del movimento operaio il fatto che, con la fine della Terza Internazionale e con il prevalere del revisionismo, i due momenti si siano divaricati in misura crescente, offrendoci il quadro della crisi attuale della lotta di classe, che, intesa in senso leniniano, è crisi di organizzazione e direzione di questa stessa lotta.
Il frutto amaro della marcescenza revisionista – cioè del gioco fra mediazione operaia dell’interesse capitalistico e mediazione capitalistica dell’interesse operaio – è visibile nelle conseguenze che quella divaricazione, cristallizzandosi, ha prodotto: da un lato, una pratica rivendicativa che, anche quando riesce a non farsi travolgere dalle manifestazioni concrete della lotta di classe, non può e non vuole offrire ad esse uno sbocco politico e, dall’altro, una pratica opportunista – quella seguita dai “partiti operai borghesi” – che propone sbocchi politici del tutto avulsi dai contenuti reali della lotta di classe. 1
2. “Vertice inaccessibile al campo avversario”
Sennonché concepire la distinzione fra lotta economica e lotta politica secondo il modulo di una rigida separazione significa oggi scambiare l’unità concreta dello scontro di classe con la gradualità del processo di formazione della coscienza di classe, cioè un problema di efficienza politico-sindacale con un problema di processualità storica: due problemi che solo la costruzione del partito può risolvere attraverso una mediazione concreta che superi tanto la cieca spontaneità del conflitto economico, per cui «il movimento è tutto e il fine è nulla», quanto l’astrattezza postulatoria del richiamo alla “vera” lotta di classe, per cui «il fine è tutto e il movimento è nulla».
In realtà, dopo che durante gli anni ’80 del secolo scorso il predominio del thatcherismo e del reaganismo non ha dato luogo né ad un liberismo effettivo né ad un keynesismo di ritorno, giacché le politiche economiche delle classi dominanti con una mano restituivano all’intervento dello Stato (ad esempio, per quanto concerne le spese pubbliche come percentuale del Pil) quello che con l’altra gli avevano tolto a livello di «capitalista collettivo», i processi d’integrazione sovrannazionale fra gli Stati capitalistici, così come i processi d’integrazione tra Stato e società, tra ceto politico borghese e classe sociale dei capitalisti, tra apparati ideologici di Stato e logica della produzione per il profitto hanno continuato ad operare, in quanto profondamente radicati nella struttura e nelle sovrastrutture del capitalismo monopolistico di Stato.
Da una parte, la scelta obbligata di quegli imprenditori che, per dirigere la transizione da un regime borghese di vecchio tipo ad un regime borghese di nuovo tipo, hanno svolto la loro attività politica in prima persona e, dall’altra, la privatizzazione non solo di settori della produzione economica, ma anche di settori della riproduzione sociale prima gestiti dallo Stato, forniscono prove inconfutabili circa il modo con cui il sistema del capitalismo monopolistico di Stato si è riorganizzando per affrontare una fase prolungata di precarietà, d’insicurezza e di crescenti conflitti interni ed internazionali.
Per queste ragioni, se è vero che bisogna pensare il “luogo” in cui opera il partito, cioè l’avanguardia cosciente ed organizzata del proletariato, in base alla topica che distingue il momento economico dal momento politico della lotta di classe, è altrettanto vero che, per evitare l’ingabbiamento della lotta di classe generato dalla meccanica separazione di quei due momenti, bisogna praticare il “tempo” della lotta come un unico tempo, in cui l’iniziativa di partito può produrre la conversione della crisi economica del capitalismo in movimento politico della classe operaia, ribaltando le rivendicazioni occupazionali, salariali e normative dei lavoratori in richieste di potere e contrapponendo all’arrogante pretesa capitalistica di ridurre il costo del lavoro l’affermazione proletaria della insopportabilità del costo del capitalismo.
Ma per praticare il “tempo” della lotta come un unico tempo è necessario, ancora un volta, il partito, cioè quel fattore di coscienza soggettiva che fornisce ad ogni atto di intervento della volontà rivoluzionaria il principio, la base ed il fine. Lo stesso Lenin, nella sua polemica contro l’economicismo, non ha esitato a parlare del partito come di un bisogno politico dotato della stessa urgenza dei bisogni economici delle masse lavoratrici: «Castriamo i bisogni più impellenti del proletariato e precisamente i bisogni politici», 2 se non incardiniamo il lavoro per costruire il partito di classe sul nitido convincimento che «il proletariato nella sua lotta per il potere ha una sola arma: l’organizzazione».
Proprio in questo senso diviene possibile affermare, rovesciando dialetticamente il nesso, prima sottolineato, fra teoria della rivoluzione e teoria del partito, che per Lenin è altrettanto condizionante il nesso fra partito e strategia.
Parimenti, se Lenin, enunciando la tesi secondo cui la coscienza socialista viene portata dall’esterno nel movimento operaio, afferma la necessità dell’autonomia teorica e ideologica del proletariato per giungere a realizzare la sua autonomia organizzativa, ciò non significa che egli neghi la necessità, non meno cogente, dell’organizzazione quale “conditio sine qua non” per garantire e mantenere la stessa autonomia teorico-ideologica.
Per un verso, come scrive Gramsci, «una teoria è “rivoluzionaria” nella misura in cui è elemento di separazione e distinzione consapevole in due campi, in quanto è vertice inaccessibile al campo avversario»; 3 per un altro verso, la strategia per la conquista del potere, che è il nocciolo duro del concetto di autonomia teorico-ideologica (un concetto che senza quel nocciolo svapora in una siderale astrattezza), si fonda sul presupposto che l’organizzazione sia la premessa (non il risultato) del processo rivoluzionario.
