Adriano Sofri è un uomo dalla coscienza sporca. Non lo diciamo pensando agli otto gradi di giudizio (otto, non tre come i cittadini ordinari) che ha affontato prima di venire condannato in via definitiva per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, mentre collaborava sin problema col figlio, allora caporedattore centrale di Repubblica e oggi direttore de La stampa (quotidiano come abbiamo detto più volte, notevolmente migliorato nelle sue mani). Lo affermiamo in virtù di quel che fa e scrive da quando – fin dai tempi in cui, lui, ex leader di Lotta Continua – era diventato il consigliori di Claudio Martelli, braccio destro del Craxi che si andava a prendere le monetine all’uscita dal Rafael.
Non c’è stata «guerra umanitaria» – dal Kosovo in poi  che non lo abbia visto tra i commentatori entusiasti. Sofferti spesso, entusiati sempre.
Stavolta, se possibile, si è superato. Inneggia  su Repubblica, ma avrebbe fatto lo stesso di Il foglio di Giuliano Ferrara  alla «polizia del mondo». Ovvero all’intervento in Libia di alcune frazioni della Nato, riluttanti persino gli Stati Uniti. Prendiamolo sul serio.
«Bisognerà ammettere che il progetto – il sogno, se preferite – di una polizia internazionale esce molto contraddittoriamente da questa prova». Perché «l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza è stata largamente oltrepassata dall´azione degli alleati maggiori e della Nato». Sofri è uomo di mondo. Conosce la distanza incommensurabile tra i princìpi e la prassi. E quindi non nega  come farebbe un Capezzone o un La Russa qualsiasi – che tra quel che l’Onu aveva obtorto collo accettato e la realtà dell’intervento ci sia uno iato incolmabile. Ma lui lo rivendica. Non si può fare altrimenti, spiega con fare sofferto, e «la controprova sta solo nel fatto compiuto».
Prendiamolo sul serio. Una «polizia del mondo» – desiderabile o meno che sia – non è legittimata da alcun potere politico e tantomeno giuridico. Sofri, come Obama o qualsiasi altro uomo dalla coscienza sufficientemente sporca  lo sa. Ma «vogliamo farla e la facciamo». Non è una citazione, solo una conseguenza. Del resto veniamo da una cultura critica in cui è la forza a precedere sempre il diritto. Per un liberale come Sofri, però, dovrebbe essere il contrario.
Non c’è un potere politico legittimo (l’Onu dipende da rapporti di forza altamente variabili, tanto che Israele è l’unico paese che non ne abbia mai rispettato alcuna risoluzione senza peraltro mai incorrere in alcuna sanzione; singolare, quanto meno, su un piano stettamente giuridico; non è vero, dottor Sofri?), ma ci non impedisce di prendere decisioni «costituenti un novo ordine giuridico basato esclusivamente sulla forza». Pardon, sul «fatto compiuto».
Né Sofri dà infatti importanza al fatto che, in questo universo giuridico zoppicante, non solo la piccola Israele, ma anche i dominanti Stati Uniti si siano posti fuori dal perimetro dell’ordinamento; non accettando alcuna riduzione di sovranità militare sulle proprie scelte.
Sofri è un uomo di mondo, e ride anche del fatto che ci possa essere – sulla Libia – un problema di petrolio, pur sapendo che un problema di petrolio esiste. «Ma Gheddafi era per noi il più affidabile dei benzinai!», mica vorrete sospettarci di volerlo espropriare! Excusatio non petita, mr. Sofri. Lei sa meglio di noi  forse solo per i rapporti con l’Eni – che le royalties (le percentuali) pretese da Gheddafi erano molto alte a confronto con le usanze internazionali, peraltro con un greggio estraibile a basso prezzo.Le due cose (basso prezzo e «cagnotta alta» per il regime) potevano convivere tranquillamente fino alla crisi; ora è meglio avere lì qualcuno che «pretenda meno». Un Cnt, insomma, che convalidi i contratti in essere tagliando le royalties. La «coscienza sporca», mr. Sofri, non è nata con l’ideologia…
Ma concludiamola pure qui. Nemmeno la «finzione» di un «attacco dall’aria», che non doveva comportare discesa a terra di uomi e mezzi Nato, viene difesa davvero dal mister. Sì, è vero, siamo andati oltre il mandato Onu. E va bene così. Del resto, «quella scelta dall’alto è lontana da uun’azione di polizia (in effetti somiglia di più al killeraggio da generale Custer con i bisonti o i pellirosse, ndr), e più ancora da un’azione che voglia essere preventiva e di interposizione». Troppa fretta, mr. Sofri. Lei sta confessando, qui, che desidera un’azione coloniale assai più specifica, che preveda truppe di terra Nato. Naturalmente  e ci mancherebbe  per interporsi tra ribelli e esercito regolare (quale, di grazia, se il secondo è andato giustamente distrutto per venire incontro ai suoi desideri?), per «fare polizia» senza altre mediazioni.
