Sette morti, quasi dieci, quasi schiavi. Lavoratori, ovviamente. Cinesi per caso, per cultura, per filiera o specializzazione produttiva. Per noncuranza dello Stato in cui erano arrivati. Attirati, certamente, da connazionali già incistati come un corpo estraneo in un tessuto produttivo malato. E mai rilevato da una struttura del controllo che si ferma sempre – geneticamente – davanti all’”imprenditore”.
Se l’impresa è il bene supremo, non ci si deve scandalizzare troppo né farne una questione di nazionalità. E a quanti capitano nelle grinfie dell’impresa, in fondo, si sa che non possono esser più garantiti diritti. Di nessun genere, spessore, certezza. Questo è il primo comandamento della nuova legge – italiana, europea, capitalista – che imperava in modo soft da quasi un Ventennio; ma che, con la crisi, ha preteso la consolle di comando. A ogni livello.
Certo. Gli operai con padrone “italiano” non dormono in loculi di fianco alla sala macchine.
Certo. Anche i precari con padrone “italiano”, probabilmente, guadagnano più di quel che venivano pagati quei dieci corpi distrutti. E che per questo non si potevano permettere un alloggio individuale, a proprie spese.
Certo. Probabilmente erano “clandestini” e magari persino consapevolmente “complici” dei loro aguzzini – ora assassini – fin da quando avevano lasciato il paese natale.
Ma vivevano e lavoravano qui. In un paese il cui Stato occhiuto tiene di mira soltanto chi protesta, s’oppone, turba l’equilibrio sonnolento dello sfruttamento intensivo. Chi obbedisce in silenzio non merita le “attenzioni” dello Stato, ma neanche la “protezione”. Un “imprenditore privato”, se pure sfrutta dei suoi connazionali clandestini, è comunque “persona rispettabile”, “portatore di ricchezza”, “risorsa produttiva”. Un valore. Se non suonasse come ossimoro direbbero persino un “bene comune”.
Tutti sapevano, come tutti sappiamo. Sapevano gli ispettorati del lavoro, carabinieri, polizia, guardia di finanza, Comune di Prato, vigili urbani, quanti frequentano gli stabilimenti vicini. Sapevano quelli che potevano denunciare, se non intervenire direttamente. Ma soprattutto sapevano e sanno – di cento o mile altri casi simili – quanti dovevano intervenire; per dovere istituzionale e stipendio messo in tasca.
Non è una tragedia “cinese”. Il paese d’origine è stato certamente teatro di uno sfruttamento altrettanto totale di quello praticato su queste dieci vittime italiane. Ma se ne sta lentamente tirando fuori. Aumentano lì i salari (del 15% l’anno, in media), si introducono istituti di welfare e di altri se ne pianifica la costituzione.
Qui si va nella direzione opposta. Il “modello di sviluppo” della fabbrica di Prato è quasi un esempio di “competitività”, giusto un po’ “sconveniente” sul piano morale o dei diritti umani.
Stiamo esagerando, “tirando al limite” la validità generale di un episodio particolare? Ma solo portando alle estreme conseguenze – logiche e empiriche – i processi di trasformazione in corso si può intravedere il traguardo, il punto d’arrivo. L’obiettivo di certe “riforme strutturali”.
La fabbrica di Prato ci indica il nostro futuro, perlomeno nella testa della Troika e dei suoi servitorelli, quelli che ci governano.
Certo, dormiremo nei nostri letti e non in fabbrica. Per le fabbriche di questo tipo di futuro sarebbe un costo in più. Da tagliare.
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