La dialettica interna a queste coppie concettuali può sembrare paradossale, ma diviene pienamente intellegibile se si tiene conto, in primo luogo, del fatto che l’organizzazione è la forma della mediazione tra teoria e prassi – elemento, questo, che spiega la portata teorica e strategica, non semplicemente politica, delle divergenze sui temi relativi alla natura, allo statuto e al programma dell’organizzazione, così come la necessità di una lotta conseguente e irriducibile contro l’opportunismo e il revisionismo che tendono proprio a colpire l’autonomia teorica e politica del partito proletario e a subordinarlo alla direzione della borghesia (due fenomeni di cui Lenin dimostra l’inevitabilità, ponendo in luce con la sua analisi scientifica le profonde radici che essi hanno nella società moderna) – e se si presta la dovuta attenzione, in secondo luogo, alla differenza che intercorre tra l’ideologia proletaria, cioè una concezione del mondo che si basa sui valori espressi dalla classe degli sfruttati nel corso della sua lotta per la conquista del potere politico, e la teoria marxista-leninista, che, in quanto teoria scientifica, è quello strumento per conoscere il mondo che permette al proletariato, diretto dalla sua avanguardia, di muovere alla conquista del potere politico – elemento, questo, che spiega come le posizioni di coloro che, consapevolmente o no, sottovalutano la teoria o se ne allontanano siano obiettivamente controrivoluzionarie.
3. Una “forma-partito vivente”
Sulla concezione leniniana del partito non è possibile soffermarsi, nell’ambito delle presenti riflessioni circa il modello organizzativo del partito rivoluzionario, tali e tante sono le interrelazioni teoriche, strategiche e tattiche di una simile tematica, che talora ha quasi ‘fagocitato’ altri aspetti del pensiero e dell’opera di Lenin, i quali vanno pur tenuti distinti da questa tematica.
Qui la sollecitazione di György Lukács a considerare in modo dialetticamente consapevole i termini storici in cui Lenin affrontò e risolse il problema della costruzione del partito, resta del tutto valida, al fine di non cadere in una sorta di ipostatizzazione della forma-partito leninista che, astraendo la teoria del partito dalle condizioni storiche e di composizione tecnica, sociale e politica del proletariato, tende ad assumerla come modello assoluto, indipendentemente dalle congiunture concrete della lotta di classe e dello sviluppo economico. 4
Resta nondimeno basilare il concetto di Lenin secondo cui l’organizzazione è la condizione fondamentale della strategia, poiché essa è il momento nel quale non solo si viene determinando la forza del proletariato, ma soprattutto la sua consapevolezza, in quanto attraverso l’organizzazione il proletariato si ricompone nella sua autonomia di classe rivoluzionaria.
Questo concetto, assolutamente fondamentale in Lenin, va ribadito nel suo legame con il concetto di formazione storica e con la sua analisi della situazione proletaria: situazione, esattamente come ai nostri giorni, di dispersione, di precarietà, flessibilità e mobilità, che può risolversi solo in virtù della funzione trainante dell’avanguardia in quanto coscienza e, quindi, momento di riunificazione interna del proletariato.
Si manifesta qui la duplice dialettica, oggettiva e soggettiva, ìnsita sia nel rapporto tra cicli economici e lotte di classe sia nel rapporto tra avanguardie di massa e avanguardie organizzate: dialettica che un partito leninista deve analizzare con la massima esattezza e utilizzare con la massima decisione come leva potente dell’azione rivoluzionaria.
Prende così forma e corpo, nella elaborazione di Lenin, il nesso teorico-pratico, dal cui vario e complesso articolarsi nasce quella “forma-partito vivente” di cui le masse abbisognano in vista di una lotta che, per essere all’altezza della situazione storica, non può mai essere azione puramente economica o semplice rivolta spontanea, ma deve ricomprendere la multiforme ricchezza e la polifonia degli antagonismi esistenti in un vettore unificante che ha come oggetto l’insieme dei rapporti di forza tra le classi, condensato nello Stato borghese e nei suoi apparati, e ha come obiettivo la loro distruzione-trasformazione: il partito come mezzo per “scuotere tutti i rami dell’albero sociale”.
Il leninismo, pertanto, acquista pienamente il suo significato come massima esemplificazione storica del rapporto teoria-politica nel marxismo, rapporto che non è solo d’integrazione reciproca o di scorrimento biunivoco, ma anche d’interconnessione dialetticamente contraddittoria, sì che l’essenza del metodo leniniano è, da un lato, in virtù di tale interconnessione dialettica, “l’analisi concreta della situazione concreta”, da cui sorgono soluzioni nuove ed originali dei problemi che la presente congiuntura pone a chi intende agire per trasformare il mondo; dall’altro lato, tale metodo non dimentica mai che il nuovo, per legge dialettica, nasce, si sviluppa e progredisce dal vecchio e che perciò l’analisi delle caratteristiche di un fenomeno non può mai prescindere dall’analisi della struttura fondamentale e del suo divenire storico (si pensi all’opera del 1899 che Lenin pose alla base della sua azione di dirigente del movimento di classe, Lo sviluppo del capitalismo in Russia). 5
In questo senso, va osservato che il modello leniniano di organizzazione scaturisce da un quadruplice sviluppo teorico sul piano economico, politico, filosofico ed organizzativo, esemplificato da testi quali Lo sviluppo del capitalismo in Russia del 1898, Che fare? del 1902, 6 Un passo avanti e due indietro del 1904, 7 Le due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica del 1905 8 e Materialismo ed empiriocriticismo del 1909: 9 uno sviluppo teorico che reca in ogni sua fase l’impronta leniniana e che trova il suo suggello definitivo nella conferenza di Praga del 1912 (VI Conferenza del POSDR), quando la frazione bolscevica si costituisce in partito sulla base di un’unità teorico-ideologica ed organizzativa ferrea. 10
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Il partito indipendente del proletariato rivoluzionario
I comunisti del primo quarto del XXI secolo hanno la possibilità, grazie ad un patrimonio scientifico e rivoluzionario gigantesco accumulato durante due secoli di lotte proletarie ed alcuni decenni di esperienze di costruzione di società liberate dallo sfruttamento capitalistico, di vedere più lontano, ma anche – con il potente ‘aiuto’ della crisi mondiale del capitalismo – di spingersi con l’azione oltre i confini raggiunti dai loro predecessori, per tentare ancora una volta “l’assalto al cielo”.