Resta in piedi al domanda principale: dove risiede il «potere legittimo» che  in una dottrina liberale, almeno – governa l’«uso legittimo della forza»? A questo lei non dà mai risposta. Preferisce soffermarsi dolorosamente presso i dolori atroci che ogni guerra provoca e scoperchia. Nel suo dire, la «legittimità democratica» è data per autocertificazione dalle potenze che decidono di agire. Come se la prassi elettorale interna ai singoli paesi belligeranti contro «il tiranno di turno» fosse estensibile en passant anche ai paesi invasi. Pardon, «umanitariamente liberati».
Coerentemente, lei conclude prendendosela con «i nemici di principio di ogni ingerenza, i beffatori dell’aggettivo ‘umanitario». Gentaglia che osa consigliarle di riflettere sulle possibilità di un «gheddafismo senza gheddafi o di un’avanzata islamista» (non proprio il più desiderabile degli esitim ce lo consenta). Noi ci collochiamo tranquillamente tra i suoi bersagli, e troviamo particolarmente oscena la sua chiusura: «â€Siamo liberiâ€, abbiamo gridato da noi nel 1861, o nel 1945: la percentuale straniera era stata molto forte, ma furono belle giornate». Si può non distinguere tra nazifascismo e dittature mediorientali, certo. Ma dovrabbe provocare  in lei  un po’ di vergogna.
Ecco, dunque. Non sappiamo come funzionassero le cose nella sua Lotta Continua (pur serbando affetto e rispetto intatti per i molti compagni che vi hanno fatto esperienza). Ma sappiamo per certo che l’italiana «democrazia limitata» di cui lei oggi si erge a tardivo campione non fosse affatto tra i princìpi costitutivi accertati della sua orgamizzazione. Se non altro perché  come la magistratura ha accertato dopo otto gradi di giudizio (otto, non tre come per i cittadini ordinaru)  che lei è stato tra quelli che hanno dato ordine di prendere anche le armi per contrastarla.
Ne è «pentito»? Lo sospettiamo. Proprio per questo le si attaglierebbe meglio il silenzio. Su qualsiasi argomento di pubblica rilevanza. Italiano e non.
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Il testo dell’editorale di Adriano Sofri, oggi, su Repubblica.
“LA POLIZIA DEL MONDOâ€, di ADRIANO SOFRI
24 agosto 2011 di giovannitaurasi
ADRIANO SOFRI da La Repubblica del 24 agosto 2011
Quasi sei mesi: sembravano senza fine, e ora passano per brevi e rapidi. In soli sei mesi, dice Obama, si è abbattuto un regime che durava da 41 anni. In questi mesi ciascuno dei protagonisti occidentali ha vacillato, soprattutto per le pressioni interne. Ma a quel punto una ritirata che si rassegnasse alla permanenza di Gheddafi al potere, anche solo della Tripolitania, sarebbe stata catastrofica. Per Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, per le Nazioni Unite, e soprattutto per la gente che si era ribellata. Augurarselo era affare di irresponsabili o di nemici così superstiziosi dell´arroganza occidentale da simpatizzare per la tirannide sanguinaria di un buffone. A fomentare la superstizione non mancavano i motivi, a cominciare dalla confidenza che tanti governi occidentali avevano accordato al buffone sanguinario. In Italia, quando era sbarcato coi pennacchi e arruolato le belle da 80 euro a lezione di Libretto Verde; a Parigi, dove aveva piantato la tenda a palazzo Marigny, e a B-H. Lévy che lo chiamò terrorista in visita di Stato, Sarkozy replicò: «Ci sono intellettuali che prendono il caffè in Boulevard Saint Germain, danno lezioni, ma non si sporcano le mani e non prendono rischi». Ne trassero conseguenze diverse, dal momento che alla feroce repressione del Raìs, Berlusconi farfugliò: «Non lo voglio disturbare», e Sarkozy decise di farla finita con lui, e di fare di Lévy il suo battistrada.
Bisognerà ammettere che il progetto – il sogno, se preferite – di una polizia internazionale esce molto contraddittoriamente da questa prova. L´autorizzazione del Consiglio di sicurezza – a un passo dall´invasione punitiva contro la ribelle Bengasi – è stata largamente oltrepassata dall´azione degli alleati maggiori e della Nato. La protezione dei civili è diventata l´abbattimento del regime. La contraddizione è largamente inevitabile nel sistema di relazioni internazionali. Chi mira a sottrarvisi escludendo ogni intervento di forza fuori dai confini della cosiddetta sovranità nazionale rischia di farsi complice, attivo o per omissione, di crimini immani. La controprova sta solo nel fatto compiuto.
