Fin dall’insediamento del governo Monti, vista l’anomalia della sua formazione rispetto alla prassi parlamentare, e soprattutto l’origine extraparlamentare del suo “programma di governo”, abbiamo parlato di invasione. Non vale infatti l’esempio dei governi Ciampi o Dini, al loro tempo “invocati” dalla politica che non riusciva a risolvere le proprie contraddizioni. Monti è arrivato per sostituirela politica; praticamente per sempre.
L’irruzione della polizia nel bar di Chianocco, in Val Susa, le stesse immagini ormai note del confronto tra l’operaio No Tav e il carabiniere “pecorella” o della caduta (tagliata) di Luca Abbà dal traliccio, portano il marchio indelebile delle “truppe d’occupazione”.
Lo “Stato” non è più “italiano”, in grande misura. Certo, il governo e i poliziotti hanno in tasca il passaporto corrispondente, parlano – più o meno bene – questa lingua. Ma il loro rapporto con la popolazione che abita questo paese è diventato un altro.
Il governo non “rappresenta” più la sintesi democratica dei diversi interessi sociali in campo, condensati in partiti, sindacati, associazioni, ecc; ma un programma di ristrutturazione del “modello sociale europeo” deciso ai piani alti di un trio di istituzioni (Unione europea, Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea) che detiene la governance del continente. Ricordiamo che governance è termine del linguaggio aziendale, non della dialettica politica. Il “governo dell’impresa” non prevede internamente nessuna opposizione legittima e quando comunque se ne forma una (i lavoratori associati in sindacati, per esempio) tende a cancellarla. In democrazia, l’opposizione di oggi sarebbe il governo futuro, o viceversa.
Non è più così. Il cinguettìo tra Berlusconi, Bersani e Casini su come garantire la prosecuzione di un “governo tecnico” anche nella prossima legislatura (si vota tra un anno) sta lì a dimostrare che non sarà più così. A lungo.
Un governo di “invasori” che agisce per conto di interessi “altri” non ha alcun interesse né rispetto particolare per la parte di popolazione – fortemente maggioritaria – che non ha nulla da guadagnare dalle politiche decise sulla propria testa. Certo, quel governo si pone il problema del consenso, o comunque di “intortare” al meglio il pubblico, innalzando una barriera di imbonitori tra i fatti messi in opere e la presa di coscienza. Certo, starà bene attento a curare i rapporti con gli interessi corporativi che hanno fin lì garantito la “governabilità” (dai tassisti alle banche, dalla grande malavita organizzata a Confindustria). Certo, si preoccuperà di coltivare dei Quisling volenterosi, magari più attendibili del giovane Martone di turno. Ma scompare la mediazione sociale e politica, persino nella forma bastarda e subordinante della “concertazione” sperimentata dall’inizio degli anni ’90 in poi.
“Il popolo”, da questo tipo di leadership, è vissuto ormai come un “problema”, non come una “risorsa”.
Da questo governo discendono delle linee di comando, e a sua protezione convergono i media mainstream di proprietà dei gruppi imprenditoriali più importanti. Forze militari “occupanti” e propaganda vanno a costituire dunque un campo di “servizi indispensabili” alla governance.
Aggressività fisica sopra gli standard della “normale” repressione e demonizzazione dei “resistenti” vanno obbligariamente di pari passo. L’assenza di mediazione sociale e politica diventa immediatamente comunicazione impossibile con l’opposizione, qualunque cosa faccia. Le presunte divisioni tra “violenti” e “pacifici” sono schemi retorici obbligati, altrimenti alla propaganda di regime non resterebbe che la criminalizzazione (etnica, razziale, culturale?) di un’intera regione. Le forze militari – lo constatiamo nei video o di persona – agiscono esattamente in questo modo, considerando “i civili” che incontrano sulla loro strada come “potenziali nemici”. I media debbono invece mantenere almeno la finzione della dialettica democratica, sforzandosi di imbastire un racconto che riconduca il nuovo (un territorio che compattamente si oppone) all’antico (“dentro ogni protesta cova il germe della violenza politica”).
In questo sforzo, però, si comincia da subito a vedere che la prima cosa a soccombere è la pretesa di terzietà del lavoro giornalistico. Se non c’è mediazione, non c’è un possibile punto di vista “terzo”, “al di sopra delle parti”, “obiettivo”. E l’informazione si fa immediatamente embedded.
Non è insomma un caso che una troupe del Corriere si sia inoltrata in “territorio ostile” a bordo di un pickup con tanto di lampeggiante poliziottesco. Erano in Val di Susa con la psicologia da “inviato di guerra” che avevano visto all’opera, magari in altri “colleghi”, a Baghdad o a Tripoli. Militari e giornalisti dell’invasore, insomma, scivolano rapidamente nelle fila degli invasati.
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