La grande scuola del proletariato è sempre la lotta, ed importante è saper imparare dalle sconfitte, perché proprio nelle sconfitte il proletariato, che è la classe sfruttata ed oppressa, impara a vincere. Perciò, è fondamentale ribadire il carattere scientifico del modello leniniano di organizzazione, carattere inscindibilmente connesso alla teoria materialistica dei tempi e delle forme del processo rivoluzionario.
Se il partito di classe è una forza che rappresenta gli interessi del proletariato rispetto a certi obiettivi che si devono raggiungere e a certi ostacoli che si devono superare, se il partito di classe si costituisce nell’adeguazione, storicamente determinata, tra il mezzo e il fine, dal sottolineare maggiormente i contenuti ed i valori del comunismo, anziché la dura necessità di abbattere lo Stato borghese, derivano concezioni del partito profondamente diverse.
Il partito che si attrezza per organizzare e dirigere l’attività delle masse è la negazione del partito che si pone messianicamente come utopica prefigurazione del comunismo. Anche in questo caso l’errore di principio fondamentale consiste nella confusione tra ideologia proletaria e teoria marxista-leninista, e quindi nel fraintendere l’effettiva funzione dei comunisti, i quali non vanno tra le masse a predicare, bensì ad organizzare scientificamente la rivoluzione socialista.
Entro il nuovo rapporto tra spontaneità e coscienza – che richiede di essere individuato nelle sue specifiche determinazioni a livello di organizzazione del lavoro, processi produttivi e riproduttivi, struttura del mercato mondiale e conseguente estensione del fronte proletario, giacché costante per tutto il corso del capitalismo è il rapporto, ma variabile storicamente, nelle diverse fasi di tale corso, è la forma in cui esso si esprime – diviene un fattore decisivo d’intelligenza teorica ed iniziativa politica conoscere non solo la composizione tecnica ed organica del capitale, l’esatta correlazione tra il ciclo economico e la crisi di sovrapproduzione assoluta, l’esatta misura in cui si realizza la legge della caduta del saggio medio di profitto, ma anche, il più profondamente e fedelmente possibile, la struttura e il comportamento della classe operaia, la sua composizione tecnica, sociale e politica. In tal modo, utilizzando l’insieme di questi dati relativi alle tendenze oggettive e soggettive del processo storico, il partito, come cervello collettivo della classe, può elaborare scientificamente la strategia ed articolarne praticamente l’applicazione a livello della tattica, mentre, come momento analitico della memoria di classe ed unità sintetica dell’agire presente, può connettere fra di loro le diverse fasi della lotta proletaria e trasformarle, ad un certo punto del ciclo economico e politico, in rivoluzione sociale.
Il compito del partito, in una situazione non rivoluzionaria, è allora quello di porre le basi del processo rivoluzionario, cominciando ad organizzare le forze soggettive. La consapevolezza che «tutte le armi per combattere bisogna prenderle nell’attuale società» 11 deve alimentare, assieme ad una grande chiarezza strategica, un forte realismo politico.
Così, un partito di classe che si attrezza per dare risposte all’altezza dei problemi posti dalla società tardo-capitalistica deve essere consapevole, ad esempio, del fatto che ci sono – e ci saranno sempre – gradi diversi di sviluppo politico all’interno del proletariato, tanto che la coscienza di questa classe – perfino nel corso di una crisi economica oggettiva – non si sviluppa sincronicamente e linearmente rispetto a tale crisi, né si sviluppa nella stessa misura in tutto il proletariato, vasti settori del quale non modificano il loro atteggiamento neppure in conseguenza dell’aggravarsi della crisi economica e restano perciò ideologicamente subalterni alla borghesia.
Opportunismo ed aristocrazia operaia, per converso, sono strettamente legati ad una precisa motivazione economica, che tuttavia, sul piano oggettivo, viene indebolita dal ridursi dei margini di redistribuzione dei sovrapprofitti monopolistici, che il capitalismo utilizza nella sua fase imperialistica per asservire con tutta una serie di concessioni quegli strati della classe operaia che si possono caratterizzare, in base ad un’analogia con gli strati immediatamente superiori alla classe operaia o immediatamente inferiori alla borghesia, come “piccolo proletariato” o “sottoborghesia”, e per farne il principale sostegno delle pratiche opportuniste tra le masse lavoratrici.
5. Lotta di classe proletaria e alleanze sociali
Come Lenin ha dimostrato, non esiste alcuna situazione – ivi compresa quella attuale – che non presenti, in sé e per sé, una via d’uscita, poiché, quale che sia la congiuntura in cui si trova il capitalismo, saranno sempre possibili soluzioni “puramente economiche” (non è stata forse questa la ragion d’essere degli ultimi governi del nostro paese?).
Si tratta allora di verificare il grado di realizzazione di queste possibilità, tenendo presente che esso dipende in gran parte dal proletariato, poiché è questa classe che con la sua azione può aiutare il capitalismo – per quanto è possibile su scala nazionale – a superare la crisi (ed è questo l’asse della politica collaborazionistica seguita dall’opportunismo partitico-sindacale nel nostro paese) oppure può sbarrare la via d’uscita dalla crisi (va da sé che le correnti centriste non puntano su questa possibilità, ma solo su di una “contrattazione” un po’ più esigente delle garanzie e delle forme con cui permettere al capitalismo di imboccare la via d’uscita dalla crisi).
D’altra parte, se inseriamo i movimenti del proletariato e della borghesia (le due classi che, nel nostro paese, si trovano a dover affrontare contemporaneamente, sia pure in modi e forme diversi, lo stesso problema, cioè la realizzazione della propria unità interna e la costruzione di un proprio blocco di alleanze sociali e politiche) nel contesto della crisi mondiale, possiamo rilevare che tale crisi è, per così dire, “surdeterminata” da un insieme di ripercussioni che si manifestano a livello di tutte le classi, che producono una inedita concentrazione di tutte le forze sociali e che fanno scricchiolare gli apparati di potere della società capitalistica.