Che cosa sarebbe accaduto della popolazione indifesa di una grande città come Bengasi, di lì a qualche ora? Sarebbe accaduto o no quello che Gheddafi e i suoi ferocemente giuravano? Non si sarebbe parlato di Srebrenica se Srebrenica fosse stata prevenuta, né del Ruanda se si fosse impedito il meticoloso indisturbato sterminio. Il mondo aveva una dichiarazione universale dei diritti, e almeno in una sua parte (mancano perfino gli Stati Uniti) si è dotato di un Tribunale Internazionale. Non di una polizia capace di un´efficacia universale e anche solo larga. Immaginate uno Stato in cui i tribunali non contino su una polizia efficace; o uno Stato in cui i criminali vengano affrontati solo se non siano troppo potenti. Succede, direte: ma almeno bisogna concordare che non debba essere così. In Libia si è intervenuti per una serie di cause. A qualcuno il massacro iniziato e quello annunciato sarà pesato, speriamo. Obama voleva mostrare di stare dalla parte della primavera nordafricana. Sarkozy era impopolare, e veniva da una sequela di figuracce, in Costa d´Avorio, in Tunisia – dove la sua ministro degli Esteri faceva vacanza durante la ribellione ventilando la collaborazione della gendarmeria francese con Ben Ali. Sarkozy forzò la mano: la Lega Araba, il Qatar, gli Emirati, gli tennero dietro. Arrivò a proclamare l´impegno giacobino della Francia «ovunque siano minacciate la libertà dei popoli e la democrazia». Altri, fra i regimi musulmani della regione, oscillavano fra l´arruolamento e la paura che toccasse a loro. Caduti Tunisia ed Egitto, la Siria di Assad resisteva e resiste, al costo di migliaia di vite spente a cannonate, e la resistenza di Gheddafi era il suo puntello principale: ora lo perde. Perché, obiettano gli antinterventisti di principio, in Libia sì e in Siria no? Per il petrolio? Ma Gheddafi era per noi il più affidabile dei benzinai. In Siria sì, vorrei dire, benché ne veda la difficoltà . E allora, perché in Libia sì e in Siria sì, e nella Cina del Tibet o degli Uiguri no? Perché la forza possiede ferocemente il mondo, ed è già molto riuscire a limarle le unghie, e strapparle il nome di diritto. La polizia internazionale costretta a usare i mezzi spropositati della guerra piuttosto che quelli proporzionati alla legge e al fine, e che deve fermarsi davanti a un criminale troppo potente, ha un solo esito, prima o poi: la guerra mondiale. E bisognerebbe tenerla in considerazione, coi tempi che corrono, l´eventualità che torni attuale la vecchia sporca nozione di guerra mondiale. I mezzi: la prima condizione che le Nazioni Unite si affrettano a decretare al momento di intervenire è che «non ci sarà alcuna azione di terra». Non ho competenze militari e tecniche, ma il ritornello dell´esclusione di ogni «azione di terra» è un feticcio ingiustificato, e anche odioso. La “comunità internazionale†agisce dall´alto dei cieli – l´apoteosi dei droni, che cancella ogni fisionomia umana – e lascia per definizione la terra ai suoi abitatori, alle ciabatte e le raffiche della gente dabbasso. Oltretutto è una finzione: hanno calcato la terra di Libia istruttori e forze speciali di più paesi. Ma in questa scissione di cielo e terra c´è un falso rispetto della gente di un posto, una falsa idea di invasione, come se invadessero solo i piedi sul suolo, e non le macchine nell´aria. Fu così in Kosovo, dettaglio (!) che rese odioso un intervento giustificato. Non si può decidere una volta per tutte, ma quella scelta dall´alto è lontana da un´azione di polizia, e più ancora da un´azione che voglia essere preventiva e di interposizione. E i mezzi della guerra, con la loro smisuratezza, conducono spesso a protrarre la violenza e a moltiplicarne le vittime. Prevenzione e interposizione sono rare, benché siano il cuore di ogni governo delle cose. E questo può riguardare anche le persone singole. Sorriderete se insinuo che l´amicone italiano di Gheddafi avrebbe potuto anche andarlo a disturbare di persona, a Tripoli, a dirgli che non era bene mandare aerei e carri armati contro il suo popolo, e provare a farlo ragionare. Non era possibile nessuna di queste cose, né che il pazzo di Tripoli ragionasse, né che l´amicone italiano andasse a provarci. Se ne può trarre una conclusione, su chi sta al governo là e qua.
I nemici di principio di ogni “ingerenzaâ€, i beffatori dell´aggettivo “umanitarioâ€, abusato sì, ma non al punto di bandirne l´uso, avvertono anche sull´esito cui ogni intervento è destinato a condurre: nella Libia di oggi, a un gheddafismo senza Gheddafi, o a un´avanzata islamista. È possibile, probabile. Ma c´è una possibilità che non sia così, e ci riguarda. E intanto la ribellione è avvenuta, e che la gente che grida: “We are freedomâ€, non sa bene l´inglese, ma sa che cosa spera. Ho visto dei consuntivi che assegnano la liberazione della Libia per il 70 per cento alla Nato, per il 20 ai ribelli, per il 10 alla defezione della cerchia del capo. «Siamo liberi», abbiamo gridato da noi nel 1861, o nel 1945: la percentuale straniera era stata molto forte, ma furono belle giornate.
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