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Un altro “ciclo di vita”

L’espressione è sfuggita per la prima volta al ministro più esposto del governo, quella Elsa Fornero che – occupandosi di pensioni e lavoro – proprio non può nascondere le proprie deliberazioni sotto lo spesso tappeto delle questioni solo “tecniche”. Ogni sua mossa tocca infatti immediatamente “il ciclo di vita” di ognuno di noi. Ci fa male, insomma.

Ma che vuole dire? Lasciamo al loro delirio i sacerdoti della ”biopolitica”, che hanno trovato qui un gancio cui appendere formulazioni fantasiose e stantie sulla presunta “novità” della politica post-moderna: il “disciplinamento e messa a valore dei corpi”. Come se la politica – nell’ultimo milione di anni – si fosse occupata di cose diverse dall’organizzazione delle popolazioni e dalla redistribuzione delle richezza prodotta secondo (mutevoli e mutabili) rapporti di forza tra le classi sociali… Ossia di esseri umani, corpulenti o macilenti, gaudenti o dolenti.

L’editoriale di Maurizio Ferrera sul Corsera di oggi ha il pregio di dare qualche concretezza a un’espressione un po’ troppo rarefatta, attaccando il sistema di welfare in vigore in Italia. I punti dolenti di questo sistema sono davvero molti, ne facciamo tutti esperienza ogni giorno. E’ vero, “L’ingresso nel mercato del lavoro è un calvario, quasi privo di accompagnamenti che non siano quelli familiari e clientelari. Quando si esce dalla casa dei genitori, quando arrivano i figli, quando si cerca di conciliare famiglia e lavoro bisogna fare salti mortali: i servizi non ci sono. Durante la fase adulta solo la metà dei lavoratori italiani gode di prestazioni paragonabili a quelle degli altri Paesi Ue, gli altri si devono arrangiare come possono”.

Possiamo forse contestarlo? Naturalmente no. Ma, come avrebbe detto Totò, quando un editoriale del Corsera sembra darci ragione deve essere letto fino in fondo, perché “voglio proprio vedere dove questo vuole arrivare”.

Non troppo lontano. “Invece di sostenere il ciclo di vita a partire dall’infanzia, con un occhio di riguardo per i più deboli, il welfare ha finora privilegiato la fase della vecchiaia, per giunta con eccessivo riguardo per i più forti”. Chi di noi non si indigna per l’assegno pensionistico percepito ogni mese da Amato o Ciampi, Draghi o Cirino Pomicino?

Ma ce l’ha davvero con loro? Naturalmente no, ci mancherebbe… Ce l’ha con “l’improduttività” di chiunque resti fuori dal ciclo lavorativo, anziano o giovane che sia. Ma non si può prendersela con i giovani disoccupati che non riescono a iniziare a lavorare, né con i cinquantenni licenziati o cassintegrati che nessuno vuole assumere. E quindi meglio giocare l’antica carta delle divisione tra buoni e cattivi, tra giovani e anziani, tra “scoperti” e “protetti”.

Lasciamo Ferrera al suo triste compito di imbonitore e osserviamo invece i tratti salienti del “disegno ambizioso” che questo governo vuol mettere in pratica. Il “ciclo di vita” viene a coincidere con il “ciclo di lavoro”, senza tregue che non siano dettate dalle crisi contingenti. Si può rimanere senza lavoro, se le aziende chiudono e riducono il personale. Ma non si può più avere diritto al riposo, al vivere una porzione anche piccola di vita liberata dalla prestazione salariata. A meno di non esser ricchi, ovviamente.

E’ assolutamente evidente che l’Italia non è la Danimarca o la Svezia. E che quindi la flexsecurity, qui, non avrebbe mai il grado di copertura dei periodi di disoccupazione lassù assicurati (messi peraltro in discussione dal prolungarsi della crisi globale). E’ assolutamente evidente, dunque, che la “riforma del ciclo di vita” – qui – si traduce in un obbligo alla precarietà generale. Un nuovo modello sociale, in definitiva, che non prevede spazi di autonomia, contrattazione, sottrazione di energia e tempo al diktat capitalistico della messa a valore.

E’ assolutamente evidente che da questa crisi pensano di poter uscire “riducendo il capitale in eccesso”, ma che non possono usare la guerra come avvenuto fino all’avvento dell’arma nucleare. Parliamo della “guerra simmetrica”, tra potenze di pari grado, in cui la distruzione di capitale altrui e di pare del proprio costituisce la condizione di riavvio di una nuova fase di espansione. Di struggere una Libia o in Iraq assicura riserve di petrolio, ma non aiuta “la ripresa”, come si è visto. Eppure devono distruggere capitale in eccesso: finanziario, industriale, commerciale, umano. Quella “riforma del ciclo di vita” ha un significato molto più sinistro, insomma.

E’ assolutamente evidente, infine, che indietro non si torna. Di fronte a un assalto con queste ambizioni non ci si può illudere di “resistere” cercando di riannodare il filo di relazioni sindacali o partitiche già dissolte, alla ricerca del “recupero” di condizioni giuridiche e contrattuali ormai affossate. Da qui inizia una storia nuova, un conflitto sociale su altre basi, in cui la retorica dei diritti acquisiti deve lasciare progressivamente il campo alla pratica degli interessi da affermare. Non è semplice, ma non c’è altra strada. Ce lo dicono gli uomini della Trilateral paracadutati dentro Palazzo Chigi. Sarà bene prenderne atto.

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1 Commento


  • ipanema66

    Il problema è, che in attesa di una pratica di interessi da affermare, di cui non vedo la nascita , il capitale resta lì a devastare ogni residuo di socialità condivisa . é tra le fila del proletariato che stenta a farsi strada una reale coscienza di classe. Quindi ben venga ogni tentativo di resistenza . Se il progetto è di devastare le vite dei produttori di plusvalore vendiamo cara la pelle!

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