Un crescente rilievo assume, a questo punto, il riconoscimento del ruolo che svolgono gli strati non proletari nel processo della rivoluzione. In effetti, una caratteristica della società capitalistica, che la differenzia da altre società del passato, è che la borghesia non detiene direttamente il potere e che per esercitarlo realmente essa è costretta a ricorrere ad altre classi (o frazioni di classe) e ad altri strati (si pensi al ruolo svolto dalla piccola borghesia, dai contadini e dagli intellettuali nel settore del pubblico impiego, nelle forze armate, nel sistema dell’istruzione ecc.).
Crescente importanza assumono, di conseguenza, nel corso della crisi, gli spostamenti di questi ceti intermedi (si pensi a tutta una serie di esempi attuali, che hanno, da questo punto di vista, un valore paradigmatico: dal populismo leghista al cattolicesimo centrista, dal meridionalismo giustizialista all’autoritarismo fascista): spostamenti che, malgrado le diverse maschere ideologiche indossate, sono riconducibili a reazioni spontanee determinate integralmente dalle leggi economiche, in quanto questi strati non hanno alcuna coscienza di classe che implichi un progetto di trasformazione dell’intera società, ma rappresentano solo interessi particolari di classe (difesi talora con l’istinto aggressivo del cane da guardia).
Va perciò considerato che il ruolo che questi strati svolgeranno nello scontro sociale, contribuendo a disgregare la società capitalistica oppure venendo utilizzati dalla borghesia, dipenderà in gran parte dalle scelte della borghesia e del proletariato (ma può anche accadere che la semplice esplosione di questi movimenti conduca all’aggravamento della crisi, bloccando le capacità di reazione della borghesia).
La costituzione del partito diviene, in una congiuntura simile, tanto più necessaria e risolutiva, quanto più risulta evidente che, nonostante la situazione della società borghese sia sempre più precaria, essa continua ad apparire a grandi parti del proletariato come una situazione stabile, quanto più il proletariato resta ancora, per molti aspetti, subordinato alle forme ideologiche e culturali del dominio borghese, quanto più si rivela impossibile, per il proletariato, l’acquisizione ideologica spontanea della prospettiva storica della dittatura del proletariato e del socialismo.
Decisivo, dunque, è l’intervento – organizzato e pianificato – della coscienza soggettiva, per potere spostare in avanti, a favore delle masse lavoratrici, i rapporti di forza tra il fronte proletario e il fronte borghese, fronti a geometria variabile, che si formano in modi assai vari ed anche caotici, fronti la cui formazione viene condizionata da mutamenti di tendenza non riconducibili meccanicamente né alla situazione di classe né all’ideologia degli strati coinvolti nella crisi.
Un’influenza determinante su tali mutamenti è invece prodotta dal contesto della crisi mondiale e dalla configurazione delle forze storiche, talché, alla luce di questo fondamentale fattore, non è affatto paradossale affermare, ad esempio, che, date certe condizioni oggettive e soggettive, interne ed internazionali, la resistenza palestinese rappresenta, nel corso del conflitto con lo Stato sionista israeliano, un movimento oggettivo di forze antimperialiste, mentre un grande “partito operaio borghese” – come il Labour Party – rappresenta un movimento di forze filo-imperialiste.
Del resto, i problemi legati allo sviluppo politico del proletariato e alla dimensione internazionale della sua lotta, alla necessità di estendere la direzione dei settori più avanzati di questa classe sui settori più arretrati, in una parola i problemi connessi all’unità politica del proletariato, sono tutti problemi risolvibili solo attraverso il partito e dentro di esso.
Parimenti, esiste un problema di egemonia del proletariato (non sulle altre classi) ma sugli altri settori delle masse lavoratrici, per risolvere il quale (e per orientare correttamente l’azione del partito) è indispensabile l’indagine teorica sulla differenza tra forme dirette e forme indirette del lavoro produttivo, indagine che apre lo spazio alla costruzione dell’egemonia del proletariato su tutto il popolo lavoratore. In altri termini, si tratta, sulla scorta di una rigorosa applicazione delle categorie marxiste allo studio dell’“attuale società” italiana, europea e mondiale, di identificare le forze motrici della rivoluzione socialista, avendo ben chiaro in mente che l’obiettivo non è quello di conquistare la maggioranza democratica del parlamento borghese, ma è quello di conquistare la maggioranza politica del proletariato per costruire un blocco di forze sociali da scagliare contro il potere borghese.
La realizzazione di un simile percorso strategico trova oggi alcuni grandi ostacoli, ma anche alcune notevoli opportunità, perché l’anomalia italiana e, quindi, la posizione di “anello debole” della catena imperialistica che caratterizza questo Paese sempre più fragile sono ancora in atto (ed una prova è costituita dallo scomposto e frenetico agitarsi di tutte le forze reazionarie per sopprimere questa anomalia e “normalizzare” la situazione interna con dosi massicce di americanismo, atlantismo, autoritarismo, bipolarismo ed euro-sciovinismo). Un grande ostacolo per la prospettiva rivoluzionaria va poi individuato nel ruolo svolto dalla Cgil quale principale vettore del processo di socialdemocratizzazione dell’intero movimento operaio: processo che richiede ai comunisti la straordinaria capacità di costruire subito una organizzazione alternativa e di agire per polarizzare intorno ad essa la maggioranza politica del proletariato. Tutta l’esperienza storica del movimento operaio dimostra, infatti, che, senza una organizzazione alternativa, la prospettiva rivoluzionaria è destinata a ristagnare per un lungo periodo, alimentando, come sta accadendo nella fase attuale, molteplici processi di “controrivoluzione preventiva”. Perciò, bisogna lavorare fin d’ora alla realizzazione di quel percorso strategico e alla costruzione dello strumento che permette di renderlo praticabile. 12
6. La “lotta sui due fronti” contro l’opportunismo
Nella fase politica che stiamo attraversando è vitale per le forze comuniste avviare un processo di ricomposizione capace di incidere, con eguale forza, sia sui terreni – strategicamente decisivi – della formazione culturale e degli orientamenti politico-ideologici delle nuove generazioni proletarie e studentesche, sia sui terreni – politicamente decisivi – della tattica immediata. Ma la «conditio sine qua non» per avviare una siffatta ricomposizione è la lotta, che va portata avanti con intransigente rigore sui princìpi, ma anche con grande spirito unitario sulla prospettiva, contro le due forme, complementari, dell’opportunismo revisionista e dell’opportunismo settario.
