Il discorso di Giorgio Napolitano avrebbe potuto essere intitolato anche “ma cosa ho combinato?”. Il primo esponente del Pci a criticare Enrico Berlinguer sul tema della “questione morale”, è stato costretto a ripiegare proprio sulla “crisi morale” per tentare di circoscrivere o spiegare in quale discarica si è ritrovata impantanata “la politica”.
Ma non può esistere alcuna “morale” senza conflitto palese tra valori chiaramente definiti, tra interessi sociali distinti e spesso contrapposti. Non può esistere nessuna morale se tutta “la politica” è ridotta al marasma per individuare chi – in un mazzo non troppo esteso di nomi – debba mettere in pratica le indicazioni provenienti da Unione Europea, Bce e Fmi.
A maggior ragione, dunque, appare un lamento fuori tempo quella condanna di una lunga serie di fenomeni diversi, racchiusi sbrigativamente nello scatolone dell’”antipolitica”, dipinta addirittura come “patologia eversiva”. Venti anni dopo Tangentopoli e la scomparsa dei partiti come portatori di differenti visioni del mondo (liberali, comunisti, socialisti, democristiani, ecc), in un tripudio di semplificazioni miranti a fondare il “pensiero unico” – esistono e comandano soltanto “i mercati” – scoprire che “la politica ufficiale” è ormai soltanto un mondo di mezzo, vissuto quotidianamente come tale da chi sta sotto e manovrato come tale da chi sta sopra, non dovrebbe stupire più nessuno.
Meno di tutti chi, come Giorgio Napolitano, ha speso tutta la sua capacità di mediazione e persuasione nell’annullare le differenze tra schieramenti politici dai contorni – e dai valori – già fin troppo simili. “Siamo tutti liberali”, cantavano convinti gli ex Pci abbracciati agli ex democristiani “progressisti”. L’unico vallo di Adriano rimanente riguardava appunto la “questione morale”, la separazione tra chi portava le mafie e il conflitto di interessi ai massimi livelli istituzionali (il “blocco sociale berlusconiano”) e chi invece pensava di poter creare un ambiente capitalisticamente “normale”, quasi mitteleuropeo. Ma persino questa differenza minimale era parsa eccessiva a Giorgio Napolitano (e non solo a lui, naturalmente), tanto da motivarne un attivismo presidenzialista che neanche Cossiga avrebbe osato immaginare. E tutto indirizzato a sopire i contrasti, costruire le “convergenze”, annullare le “contrapposizioni ideologiche”. Di superare la politica novecentesca, insomma, quella senza virgolette. Una lunga azione antipolitica in senso stretto, si può dire.
Un sforzo trentennale coronato da un clamoroso successo, ammettiamolo. Ora ha davanti una melma liquida “dove tutto si mischia”, dove gli ex Nar scorazzano nelle istituzioni a braccetto con le coop ex “rosse”, dove ogni “contrapposizione ideologica” è stata soppressa in nome del più sacro dei valori capitalistici: l’interesse privato.
Da dove dovrebbe nascere, in questo quadro, una nuova “passione dei giovani per la politica”? O dall’ansia di trovare un mestiere molto ben remunerato, almeno finché non ti becca qualche magistrato, oppure dall’opposizione totale, netta, radicale – “ideologica”, direbbe ancora Napolitano – a questo puzzolente mondo di mezzo. Passione politica per il rovesciamento generale di questo modo inumano e fetente di vivere, produrre, distribuire, sopravvivere, prostituirsi.
Ed è proprio Giorgio Napolitano a cogliere – in negativo, ovviamente – il punto di congiunzione “pericoloso” tra questa spinta “antipolitica” e il crescente sentiment antieuropeista. Ma le due cose sono inevitabilmente intrecciate.
È la modalità stessa in cui è stata costruita l’Unione Europea ad aver distrutto le differenze politiche all’interno dei singoli paesi. È proprio l’imperscrutabilità tecnica della governance europea a cancellare ogni possibile alternativa nella definizione delle scelte di politica economica, sociale, fiscale; a dettare “riforme strutturali” esplicitamente a favore dei “mercati” o delle grandi imprese e altrettanto esplicitamente contro le figure sociali componenti il mondo di sotto. A far insomma passare il messaggio “state lontani dalla lotta politica, tanto voi non potete decidere più nulla”.
Se il comando politico viene dunque sottratto al contrasto esplicito tra interessi sociali diversi, se le forze portatrici di interessi sociali divergenti debbono esser eliminate dall’agone politico o sindacale, se la “rappresentanza” viene selezionata a monte – dal mondo di sopra – e poi imposta a forza “ai morti”, a quelli che, se si rifiutano di andare a votare, “è un problema secondario” (Renzi dixit)… come si fa a tener separati il rifiuto di questa “politica” dal rifiuto dell’Unione Europea? Sono due facce della stessa medaglia, simul stabunt, simul cadent.
Naturalmente la “caduta” può avvenire in almeno due direzioni opposte. La più evidente e minacciosa, al presente, è “l’uscita a destra”, verso la rinascita del nazionalismo feroce, razzista, xenofobo, ignorante e ottuso, fascioleghista.
C’è un’altra direzione possibile. Tutta ancora da costruire. È la via che tiene insieme rottura dell’Unione Europea e superamento del capitalismo in crisi, visione internazionalista e costruzione di un mondo comune, emancipazione sociale reale ed evoluzione della partecipazione democratica, restituendo protagonismo e passione alla grande maggioranza della popolazione (italiana, europea, mediterranea).
Ma è la via che ai vari Giorgio Napolitano non è mai piaciuta.
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