Uno sconfitto clamoroso, nelle elezioni italiane per il parlamento europeo, sicuramente c’è: gli exit poll. Mai come questa volta la rilevazione a campione fuori dai seggi elettorali ha fornito dati fantasiosi, in contrasto aperto cone la realtà del voto. Chi fosse andato a letto intorno alla mezzanotte si è addormentato “sapendo” che Renzi veniva dato poco sopra il 30%, mentre Grillo viaggiava poco sotto. Riaprendo gli occhi ha appreso che Renzi aveva “trionfato sfiorando il 41%, mentre il comico genovese retrocedeva intorno al 21%, parecchio sotto i risultati di appena un anno fa. In via di dissoluzione il blocco berlusconiano, trasmigrato nel bacino elettorale “democratico” (il Nordest…) in misura molto più consistente che in quello alfaniano, salvatosi per il rotto della cuffia (appena sopra la soglia del 4%, come anche la lista Tsipras).
I dati definitivi sono comunque questi:
Prima di provare ad analizzare la nuova situazione conviene sottolineare una dato che i media mainstream stanno attentamente sottovalutando: i votanti per le europee sono molti meno (58,69%) dei partecipanti al voto per le concomitanti amministrative (quasi il 71%). Senza entrare troppo nei dettagli territoriali, ci basta dare un’occhiata ai risultati della regione Piemonte per avere un riscontro della minore “attrattività” del voto continentale rispetto a quello “concreto” (con tutto quel che significa in un paese come questo): per le regionali ha votato il 66,43%, per le europee il 67,44. Dieci-undici punti sopra la media nazionale. Significa che gli elettori sono andati al seggio soprattutto per decidere chi dovrà amministrare il territorio, mentre là dove bisognava andarci solo “per l’Europa” l’affluenza è stata assai meno entusiasta. Persino in Piemonte, per esempio, una parte dei votanti ha rifiutato la scheda europea (un gesto che certamente non poteva avere una dimensione “di massa”). Senza il “traino” delle amministrative, insomma, la partecipazione sarebbe stata assai più bassa.
L’astensionismo è stato comunque significativo (-8% rispetto alle elezioni europee di cinque anni fa), anche se minore del previsto, sperato o paventato. Un segno di sfiducia crescente nella prospettiva astrattamente “europeista”, messa a dura prova da sette anni di crisi e di politiche a senso unico contro il lavoro e i redditi da lavoro dipendente, di precarizzazione e taglio del welfare.
Pagato il doveroso prezzo ai numeri, l’immagine del paese che ne emerge è da spavento. Per settimane si sono confrontati tre leader extraparlamentari (Renzi, Grillo e Berlusconi), esplicitamente orientati in senso populista sia per quanto riguarda i “programmi” (nessuno saprebbe descriverli con precisione, al di fuori degli staff), sia – o soprattutto – nella modalità di comunicazione politica. Tutti e tre si ponevano come “salvatori della patria”, tutti e tre chiedevano un voto per imporre “gli interessi italiani in Europa”, tutti e tre – con toni appena diversi – promettevano che avrebbero “cambiato l’Europa” mettendo fine alle politiche di austerità.
Le diversità tra i tre sono altrettanto evidenti. Berlusconi non rappresenta più il punto di coagulo tra interessi imprenditoriali “presentabili” ed economia “impresentabile” (sommerso, evasione fiscale, gerachie vaticane, criminalità organizzata capace di controllare interi territori, ecc). Parti consistenti del suo blocco sociale si sono manifestamente “esternalizzate” cercando rifugio nella bolla speculativa renziana. Ora può soltanto accelerare la frana.
Grillo, tra i tre, era quello con alle spalle un consenso trasversale genericamente “popolare”, senza un nucleo sociale centrale in grado di polarizzare altri strati di dimensioni minori. Il suo schema politico e comunicazionale, tra i tre, è quello che più assomiglia alla parabola del “qualunquismo” di Guglielmo Giannini (anni ’50). Uno schema “masanelliano” che può funzionare unicamente in un trend di crescita continua, perché non possiede una “cultura politica” in grado di spiegare le battute d’arresto o le sconfitte. Il silenzio che da ieri sera emana dal suo entourage ne è una dimostrazione concreta.
Lo schema renziano, vincente, è invece quello del populismo di regime. Arrivato a palazzo Chigi senza alcuna legittimazione popolare (le “primarie” del Pd sono state una barzelletta…) si giocava molto in questo passaggio elettorale. È il “volto nuovo” dei vecchi poteri, il punto di convergenza tra costruzione reazionaria dell’Unione Europea e potentati nazionali; doveva dimostrare di saper coagulare consensi intorno a politiche decisamente impopolari ricorrendo a escamotage apertamente populisti (clamoroso quello degli “80 euro in busta paga”; che non ci sono nemmeno a maggio, ma qualche voto gliel’hanno portato lo stesso).
Come nel fascismo di cento anni fa, il populismo di regime nasce “socialista” o socialdemocratico, coglie la fine di un’epoca e si propone come rinnovamento generale (“rottamazione”) mentre consolida la parte più efficiente e competitiva del vecchio assetto di potere. Punta dichiaratamente a distruggere i “corpi intermedi” tra società civile e istituzioni (partiti e sindacati, dunque) e a stabilire un rapporto diretto con “il popolo”, saltando a pie’ pari il potere di blocco dei gruppi di interesse consolidati.
La parte di paese che si “si affida” è un mix di interessi strutturati, illusioni e paure. Tra i tre populismi è riuscito a sembrare quello con i piedi più piantati per terra, grazie ovviamente a una informazione a senso unico che mai come questa volta deve essere definita di regime.
Non ci sono molti dubbi, a questo punto, su ciò che accadrà nei prossimi mesi. Il governo ne esce rafforzato e completamente identificato con l’attore fiorentino. Andrà avanti come un treno sulle cosiddette “riforme strutturali” (a cominciare dal mercato del lavoro, su cui c’è da attendersi un’accelerazione del “jobs act”) e soprattutto su quelle costituzionali. Su questi due fronti i dubbi – sindacali o di costituzionalisti – verranno spazzati via come neve tardiva di primavera.
Il semestre europeo a guida italiana rappresenta anche la finesta di “stabilità” entro cui non ci saranno più fibrillazioni politiche interne al palazzo. E solo il prossimo anni sapremo se il consenso attualmente aggregato sarà rimasto ancora addosso al premier. Se sì, ci attende la legge truffa anticostituzionale chiamata “Italicum” e probabilmente il tentativo di elezioni plebiscitarie.
Qualsiasi ragionamento di opposizione di classe deve partire da questi dati di fatto. Il paese, e soprattutto gli strati sociali più “nostri”, appaiono totalmente disarmati di fronte a questo caterpillar. Non c’è spazio per fughe in avanti della “soggettività”, non c’è spazio per attendismi nella gestione dell’indispensabile conflitto sociale.
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