La lotta sui due fronti (contro il revisionismo socialdemocratico e contro l’estremismo settario, in cui si sostanzia, per l’appunto, l’opportunismo, loro comune radice) è infatti una necessità permanente del partito comunista, riconosciuta e posta sul giusto terreno da Marx, da Engels, da Lenin e da tutti i dirigenti rivoluzionari. Il socialismo scientifico è, in effetti, costantemente minacciato da una doppia deviazione sia sul piano teorico che sul piano pratico: una deviazione di destra e una deviazione ‘di sinistra’. Lenin, in particolare, ha definito i criteri con cui è possibile riconoscere le deviazioni e ha indicato il modo in cui si deve lottare contro di esse.
È un errore confondere la lotta sui due fronti con una posizione centrista, ossia eclettica (una sorta di aristotelico “giusto mezzo” fra le due posizioni “estreme”). Per non ridurre il significato del superamento di questa opposizione alla ricerca di una impossibile “terza via”, occorre individuare la radice comune del revisionismo e dell’estremismo, ancorando la lotta sui due fronti all’unico terreno che permette di superare in modo realmente dialettico l’opposizione: il terreno materialistico dell’“analisi concreta della situazione concreta”.
La formazione del leninismo è strettamente connessa alla lotta contro l’opportunismo, fonte e parte integrante di tutte le deviazioni: dall’economicismo che si manifesta nel periodo di fondazione del POSDR (1900~1905) al revisionismo e al socialsciovinismo che segnano il fallimento della Seconda Internazionale in coincidenza con la guerra imperialistica (1914-1918), sino alle diverse tendenze che confluiscono nella nascita della Terza Internazionale. La realtà odierna presenta alcuno analogie (oltre che con quella degli anni della reazione, che vanno dal 1908 al 1914) con quella degli anni che vanno dal 1914 al 1918, quando prevalsero in seno al movimento operaio le tendenze opportunistiche responsabili del crollo della Seconda Internazionale.
Come è noto, in seguito a tale evento Lenin e i bolscevichi abbandonarono la denominazione di “socialdemocratici” (denominazione originariamente adottata dagli stessi Marx ed Engels) ed assunsero quella, scientificamente corretta e politicamente inequivocabile, di “comunisti”. A partire da questa innovazione, che non fu solo terminologica (benché, quando si affrontano problemi che implicano la conoscenza del “presente come storia” e lo sviluppo del pensiero marxista, sia importante adottare una terminologia corretta), occorre anche oggi tracciare, tanto sul terreno della pratica politica quanto su quello della pratica teorica, una netta linea di demarcazione.
Ad esempio, nel campo dell’applicazione del modello teorico marxiano all’analisi della fase, sono possibili (e, in varia misura, si manifestano) due tendenze opportunistiche, cioè due forme di subalternità alla direzione ideologica della borghesia: una tendenza oggettivistica, che si sforza di elaborare una sorta di “economia politica” dello sviluppo imperialistico nell’intento di spiegare i fenomeni nuovi dello stadio attuale del capitalismo monopolistico di Stato e che mutua le sue categorie dalle concezioni teoriche dell’economia borghese; una tendenza soggettivistica, che concepisce il marxismo come una metodologia esclusivamente critica e non come una teoria scientifica autonoma, dotata di un proprio oggetto e capace di produrne una conoscenza positiva.
Va da sé che la critica marxista non ha nulla in comune con una negazione totalizzante, romantica ed utopistica, dello “stato di cose esistente”, mentre la negazione determinata costituisce, dal punto di vista oggettivo, il motore della dialettica materialistica e, dal punto di vista soggettivo, il momento in cui essa si appropria della forza dell’avversario per utilizzarla contro di lui. Infine, anche sotto il profilo meramente formale, non si può non riconoscere che il marxismo, in quanto teoria universale, è ‘condannato’ dalla sua stessa struttura logica a confutare e dissolvere le indefinite negazioni particolari che investono il carattere, per l’appunto universale, della sua prospettiva. 13
7. Il revisionismo: significato, genesi e fenomenologia
Ancora una volta è Lenin che ci indica il criterio per mezzo del quale è possibile individuare una deviazione: d’altronde, chi avrebbe potuto fornire indicazioni più stringenti, a tale proposito, se non colui che condusse, volta per volta, ma talora anche simultaneamente, una battaglia instancabile contro il populismo, il marxismo “legale”, l’economicismo, il menscevismo e l’estremismo?
I testi che fanno il punto sulla questione delle deviazioni sono quelli scritti da Lenin nel corso della lotta contro il revisionismo e contro la corrente dei “liquidatori”, che operò all’interno del POSDR dopo il 1905. Ivi Lenin analizza le cause che fanno del revisionismo (termine introdotto da Bernstein con l’intento di “correggere” e di “rettificare” il marxismo espungendone gli elementi “hegeliani”, “blanquisti” ecc.) un fenomeno generale, articolato in varianti nazionali che comprendono anche quelle ‘di sinistra’ (si pensi all’anarcosindacalismo).
«Che cosa rende inevitabile il revisionismo nella società capitalistica? Perché esso è più profondo delle particolarità nazionali e dei gradi di sviluppo del capitalismo?». Per rispondere a queste domande, da lui poste nell’articolo su Marxismo e revisionismo (1908), 14 Lenin riconduce la dinamica della teoria alla polemica e alla lotta contro le ideologie dell’avversario di classe (la lotta teorica di classe, già enunciata e praticata con grande chiarezza da Engels, poi ripresa e posta al centro del Che fare? da Lenin).
