E non si può non vedere il dispiegarsi della stessa cultura politica – o del “medesimo disegno criminoso” – nel voto alla Camera sul “conflitto di attribuzione” e nella proposta di legge costituzionale per abolire il divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista (al Senato).
“Cultura” fascista in senso stretto, in entrambi i casi, che punta direttamente a due pilastri della Costituzione. Nel caso della Camera c’è un tentativo eversivo a suo modo “sottile”, giocato in punta di diritto sul piano giuridico e con l’ascia della forza parlamentare. Imporre a un ramo del Parlamento di chiedere alla Corte Costituzionale una decisione sul fatto che “il giudice naturale” del presidente del consiglio – per un reato comune come la concussione – sia il tribunale ordinario o quello dei ministri è più di una “forzatura”. La legge e i precedenti sono infatti abbastanza univoci: una simile decisione è da sempre affidata alla Cassazione. Sarebbe stato sufficiente, agli avvocati di Berlusconi, sollevare nell’aula di Milano l’obiezione per veder partire la richiesta di parere in quella direzione.
Il Cavaliere ha invece voluto fermamente investire la Corte Costituzionale per aprire un conflitto tra poteri dello Stato. Non può seriamente sperare che la Consulta gli dia ragione. Quindi lo ha fatto per poter allineare sul fronte dei suoi “nemici politici” tutti i poteri indipendenti dai suoi: magistratura, Corte Costituzionale e Quirinale. Lo fa mettendo in campo come un sol uomo le armate di cui dispone: il potere esecutivo (il governo di cui dispone in piena libertà), il legislativo (dopo aver ridotto il Parlamento a una “Camera da letto”, come giustamente titola oggi il manifesto) e il mediatico (che la Costituzione repubblicana riteneva di aver “diffuso socialmente” con il riconoscimento della totale libertà di stampa).
Lo fa sapendo, come teorizzava Carl Schmitt, che i custodi ultimi della Costituzione hanno dalla loro la sola forza dell’autorevolezza; ovvero del semplice apparire, oltre che essere, assolutamente fuori dal conflitto politico quotidiano. Con questa mossa l’armata berlusconiana intende quindi non solo “ritardare” al massimo un processo infamante come pochi altri (un vecchio che ricorre a prostitute minorenni), ma soprattutto “abbassare” ad attori politici – non più “terzi” – gli organi di garanzia. Disarmati, naturalmente.
Lo squilibrio di forze è palese. E soprattutto non esistono, dopo quest’ultima trincea, altri “contropoteri”. Se non il popolo, con gli strumenti e la coscienza di cui dispone.
La contemporanea sortita, al Senato, di sei nostalgici nazifascisti ansiosi di liberare qualche sodale più scapestrato da processi vecchi e nuovi, o di promuovere nuove “caserme culturali”, è il sugello esplicito – fin troppo esplicito, se dobbiamo davvero credere all’imbarazzo di Renato Schifani – di un’operazione condotta a tutto campo. E che certifica come quell’aula “sorda e grigia” abbia di nuovo trovato qualcuno capace di farne una caricatura boccaccesca, ma non meno pericolosa, dell’antico “bivacco di manipoli”.
A tutto questo si sono opposte molte parole indignate e tre piccole manifestazioni democratiche, ieri, incentrate dagli organizzatori sul solo rispetto dei “limiti formali” della democrazia liberale. Come se proprio qui, dove hanno ricevuto lodi, riconoscimento, incitamento e persino qualche “interventismo umanitario”, le rivolte arabe non avessero insegnato niente.
I dittatori, anche quelli solo “aspiranti”, non si battono nel loro parlamento. Ma solo fuori. Sollevando il disagio sociale all’altezza della sfida che c’è.
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