Quest’ultima non è un aspetto derivato e secondario della formazione della teoria marxista, bensì un aspetto necessario: infatti, la posizione teorica di classe non si costituisce all’esterno della lotta in una sorta di spazio astrale, ma sorge nel corso della lotta contro l’ideologia dominante che penetra nel socialismo. Pertanto, proprio perché la posizione di classe è una separazione in atto, lo sviluppo del marxismo non si configura come un prodotto asettico della teoria marxista, ma come l’effetto di una polemica tanto costante quanto inevitabile: anti-Proudhon, anti-Bakunin, anti-Dühring, anti-Kautsky, anti-Trotsky…
Lenin, nello scritto testé citato, individua il socialismo premarxista (la cui critica, straordinariamente attuale, è già svolta, per l’essenziale, nel III capitolo del Manifesto del Partito Comunista) 15 e il revisionismo come due forme storiche della stessa tendenza, talché, se la lotta contro il socialismo premarxista è stata la condizione interna della formazione del marxismo, la lotta contro il revisionismo diviene la condizione interna del suo sviluppo.
Ma quali sono le basi sociali di tale tendenza? Lenin mostra che «ciò che rende inevitabile il revisionismo sono le sue radici sociali nella società moderna», ossia la formazione, determinata dallo sviluppo stesso del capitalismo, di una piccola borghesia, di una piccola produzione mercantile accanto alla grande produzione capitalistica (laddove tale fenomeno non è un residuo precapitalistico, ma un aspetto permanente del modo di produzione capitalistico).
Lenin mostra, inoltre, che questo fenomeno è destinato a riprodursi anche dopo la rivoluzione proletaria, cosicché una linea continua unisce il periodo della lotta teorica di classe nel marxismo (cioè la lotta attuale tra il marxismo-leninismo e il revisionismo socialdemocratico) al periodo della lotta di classe nella dittatura proletaria.
8. I tratti distintivi dell’opportunismo
Dunque, quali sono le vie della penetrazione dell’ideologia borghese «sul terreno del marxismo»? Qui Lenin mette a nudo la radice opportunistica del revisionismo e dell’estremismo sia sul piano della dottrina (riguardo al processo di concentrazione capitalistica, alle crisi economiche, alle contraddizioni del capitalismo, alla teoria del valore-lavoro) sia sul piano dell’azione (riformismo, liberalismo, elettoralismo).
Ora, Lenin situa la genesi dell’opportunismo al centro del rapporto tra la teoria e la pratica, che è costitutivo del marxismo. La disarticolazione di tale rapporto produce le tipiche tesi dell’opportunismo (vuoi nella variante revisionistica vuoi in quella estremistica):
i) la negazione dell’inasprimento delle lotte fra le classi nel capitalismo dei monopoli (compendiata, ad esempio, nella tesi kautskiana dell’“ultraimperialismo”);
ii) l’incapacità di riconoscere il cambiamento della congiuntura, ossia il passaggio da un periodo pacifico ad un periodo di scontro rivoluzionario violento (all’inverso, l’errore dell’estremismo consiste nell’incapacità di riconoscere, quanto meno a parole, congiunture diverse da quelle proprie della lotta violenta); iii) l’incapacità di riconoscere la dinamica contraddittoria dello sviluppo ineguale del capitalismo nei differenti paesi e la possibilità della rivoluzione socialista nei paesi capitalistici arretrati (il trotskismo esprime questa tendenza con la teoria della “rivoluzione permanente”);
iiii) la deformazione della teoria marxista dello Stato, elemento comune a tutte le varianti dell’opportunismo (si pensi al rifiuto della teoria della dittatura proletaria da parte di Kautsky e Plechanov, così come al disconoscimento di tutte le forme storicamente concrete di esercizio della dittatura proletaria da parte degli estremisti di ogni tendenza). In definitiva, come Lenin chiaramente dimostra, ciò che caratterizza ed unifica tutte queste tesi è l’incomprensione della dialettica.
Non a caso, ciascuna delle tesi che Lenin contrappone all’opportunismo costituisce una scoperta ed uno sviluppo originale che produce nuove conoscenze nel campo della teoria marxista.
Ond’è che, nella critica a Kautsky e all’opportunismo Lenin ribadisce tre punti essenziali: a) l’opportunismo ha accantonato tutta una serie di testi di Marx e di Engels (in particolare, quelli che contengono le conclusioni che essi trassero dall’esperienza rivoluzionaria della Comune di Parigi); b) la conseguenza è che l’opportunismo ha spezzato il legame che connette la teoria della lotta fra le classi alla teoria della dittatura proletaria (in altri termini, è caratteristico dell’opportunismo riconoscere la lotta fra le classi, ma non dedurre da tale riconoscimento la necessità della dittatura proletaria); c) dunque, l’opportunismo appare marxista e rivoluzionario a parole, ma tale non è nella pratica (esso si serve di una fraseologia marxista per dissimulare il suo abbandono, nei fatti, del marxismo). 16
Dal processo teorico, politico ed organizzativo che congiunge il Lenin del Che fare? al Lenin dell’Estremismo, malattia infantile del comunismo 17 scaturiscono due basilari acquisizioni.
La prima consiste nel riconoscere che la manifestazione principale dell’opportunismo sul terreno della linea politica concretamente perseguita è l’economicismo (ossia un’interpretazione meccanicistica ed evoluzionistica del materialismo storico, in virtù della quale la lotta di classe viene separata dalla dittatura proletaria): economicismo che costituisce per un’intera epoca la deviazione interna fondamentale del marxismo.
La seconda acquisizione permette di spiegare il carattere, interno al marxismo stesso, di tale deviazione, che dipende dal fatto che così la teoria marxista come lo stesso proletariato non sono esterni alla società capitalistica e alle sue contraddizioni. L’opportunismo, in altri termini, ha una base politica negli stessi partiti operai, la cui storia dipende dal modo con cui è stata condotta al loro interno la lotta sui due fronti.
L’opportunismo ha, infine, una base economica nello sviluppo ineguale del capitalismo che, nella fase imperialistica, attraverso la spartizione e il saccheggio del mondo intero da parte del capitale concentrato in un pugno di paesi imperialisti, produce come risultato inevitabile la divisione della classe operaia e la formazione dell’aristocrazia operaia.
Da una parte, il dominio di tali paesi tende, nel suo insieme, ad aggravare lo sfruttamento per la maggioranza del proletariato (e ad estendere la proletarizzazione delle masse dei lavoratori non salariati nel mondo intero); dall’altra, tende ad attenuare lo sfruttamento di una minoranza del proletariato (sia pure provvisoriamente e illusoriamente, poiché anche gli alti salari corrisposti e i “posticini caldi” assicurati all’aristocrazia operaia sono una variabile dipendente dal tasso e dal ritmo dell’accumulazione del capitale).
La concezione dialettica di Lenin, tuttavia, non si limita a riconoscere nello sviluppo dell’imperialismo la base economica dell’opportunismo, ma mostra, nel contempo, l’inasprimento degli antagonismi di classe su scala mondiale, cioè non solo la base oggettiva della critica dell’opportunismo, ma anche la base oggettiva della tendenza rivoluzionaria.
9. La costruzione del partito comunista: il “rasoio di Lenin”
Se applichiamo i criteri leniniani di definizione dell’opportunismo al problema, oggi centrale (non solo in senso storico, ma anche in senso politico), della costruzione del partito comunista, possiamo tracciare, all’interno dell’area costituita dalle forze che riconoscono questo obiettivo, la discriminante che divide i rivoluzionari dagli opportunisti.
Sia la posizione che, a livello della pratica politica di classe, esclude dal riconoscimento della lotta di classe la necessità della dittatura proletaria, sia la posizione che, a livello della pratica organizzativa di classe, scinde la partecipazione al movimento di lotta delle masse lavoratrici dalla costruzione del partito hanno la stessa radice opportunistica: l’economicismo. Sia la posizione (oggettivistica) che affida al decorso naturale della crisi economica la formazione della coscienza di classe per costruire il partito, sia la posizione (soggettivistica) che proclama verbalmente la necessità della costruzione del partito ma non muove concretamente un solo passo in questa direzione hanno la stessa radice opportunistica, benché l’una moltiplichi le mediazioni e l’altra le abolisca in un colpo solo: l’economicismo, il quale genera il volontarismo, il quale rigenera l’economicismo… in una sorta di «cattivo infinito».
Il modo con cui viene posta la tesi della necessità di “ricostruire” il partito comunista condiziona il fine stesso e richiede pertanto un esame accurato, giacché – come asserisce un proverbio tedesco – il diavolo si nasconde nei particolari. Così, subordinare il percorso della “ricostruzione” del partito ad una specie di ‘referendum’ fra le diverse istanze soggettive è un modo di vanificare, attraverso una procedura democraticistica, il fine cui si tende, poiché in nessun caso un partito rivoluzionario può nascere da una consultazione (e men che meno da una votazione) fra gl’individui, i gruppi e le organizzazioni esistenti.
Altrettanto erroneo è il modo di procedere di chi, pur affermando la necessità di “ricostruire” il partito confonde, in nome della giusta esigenza di ancorare tale processo alla pratica sociale, l’istanza del partito, cioè della sintesi teorica e politica delle esperienze del movimento di classe, con l’istanza, che è differente sia per grado che per natura, del fronte unito e degli organismi rivoluzionari di massa.
Ciò che i romantici soggettivisti (i quali scambiano i loro desideri con la realtà) e i rinunciatari oggettivisti (i quali scambiano i limiti esistenti con l’impossibilità di agire) non sono in grado di comprendere è il nesso dialettico fra teoria e pratica, fra scienza e programma, fra previsione e volontà: il nesso dialettico in virtù del quale la realizzazione della tendenza oggettiva… dipende dall’azione soggettiva del partito.
Accade allora che gli uni (gli oggettivisti), ritenendo impossibile o non influente l’azione delle forze comuniste oggi esistenti, separano la previsione morfologica (ossia l’analisi obiettiva delle tendenze di sviluppo del capitalismo) dalla previsione teleologica (ossia dall’individuazione delle possibilità di intervento soggettivo che la specifica congiuntura della lotta di classe offre) e riducono la loro iniziativa ad un’opera di apostolato teorico svolta nelle “nicchie” che il disarmo teorico e la confusione ideologica dell’opportunismo rende accessibili; gli altri (i soggettivisti) confondono la teoria con l’ideologia e fanno di quest’ultima un succedaneo giornalistico della pratica sociale e politica di classe.
Vi è, infine, la posizione delle tendenze comuniste interne ad organizzazioni neorevisioniste, le quali si trovano già, e sempre più si troveranno, a dover optare fra l’integrazione opportunistica e la scissione organizzata: non è intatti possibile volere il fine senza volere i mezzi (volere la dittatura proletaria senza volere il partito marxista-leninista).
La crescente mobilitazione delle masse lavoratrici contro il governo reazionario, la “miseria” strategica e progettuale dell’opportunismo, l’acuirsi della crisi economica, l’aggravarsi della concorrenza fra i paesi imperialisti e l’allargarsi dei conflitti militari dimostrano con la lezione inconfutabile delle cose stesse la necessità e l’attualità della costruzione del partito comunista.
Il salto verso l’organizzazione rivoluzionaria procede oggi dalla stessa composizione sociale e politica di classe: il proletariato vincerà la prima grande battaglia contro la borghesia, quando la sua avanguardia cosciente, avendo sconfitto l’economicismo interno alla classe e le molteplici, ma convergenti, forme di opportunismo, cioè di subordinazione teorico-politica alla borghesia (e, segnatamente, alla piccola borghesia), avrà acquisito la teoria marxista-leninista, avrà imparato ad usarla sia per compiere analisi scientifiche della realtà specifica sia per individuare, su tale base, le forze motrici della rivoluzione socialista, avrà elaborato un progetto di programma e si sarà dato una linea politica rivoluzionaria.
10. Il riccio e l’imbroglio dello “sdoppiamento”
Per il marxismo la storia non è un progresso verso una maggiore umanità e libertà, ma solamente un aumento della possibilità di tale progresso. Non esiste infatti alcuna “legge dell’essere” che garantisca l’invincibilità di ciò che è più alto, cosicché, proprio come Marx ed Engels affermano, alla luce dell’esperienza storica, nell’‘incipit’ del Manifesto del partito comunista, anche la lotta fra la borghesia e il proletariato può finire «o con una trasformazione rivoluzionaria della società o con la comune rovina delle classi in lotta». 18
Un’esemplificazione particolarmente originale di questo punto di vista, che situa nella giusta prospettiva anche il discorso sulla necessità e sull’urgenza della costruzione del partito, è ricavabile dal “racconto del riccio e della lepre”, ossia da una graziosa fiaba dei fratelli Grimm, di cui si può fornire una efficace reinterpretazione filosofica in chiave marxista. 19
Si tratta della fiaba della lepre e del riccio, dalle zampe storte ma furbo di tre cotte, che la domenica mattina se ne va a passeggio per i campi e propone alla lepre, che ancora una volta lo sfotte per via delle sue “gambe sbilenche”, una gara di corsa fra i solchi dei maggesi. Sennonché il riccio, prima che abbia inizio la gara, se ne torna a casa, poiché a stomaco vuoto non saprebbe correre bene.
In realtà, lo scopo è quello di prendere con sé madama Riccio, che, come tutti sanno, ha lo stessissimo aspetto di suo marito, e poi appostarla all’estremità superiore del solco, mentre egli prende posizione in quella inferiore accanto alla lepre; dopodiché, ha inizio la corsa. Com’è noto, la lepre cade lunga distesa nel trabocchetto tesogli dal riccio: corre e corre nel suo solco per raggiungere il riccio che, da una parte e dall’altra, è sempre là, e alla fine la povera lepre corre tanto e poi tanto su e giù per il campo, da non poterne più.
L’interprete marxista può avvalersi della fiaba, ponendo in rilievo che la lepre, controparte zoomorfica di un certo movimentismo acefalo che caratterizza i conflitti sociali odierni, corre e corre fino a sfinirsi nella corsa, mentre il riccio vince con un trucco che gli risparmia la fatica del correre. Ciò nondimeno, la scelta a favore della lepre è, da parte del marxista, la scelta di entrare nel campo della storia, che si può attraversare solo correndo e gareggiando, in mezzo al contrasto e alla lotta.
Nello stesso tempo, la scelta di entrare in questo campo e di schierarsi con la lepre può essere interpretata come l’espressione della volontà di smascherare criticamente la sicurezza della classe dominante, la quale ritiene non solo di essere immune, ma anche di restare indifferente all’antagonismo potenzialmente eversivo che si esprime nell’azione conflittuale.
A questo punto, le due posizioni dei ricci possono simboleggiare, nel contesto ideologico che è proprio della borghesia, da un lato il carattere speculare del bipartitismo competitivo con cui essa maschera la sua posizione dominante facendo passare come differente nella forma ciò che è identico nella sostanza, e dall’altro lato la sicurezza della propria posizione di classe egemone, che le deriva dal fatto che, ritenendo di controllare entrambe le estremità della strada (della storia), non ha più bisogno di percorrerla.
Dal canto suo, la lepre (che simboleggia il conflitto sociale prodotto da un soggetto non ancora giunto allo stadio della presa di coscienza della necessità di lottare per la conquista del potere politico) corre, ma essendo priva di una strategia e di una tattica che non siano quelle interne ai vincoli, sia reali che illusori, posti dall’apparato istituzionale del dominio borghese, non è in grado di rovesciarlo e di trascenderlo, e il riccio può starsene seduto, nell’imbroglio del suo “sdoppiamento”, ben insediato ai posti di comando e smistamento della storia.
Insomma, la lepre corre e i due ricci sono “già sempre là”: con la loro trascendentale onnipresenza essi prima sfiancano la lepre con un “falso movimento” e poi, al prezzo di uno scambio di identità e di una tautologia, la riducono allo sfinimento (in questo consiste la funzione storica del revisionismo).
Sennonché la lepre proletaria riuscirà a percorrere fino in fondo la strada della storia, oggi bloccata dalla borghese famiglia dei ricci, ad un’unica condizione, la cui natura ipotetica è, fuor di metafora, ormai evidente: che la classe sfruttata ed oppressa si liberi dall’imbroglio dello “sdoppiamento” e si renda cosciente, traendone tutte le conseguenze operative, del fatto che «la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società». 20
1 Una valida impostazione di questo tema si trova nel seguente articolo: https://www.lordinenuovo.it/2020/04/21/il-metodo-di-lenin-nella-costruzione-del-partito-rivoluzionario/.
3 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino 1975, p. 435.
4 Cfr. https://gyorgylukacs.wordpress.com/wp-content/uploads/2013/01/lukc3a1cs-gyc3b6rgy-lenin-1967-or-1970-it.pdf.
12 Cfr. P.-Ph. Rey, Le alleanze di classe, Milano 1975.
13 Sulla necessità permanente della “lotta sui due fronti” si veda la magistrale messa a punto di Pietro Secchia: https://www.resistenze.org/sito/ma/di/cp/mdcpdf29-013076.htm.
16 Cfr. https://www.piattaformacomunista.com/lenin_La_rivoluzione_proletaria_e_il_rinnegato_Kautsky_1918.pdf.
18 K. Marx-F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Torino 1964, p. 100.
20 Karl Marx, L’ideologia tedesca, Roma 1991, p. 29.
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